Paolo Carlucci, Sergej Esenin e le sue icone di segale e di cielo
“O Patria / Mio campo russo.”
Dalle campagne alla città.
La rivoluzione tradita di Rus’
Ei tu, Rus’ amata mia.
Capanne – e icone incorniciate…
Non si vede né limite, né fine-
Solo l’azzurro che succhia gli occhi.
In questi versi si respira il cielo-cuore russo che pulsa nella profonda, fiabesca rivoluzione di colori e immagini, presente in tutta la poetica di Sergej A. Esenin (1895-1925).
Per capire quanto il russo fosse altro dal sovietico uomo nuovo, basterebbe pensare all’avversione di Bucharin per la poesia “piagnucolosa ed ubriaca”, quale egli considerava appunto la produzione eseniana: sulla scorta di scritti letterari di Lenin, sin dal 1914, ideologo in fieri di una Russia nuova, operaia e contadina, capace di sovvertire in nome del progresso proletario, l’espressione di un’altra antica Russia, tenebrosa, volgare, alcolizzata, insomma arcaica e feudale, che il marxismo leninismo, ateizzando le masse, avrebbe condotto nel progresso del comunismo, paradiso pesante di fabbriche e collettivismo agrario.
Vanno dunque a intendersi, molti poemi eseniani, quasi come Bibbie campestri, sacre e pagane di rivolta, specie contro l’industrializzazione forzata e devastante, e solchi profondi di mentalità, sconvolte da rosse tempeste operaiste in armi. Cantare le… pannocchie del Capitale sembra l’intento di Esenin e di altri poeti e intellettuali inscrivibili nella galassia dei poeti contadini, e dei mistici del colombo d’argento, del villaggio e delle frittelle, per dirla sempre con lo sprezzante Bucharin.
La poesia di Esenin è sconfinatamente sincera nelle sue arditezze immaginiste, di una Rus’ liricamente sentita nella sua essenza profonda: rustica e celeste. Il suo mondo è appunto nel villaggio, mito di natura sempre colto in senso primigenio. In molte delle sue liriche, Esenin vive il trauma psicologico e socioculturale delle due vie: la doroga, la strada dei campi, cui si contrappone la ulica, cioè la via di città. Nel mondo della poesia russa del primo Novecento, il lirismo assoluto di Esenin è sangue della tradizione russa. Il tamburino del cielo si erge a scudo di… grano mistico (sic!). E Sergej è il poeta che più d’ogni altro, della terra patria Rus’, ha fatto il proprio vangelo di versi e sogni, preziosi e da cortile…
Toni fiabeschi ha la sua visione della lotta-caccia simbolica contro la città diabolica, che ha schiacciato il collo del villaggio. Così parla della sua amata Rus’: «Terra mia d’oro/ autunnale chiesa luminosa! / uno stormo di gridanti oche/ s’ innalza verso le nubi.»
Originale e potente come un’icona di segale e di cielo, Esenin si presenta, nei suoi versi cesellati per la rivoluzione spirituale delle campagne, ma argentate dalla falce di luna di Rus’, coerentemente col proprio mondo fulgido e miserabile. Esenin, il teppista delle città, si fa nelle bettole profeta antico e futuribile del vomere, proprio di fronte al telegrafo moderno della Storia e del Futurismo sovietico, egli pianta la speranza antica e primitiva dell’acero rosso, della bianca betulla. La betulla della Rivoluzione! Albero di cielo scuro di terra che, oltre l’Ottobre internazionalista e leniniano, dovrebbe fiorire una rinascita universale di bene salvifico del villaggio mito di Rus’.
In quest’ottica di favola contadina, Esenin è antitetico quindi alla visione proletaria ed elettrica di un Majakovskij. Apocalittico delle campagne, Esenin appare, infatti, artefice di una poesia percorsa strutturalmente da un potente respiro di vento e di terra. I suoi versi incidono e squadrano categorie di oralità e folklore russo, non panslavista, né internazionalista. Solo il messianico senso di un’attesa lo accosta al comunismo e forse al Marx de Il Manifesto del partito comunista: eroica storia della rivoluzione borghese contro l’idillio presunto delle campagne dell’età pre industriale. Ma il Poeta non è un filosofo sociale, anzi sulle orme di un messianismo pansofico, incarnato principalmente da Kljiuev, Esenin è un idiota della politica bolscevica, egli è un profeta-poeta, che pensa e scrive in chiave del tutto apolitica e sinceramente anti-internazionalistica. Da qui si può capire il disprezzo e l’astio dei Rivoluzionari sovietici. Esemplari questi versi di Primavera:
Terra, terra!
Tu non sei metallo-
Il metallo sai
Non lascia sbocciare le gemme.
È sufficiente leggiucchiare
Una riga
E a un tratto-
Capisci il “Capitale”
Grandioso Poeta dell’aia, del paradiso contadino della fattoria che guarda i lunghi fiumi di Rus, questo è l’usignolo russo Esenin! Il Poeta riprende, vivide di sacrilegio, evocative immagini di culti agrari. «Le nubi abbaiano/ ruggisce l’alto dei cieli dai denti d’oro…/ io canto e invoco: Signore partorisci! Alle porte del paradiso/ io busso/fascia con le stelle/ la vitellina Rus’.» Visionario immaginista e pope-sciamano della Natura, Esenin, il contadino-poeta ci offre immense scene di liturgia agraria e prativo campestre di una Rus’ in cammino di speranza verso la nuova Inonija: una sorta di Gerusalemme celeste e cerealicola, oltre ogni dottrina politica sociale, ma essenzialmente in chiave simbolica, spirituale, fallimentare nel suo vitalismo ancestrale e non politico, specie negli anni della costruzione del mondo nuovo dei Soviet, cui pure Esenin guardò principalmente con fanciullesca meraviglia di poeta ansioso di avvenire. Per poi cadere in errori, deviazioni e delusioni cocenti fino al suicidio del dicembre del 1925.
Ma ben prima del suo gesto, egli era presago della sua fine di suicida, già teppista nel demone della città.
e seppelliranno me non lavato
accompagnato dall’abbaiare dei cani
e una verde sera sotto la finestra
mi impiccherò alla sua manica.
Poeta dell’attesa messianica di un grande rivolgimento, parla con toni biblici. Vede che sulle nubi corre una giumenta, costruisce versi ispirati per liturgie di un’utopia rurale, retaggi simbolisti di una semplice religiosità contadina.
Ho veduto un altro avvento
dove la morte non balla sulla verità
Come una pecora dal vello brutto
raserò il cielo azzurro.
Ecco sempre che l’immagine umile e concreta della vita contadina si ravviva dei colori della palingenesi. Cielo e Cristo riportati al vello d’una pecora, vetta di speranza e poesia. Ancora una sacrilega immagine di credo capovolto.
E, immerso nel mare del grano, dalla bocca
mi sfugge un’immagine: il cielo sgravato
lecca il suo rosso vitellino.
E ancora ci regala, nuovo Glazunov della poesia, sconfinate e liriche immagini della sua Rus’ celebrata in questo suo grande poema contadino. Esenin, come antropologo delle strutture russe e poeta, documenta anche il progressivo tradimento di ideali falciati dall’arido vero d’una Realtà che ha cancellato odori e isbe della memoria. Di questa singolare rivoluzione tradita nella terra di Rus’, Esenin si fa davvero usignolo in favola di ricordanza.
Mi piace, quando le fitte boscaglie blu
come un grave incedere di buoi,
con le pance, scricchiolanti di foglie,
insudiciano le ginocchia dei tronchi.
[…] Eccolo, il mio fulvo armento!
Chi poteva cantarlo meglio?
Vedo, vedo, come i crepuscoli leccano le tracce dei piedi umani.
Mia Rus’ di legno! Io solo sono il tuo cantore e araldo.
La tristezza dei miei versi ferini
l’ho nutrita di reseda e menta.
Contadino focoso tra segale e betulle, Esenin si farà poi teppista-chuligan nell’infernaccio delle città, nel chiaroscuro dei marginali di una rivoluzione dell’anima tradita e umiliata dal materialismo operaista. L’opera di Serghej A. Esenin ci affascina soprattutto in questa chiave di autentico e tremendo visionario della terra come poema di natura. Poeta ancestrale d’animali e riti di colori senza tempo, Esenin li ha immersi nello stagno del Sacro. La singolare icona a colori dei suoi versi splende precristiana, pagana, preziosa e rustica sempre, rinvia spesso a ricordi di vita trasfusi in leggende, come in una favola di Puskin o Afanasijev, con i colori del sogno di Chagall.
Esenin è sì l’usignolo russo, ma soprattutto incarna la corsa del puledro sconfitto dalla velocità della locomotiva, dal sovrapporsi scientifico del socialismo sovietico sulla Rus’ delle campagne e delle rusalke, spezzate dall’operaismo in nome di una nuova Rus’ sovietica leninista, intesa inizialmente anche dal nostro, ma non come un lettore del Capitale o delle teorie leniniste, quanto piuttosto intesa con pathos selvaggio e viscerale di speranza.
Poetica Utopica, e imaginista, di una nuova Inonija. Esenin è dunque il Poeta del villaggio (деревня-derevnya), lo strenuo costruttore di un utopismo rurale colorato di lirismo e memoria. Icona di palingenesi contadina, la falce, cantata all’antica è stata travolta dal rosso martello proletario.
Recuperare in canto lirico le matrici della cultura contadina della Rus’ insidiata dalla locomotiva del progresso tecnico e storico-sociale, fu lo scopo precipuo di Esenin.
Nelle buche è affondato il villaggio
le isbe le hanno nascoste i boschi.
Si vede solo, sulle gobbe e nelle bassure,
come intorno azzurreggiano i cieli… ma ti amo mite patria!
E perché- non lo posso indovinare
è gaia la tua breve gioia
con la risonante canzone sul prato
mi piace sul luogo della falciatura
ascoltare di sera il ronzio delle zanzare
e non appena i ragazzi suonano la la tal’janka
escono le ragazze a danzare presso i falò
Si accendono come ribes nero
i carboni-occhi nell’arco delle sopracciglia
Ohi tu Rus’, amata patria,
è dolce il riposo sulla seta di erba angelica…..
Io ho decifrato i loro innumeri pensieri
non le spaventerà né il tuono né il buio.
All’aratro ci sono i canti più segreti
in cui non appare né morte né prigione.
Quando Esenin, nel 1914, compone La Rus’, uno dei suoi poemetti più famosi, ha in nuce il suo sogno, e il suo supplizio nel mondo che precipita nel fuoco della grande guerra che porrà fine in Europa a vari mondi di ieri, in nome del futuro: edizione straordinaria!, la guerra è dichiarata, dirà Majakovskij. Ma Esenin già sa e conosce, per opposto, il pianto della ragazza russa tra le betulle, sente già il fucile che uccide l’amore della rusalka, la morte della fiaba russa in nome della realtà di ferro e soviet che verrà.
Poi sarà solo la lotta, un’armata a cavallo di fame e crudeltà. Della sua Rus’ tradita rivoluzione dello spirito, resterà solo il vento, la neve, il sangue, come Blok aveva scritto già profeticamente nel suo canto del cigno, I Dodici.
Bibliografia e riferimenti ai testi
Sergej A. Esenin, Poesie e poemetti, a cura di E. Bazzarelli, Rizzoli, Milano, 2000
Poesia russa del Novecento, a cura di A. M. Ripellino, Guanda, Parma, 1954
V.F. Chodasevic, Necropoli, Adelphi, Milano, 1985
Pasternak, Autobiografia, Feltrinelli, Milano, 2007