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Il demone dell’analogia #8: Saffo

«Una strana amicizia, i libri hanno una strana amicizia l’uno per l’altro. Se li chiudiamo nella mente di una persona bene educata (un critico è soltanto questo), lì al chiuso, al caldo, serrati, provano un’allegria, una felicità come noi, esseri umani, non abbiamo mai conosciuto. Scoprono di assomigliarsi l’un l’altro. E ognuno di loro lancia frecce, bagliori di gioia verso gli altri libri che sembrano (e sono e non sono) simili. Così la mente che li raccoglie è gremita di lampi, di analogie, di rapporti, di corti circuiti, che finiscono per traboccare. La buona critica letteraria non è altro che questo: la scoperta della gioia dei libri che si assomigliano.»
Mario Praz

Saffo

 

O coronata di viole, divina
dolce ridente Saffo

frammento di Alceo da I lirici greci, traduzione di S. Quasimodo

 

SOLON

Triste il convito senza canto, come
tempio senza votivo oro di doni;
ché questo è bello: attendere al cantore
che nella voce ha l’eco dell’Ignoto.
Oh! nulla, io dico, è bello più, che udire
un buon cantore, placidi, seduti
l’un presso l’altro, avanti mense piene
di pani biondi e di fumanti carni
mentre il fanciullo dal cratere attinge
vino, e lo porta e versa nelle coppe;
e dire in tanto grazïosi detti,
mentre la cetra inalza il suo sacro inno;
o dell’auleta querulo, che piange,
godere, poi che ti si muta in cuore
il suo dolore in tua felicità.

«Solon, dicesti un giorno tu: Beato
chi ama, chi cavalli ha solidunghi,
cani da preda, un ospite lontano.
Ora te né lontano ospite giova
né, già vecchio, i bei cani né cavalli
di solid’unghia, né l’amore, o savio.
Te la coppa ora giova: ora tu lodi
più vecchio il vino e più novello il canto.
E novelle al Pireo, con la bonaccia
prima e co’ primi stormi, due canzoni
oltremarine giunsero. Le reca
una donna d’Eresso» «Apri: rispose;
alla rondine, o Phoco, apri la porta»
Erano le Anthesterïe: s’apriva
il fumeo doglio e si saggiava il vino.

.    Entrò, col lume della primavera
e con l’alito salso dell’Egeo,
la cantatrice. Ella sapea due canti:
l’uno, d’amore, l’altro era di morte.
Entrò pensosa; e Phoco le porgeva
uno sgabello d’auree borchie ornato
ed una coppa. Ella sedé, reggendo
la risonante pèctide; ne strinse
tacita intorno ai còllabi le corde;
tentò le corde fremebonde, e disse:

Splende al plenilunïo l’orto; il melo
trema appena d’un tremolio d’argento…
Nei lontani monti color di cielo
.                     sibila il vento.

Mugghia il vento, strepita tra le forre,
su le quercie gettasi… Il mio non sembra
che un tremore, ma è l’amore, e corre,
.                     spossa le membra!

M’è lontano dalle ricciute chiome,
quanto il sole; sì, ma mi giunge al cuore,
come il sole: bello, ma bello come
.                     sole che muore.

Dileguare! e altro non voglio: voglio
farmi chiarità che da lui si effonda.
Scoglio estremo della gran luce, scoglio
.                     su la grande onda,

dolce è da te scendere dove è pace:
scende il sole nell’infinito mare;
trema e scende la chiarità seguace
.                     crepuscolare.

La Morte è questa! il vecchio esclamò. Questo,
ella rispose, è, ospite, l’Amore.
Tentò le corde fremebonde, e disse:

Togli il pianto. È colpa! Sei del poeta
nella casa, tu. Chi dirà che fui?
Piangi il morto atleta: beltà d’atleta
.                   muore con lui.

Muore la virtù dell’eroe che il cocchio
spinge urlando tra le nemiche schiere;
muore il seno, sì, di Rhodòpi, l’occhio
.                   del timoniere;

ma non muore il canto che tra il tintinno
della pèctide apre il candor dell’ale.
E il poeta fin che non muoia l’inno,
.                   vive, immortale,

poi che l’inno (diano le rosee dita
pace al peplo, a noi non s’addice il lutto)
è la nostra forza e beltà, la vita,
.                   l’anima, tutto.

E chi voglia me rivedere, tocchi
queste corde, canti un mio canto: in quella,
tutta rose rimireranno gli occhi
.                   Saffo la bella.

Questo era il canto della Morte; e il vecchio
Solon qui disse: Ch’io l’impari, e muoia.

da Poemi conviviali di Giovanni Pascoli

 

ULTIMO CANTO DI SAFFO

.    Placida notte, e verecondo raggio
Della cadente luna; e tu, che spunti
Fra la tacita selva in su la rupe,
Nunzio del giorno; oh dilettose e care,
Mentre ignote mi fûr l’Erinni e il Fato,
Sembianze agli occhi miei; giá non arride
Spettacol molle ai disperati affetti.
Noi l’insueto allor gaudio ravviva,
Quando per l’etra liquido si volve
E per li campi trepidanti il flutto
Polveroso de’ Noti, e quando il carro,
Grave carro di Giove, a noi sul capo
Tonando, il tenebroso aere divide.
Noi per le balze e le profonde valli
Natar giova tra’ nembi, e noi la vasta
Fuga de’ greggi sbigottiti, o d’alto
Fiume alla dubbia spond
Il suono e la vittrice ira dell’onda.

.    Bello il tuo manto, o divo cielo, e bella
Sei tu, rorida terra. Ahi! di codesta
Infinita beltá parte nessuna
Alla misera Saffo i numi e l’empia
Sorte non fenno. A’ tuoi superbi regni
Vile, o Natura, e grave ospite addetta,
E dispregiata amante, alle vezzose
Tue forme il core e le pupille invano
Supplichevole intendo. A me non ride
L’aprico margo, e dall’eterea porta
Il mattutino albor; me non il canto
De’ colorati augelli, e non de’ faggi
Il murmure saluta; e dove all’ombra
Degl’inchinati salici dispiega
Candido rivo il puro seno, al mio
Lubrico piè le flessuose linfe
Disdegnando sottragge,
E preme in fuga l’odorate spiagge.

.    Qual fallo mai, qual sí nefando eccesso
Macchiommi anzi il natale, onde sí torvo
Il ciel mi fosse e di fortuna il volto?
In che peccai bambina, allor che ignara
Di misfatto è la vita, onde poi scemo
Di giovanezza, e disfiorato, al fuso
Dell’indomita Parca si volvesse
Il ferrigno mio stame? Incaute voci
Spande il tuo labbro: i destinati eventi
Move arcano consiglio. Arcano è tutto,
Fuor che il nostro dolor. Negletta prole
Nascemmo al pianto, e la ragione in grembo
De’ celesti si posa. Oh cure, oh speme
De’ piú verd’anni! Alle sembianze il Padre,
Alle amene sembianze, eterno regno
Die’ nelle genti; e per virili imprese,
Per dotta lira o canto,
Virtú non luce in disadorno ammanto.

.    Morremo. Il velo indegno a terra sparto,
Rifuggirá l’ignudo animo a Dite,
E il crudo fallo emenderá del cieco
Dispensator de’ casi. E tu, cui lungo
Amore indarno, e lunga fede, e vano
D’implacato desio furor mi strinse,
Vivi felice, se felice in terra
Visse nato mortal. Me non asperse
Del soave licor del doglio avaro
Giove, poi che perîr gl’inganni e il sogno
Della mia fanciullezza. Ogni piú lieto
Giorno di nostra etá primo s’invola.
Sottentra il morbo, e la vecchiezza, e l’ombra
Della gelida morte. Ecco di tante
Sperate palme e dilettosi errori,
Il Tartaro m’avanza; e il prode ingegno
Han la tenaria diva,
E l’atra notte, e la silente riva.

da Canti di Giacomo Leopardi

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