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Enzo Rega, “La linea dei passi” (rec. di Silvio Aman)

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Enzo Rega, La linea dei passi
Recensione di Silvio Aman

 

Il volumetto La linea dei passi, prose sulla città e il viaggio – Edizioni Helicon (primo Premio ex equo per la narrativa inedita, Edizione 2018 del Premio “La Ginestra”) Arezzo, 2019, pp. 180, Euro 14,00 – dello scrittore Enzo Rega, studioso di letteratura, filosofia, cinema e critica della cultura, raccoglie ventitré studiatissime prose intermesse da cinque lettere ad amici – missive che per il viaggiatore suppongo abbiano avuto la funzione di mantenere un legame e indicare ai corrispondenti, compresa la donna amata, i luoghi disseminati lungo molteplici itinerari, dalle città lombarde a quelle dell’Europa settentrionale: Francia, Germania, Olanda, Repubblica Ceca, Regno Unito.
Il costante richiamo a stati d’ansia e stanchezza accompagnati da un eccesso di sensibilità testimoniati da questo percorso odeporico a tenore diaristico, dipende, come si nota fin dalle prime pagine, dall’incessante estraniazione del soggetto che, nei suoi spostamenti avverte di non poter aderire alla realtà per come gli si presenta, sia essa data da Parigi, Berlino, Londra o Zurigo.
In Mein Reisetagebuch – Schweiz, abbiamo:

Ich bin “eigenartig” oder “seltsam”. Mi sento strano. “Strano”. Non so dire altro. Stranito. Un po’ angosciato, ansioso (aritmocardiaco). Spossessato (da me, da tutto), sfessato (Céline). Strano. […] Soltanto sono riuscito a strappare battiti rabbiosi e irregolari a un cuore, il mio, solo, stanco e caparbio. Non sono riuscito, così, a fermare, negli occhi, con questo – chiamiamolo così – oeil de l’intérieur (cercar di introiettare in noi il mondo, ma anche nel mondo vedersi), nulla di quello che vi scorreva davanti, dismembrandosi come in uno sconvolto universo dada.

«Aritmocardiaco» «Dada» «oeil intérieur»… aspetti ben chiariti nel finale Discorso di Ishtar al narratore sul desiderio d’una città:

Non sempre Kublai Kan credeva a tutto quando Marco Polo gli diceva, descrivendo i luoghi visitati sulla spinta del suo desiderio di una città alla quale definitivamente approdare. Sì, dico “desiderio”, perché ho l’impressione che i tuoi passi rincorrano meno quanto si trova fuori dagli occhi che quello che, invece, vi è dentro sepolto e solo apparentemente cancellato. Insomma, d’una città non godi le bellezze, ma in essa cerchi una risposta: insegui non una città ideale, ma segui il discorso ideale che descrive una città, e corri il rischio di uscire da una città, e poi da un’altra, e così via all’infinito, senza sapere cosa si nasconde sotto la trama fitta dei segni. […] E cosa vi cerchi? Semplice, il tuo desiderio, il tuo passato e, in questo, il tuo futuro. Non conta ciò che vedi effettivamente: è l’umore di chi la guarda che dà alla città la sua forma e, ancora, essa la riceve dal deserto a cui si contrappone. È il segno d’un’altra cosa, d’un pieno rispetto a quel vuoto.

Non ci vuole, inoltre, granché per comprendere, che questa situazione, suffragata da riferimenti oggettivanti (qui a Céline, più avanti a Tozzi, Handke, Musil e altri ancora) riveli l’assenza di una città cui appartenere, e di un rapporto affettivo e vivificante: «Gli occhi di lei ti guardavano dal paesaggio e il paesaggio viveva» si legge in La donna e la città. Non così nelle ultime righe del Reisetagebuch in cui – per una probabile perdita di cui l’Autore non rivela l’oggetto – leggiamo la confessione differita:

Benché, credo, meglio sarebbe stato, insieme alle visioni ed emozioni inafferrate, far gioiosamente naufragare  anche il tuo ricordo fra le acque gonfie della Limmat e del Reno, o disinvoltamente inabissarlo nel fondo dei laghi diacci delle Alpi, qua e là innevate.

L’amore unisce, stimola, dà valore a ogni cosa e permette di affrontare sia la sfiducia sociale sia il disagio ambientale delle odierne metropoli, che il sociologo Richard Sennett, con Il declino dell’uomo pubblico (interessante il punto in cui parla dei luoghi come corridoi di passaggio, non più per fermarsi e socializzare) e lo storico Arnold Toynbee con La città aggressiva, hanno ben rilevato. Certo, i paesi, cui Rega rivolge qualche interesse, parrebbero più umani, ma solo perché in ritardo verso la catastrofica situazione delle loro sorelle maggiori. Inoltre, per lo studioso dei grandi romanzi, in procinto di diventare lui stesso autore, e condotto dalla propria professione di docente verso la grande città del Nord, sede di cultura e possibilità d’incontri, il paese ha ben poco a che fare con i passi-ricerca del suo libro.
E il senso del viaggio, come si vedrà nel finale, si compie in una sorta di rotazione per giungere a Genova, città in cui Rega è nato, e precisamente nell’albergo del Rosso (ancora una sede provvisoria) in cui si svolge il seguente duetto finale:

«E poi?»
«E poi… poi non so. Come saperlo?»

Appunto! perché Ishtar, nel suo Discorso al narratore, parla del desiderio: «talvolta non è necessario descrivere nemmeno i monumenti e le strade della città nella quale insegui il tuo desiderio o dove il tuo desiderio ti insegue…» cioè della rotazione passato, presente e futuro, tanto da chiederci se ciò non concerna una sorta di romantico di desiderio del desiderio.
Tornando a Sennett, secondo il quale – come accennavo – nella città moderna esisterebbero solo luoghi di passaggio, anziché quelli adatti a fermarsi, al discorso di Ishtar (a proposito della città «fatta di relazioni fra le misure del suo spazio, circoscritto dalle pietre, e [dagli] avvenimenti del suo passato e del suo futuro») andrebbe aggiunto lo smarrimento, perché essa non ha più, o quasi più, un centro dalla portata mnemonica e coordinatrice. Lo sguardo che «segue le vie d’una città come pagine scritte» (Ishtar) trova piuttosto solo frammenti e aritmie, non il respiro di un romanzo.
Parlando di musica, già lo stesso Debussy e il gruppo degli Apache provavano un senso di ripulsa nei riguardi delle estese composizioni da cui potevano, tuttavia, assumere (citare) e rielaborare alcuni motivi. Stabilite le necessarie differenze, mi pare sia così anche per Rega. La stessa struttura delle sue deambulazioni, con continue soste, ripiegamenti, frasi a volte ipotattiche, altre paratattiche e constative (in cui ogni joie de vivre è rimandata, ma non la caparbietà messa a dura prova da un mancato centro di coesione affettivo e sociale) indica molto bene la lontananza dell’Io narrante per le grandi costruzioni in grado di raccogliere e dispiegare più di quel che gli permetta la percezione di essere lui stesso, storicamente non meno che psicologicamente «un asterisco di frammenti».
Eppure, è proprio il continuo dérangement, l’impossibilità di aderire allo sguardo delle cose tramite l’affetto, a innescare la ricerca e il rilancio delle rappresentazioni. Con disegni e dipinti? Piuttosto tramite la ripresa cinematografica. In moltissime frasi di La donna e la città, l’ekphrasis ne subisce la tecnica disarticolante, eppure significativamente adatta al percorso, laddove sono ripresi alcuni tratti della donna (occhi, capelli, zigomi, labbra, già loro stessi significanti… non dunque l’intera figura) a sua volta verso dettagli d’interni ed esterni (Mantova, Verona e Bergamo) in una sorta di dialogo. Ciò in modo denso, direi quasi ossessivo e rialzato, come si dice in pittura per i lumi, ma anche col rallentando dovuto al pensiero-commento, per usare la terminologia musicale. Del resto, la nominazione degli aspetti visivi, oltre che parziali (perché qua non interessa l’ampia visione dell’intero) sono mediati e riflessi, proprio come se il narratore sia condotto a trasformare le “note e i commenti a margine” nella medesima narrazione.
In Staromestské námesti di Il sogno di Praga, città non tanto magica in sé, bensì “magicizzata” da chi la percorre, il sognatore kafkiano si diverte «a merlettare con gli orli delle case quel cielo incredibilmente azzurro». Ciò per dire, che i riferimenti alla pittura sono ben presenti in questi racconti in cui, tuttavia, la frase «cinematograficamente parlando» indica che a dipingere per frammenti è, appunto, l’occhio della cinepresa.
Ad ogni modo, qua non si guarda liberamente come chi si prefiguri già una meta, piuttosto la sua procrastinazione, sicché ogni momento visivo e riflessivo affetto dalla condizione psicologica del rabdomante, appare dominato dal viaggio come attesa, il cui tessuto assume via via spessore tramite i riferimenti nascosti, poi indicati nella nota: Calvino, Erasmo, Handke, Robbe-Grillet, Schönberg… Per leggere La linea dei passi, accorerebbe dunque possedere l’intuito e la pazienza degli archeologi. Ricordo, incidentalmente, che in Morte a Venezia di Thomas Mann uno studioso ha scoperto, mi pare, cinquanta citazioni: ciò per chiarire come in Rega la sfingea immediatezza – quando c’è – nasconda una plurima stratificazione che il lettore può mettere in luce solo col tempo.
Tornando alla questione del dettaglio, cioè dello sguardo esterno, accolto con rigetto, nella solitudine, ma intensamente significante nella relazione, in La donna e la città la figura è colta ora con la guancia dal lato più duro, ora da quello più dolce, causa la tensione del dialogo con la compagna intenta a leggere il “pezzo” dedicato a Bèrghem (Bergamo in vernacolo) che il narratore le offre, e in cui le parole colmavano «lo spazio vuoto fra i corpi» mentre adesso, pur vicini, i due non sembrano pronti a far scoccare la scintilla amorosa, sia per l’indugio (al narratore nulla appare certo e davvero persuasivo) sia perché l’amica coglie nell’interlocutore la mancata verginità…

«Sei usato. Ti sento usato – sbotta lei».
E mi sento così davvero. È la vita che mi ha usato, vorrei rispondere, se non fosse così patetico. E allora:
«Ho forse usato questa città senza di te. Mi ha usato lei. Siamo tutt’e due logori».
«Tutt’e tre – aggiunge lei».

La nota gelosa riguarda la presenza di un’altra donna, ma ben di più il logoramento, lo sforzo che affatica i passi del viaggiatore estraniato, il suo desiderio di darsi una ragione di ciò che vede. E in che maniera? Le pagine di La linea non si snodano con scioltezza, vale a dire non senza incrementare la meta-scrittura (il Taccuino di viaggio è composto di aforistiche e numerate riflessioni, perché questo libro è al tempo stesso un’opera saggistica) in cui l’Autore discute e analizza il narrato riguardo al presente e al futuro.
Per riprendere l’aspetto pittorico del ritrarre, in Alpenliebe è scritto:

Qui, su questo piccolo dosso sassoso, con questo quaderno, seduto su un masso, mi sento in realtà un pittore che fa abbozzi, schizzi.

Abbozzi e schizzi… Certo, se pensiamo che nell’arte moderna, assieme alle citazioni, predomini il dettaglio, lo scampolo e spesso lo sfrido di quel che un tempo appariva come totalità della rappresentazione, e anche qua non senza riferimenti, ad esempio a Stockhausen riguardo alle voci dei bambini e del torrente.
Eppure anche i corsi d’acqua (la Senna, il Reno, la Limmat…) rispetto ai “blocchi” in cui il passo narrativo incede preferibilmente per piani giustapposti e quasi mai tramite la forma fluens («Non sembra che l’acqua scorra, ma invece sia portata […] Placche, scaglie d’acqua» – è scritto, significativamente, in Mein Reisetagebuch-Schweiz) favoriscono più la cinematica che la cinetica del libro: essi evidenziano, inoltre, le continue anse fra “abbandono” e ripristino dell’esplorazione in cui parrebbe prevalere la disseminazione visiva sui rapporti simbolici. Disseminazione frenata dal commento («… lo dico a lei, per commentare, poi, in qualche modo») anche dove emergono i tratti affettivi di chi, persa ogni meta, rischia di cedere a un rituale senza dio. In effetti, questo dio è presente e si chiama eros, da cui il viandante si aspetta il felice dextrarum iunctio fra le due anime…
A ogni modo, appena andata via lei fu come se le fresche ma elettriche correnti di un fiume – le sue parole, il suo sangue – mi avessero investito e poi deposto, stordito come a una scossa di alto voltaggio, sul greto della prima ansa, laddove naturalmente si raccoglie ciò che l’acqua abbandona (La donna e i paesaggi).
Rega, per riprendere il concetto, non accompagna quasi mai le sue riprese senza ricorrere alla cultura cui si riferisce anche come momento di rivelazione del proprio percorso, ciò non tanto per l’Einfuhlulg, l’empatia – che qui, riguardo allo studio di Edith Stein, è compromessa dalle visioni estranianti – quanto per indicare se stessi tramite l’altro (Benjamin) e costituire un ambito in cui potersi almeno riconoscere in negativo.
Riguardo all’Io narrante l’Autore usa l’espressione “asterisco di frammenti” mentre mi pare che in questi percorsi si tratti – per restare nell’ambito astronomico – di una costellazione il cui centro è occultato. L’asterisco ci conduce, tuttavia, all’asterismo di certe gemme preziose come lo zaffiro-asteria, e da queste al sole nascosto. In La donna e la città si legge che il cielo «insolitamente azzurro […] rimanda, come una citazione interna, a un altro cielo: un foglio celeste che riveste il nucleo solare racchiuso al suo interno». Con «foglio» (la città è essa stessa un foglio) il riferimento alla scrittura – e non solo – mi pare evidente, anche se chi legge può supporre che La linea dei passi concerna la “cura dell’amore” come soluzione dello stato esistenziale negativo: la ricerca del Graal sub specie amoris di cui dà testimonianza la selva del vagare rivelatasi “inutile” o, come scrive l’Autore, utile nella sua inutilità.
Con questo libro abbiamo insomma la scrittura del disagio, dell’amore e della casa assente, in un complesso intreccio, sia pure non in modo sciolto, come accennavo (Enzo Rega non è Giraudoux) semmai in termini di sincopi e strozzature in attesa della vita, ma senza il vitalismo: nel libro non troviamo riferimenti a Simmel o a Dilthey. D’altra parte, e lasciamo correre su quel che offre il mercato librario, possiamo ben dire che Rega è un artista nell’esercitare anche un forte controllo, sia pur frenante, sul proprio fraseggio, ciò in armonia con il titolo della raccolta (tratto da La corsa dei mantelli di Milo De Angelis) ben lungi dal suggerire mete, piuttosto un continuo vagare nei cui sedimenti scritti s’innestano via via le riflessioni del Wanderer di ascendenza romantica, ma con smarrimenti moderni.
A proposito delle belle immagini, l’autore scrive:

Tutto qui è bello: il sole dorato sull’acqua, le case azzurre e la torre blu. Ma non siamo sul posto, piuttosto nella sua immagine. Ascoltiamo le parole, che ci raccontano; in esse, e soltanto in esse, assumiamo il volto di carne e nello stesso tempo lo trascendiamo, per cogliere il divino nella nostra esperienza.

Pensiero schopenhaueriano e leopardiano – laddove il recanatese si riferisce in modo corretto all’immagine, non all’oggetto dei realisti – precisato nella pagina precedente:

Tornato in Italia, avrei pure detto a qualcuno di quel viaggio [a Parigi] come del solitario affrontare il mondo. Esistiamo davvero solo nel racconto. Così, lo spazzino nero del metrò non ha più esistenza di Madame Bovary, la quale, poi, si sa, altri non è che Flaubert.

In quanto all’esistere solo nel racconto, anche Proust la pensava allo stesso modo, quando scrisse che la vera vita sta nella letteratura e non nel tempo perduto, da cui tuttavia dipende.
I richiami al regista Wim Wenders – uno dei protagonisti dello Junger Deutscher Film – al Visconti realista, a Pavese e a Tozzi, assumono qui una funzione segnaletica, e in modo speciale Flaubert: per spazzino o Bovary, nessuna differenza, perché a contare, come nel nuovo film, è l’autore e non la sceneggiatura alla vecchia maniera. La linea è, infatti, composta di racconti tendenzialmente impersonali à la Flaubert (e all’École du regard) ma al medesimo tempo riferiti all’Io narrante come unico punto di riferimento.
In linea con questa scelta o stato di cose, nel libro in questione, come nei film della Nouvelle vague, non ci sono attori celebri e grandi cast, bensì gente comune come i soggetti di Luci della città e Idillio senza fine, dei quali non conosciamo neppure il nome. Ciononostante, l’iter reghiano rivela alcune «circostanze» (ridotte all’ipotesi di superstizioni, in Luci della città) le quali, con il loro insistere, parrebbero orientare il tragitto (alludere a un destino?) sebbene privi della tenacia di Flaubert, tanto da poter definire i passi di Rega dei preludes, ecco il punto! Essi, segnano, infatti, un percorso interrotto (causato da continue dislocazioni: nelle sette pagine di Itinerario italiano si susseguono Rozzano, Milano, Bologna, Forlì, Cesena, Torino, Pinerolo, Rapallo…) le cui cadenze possono accordarsi con il micro evento, come il riflesso nell’oscurità in Idillio senza fine, chiudersi con il “non so” o alludere a una possibile remissione del negativo…

Lascerò la città. Via da questa e verso un’altra. Per i Greci, nella vigna c’era il dio. Ma forse c’è un dio anche nelle città, nei luoghi fatti dagli uomini.

Una delle «circostanze» o segni di un eventuale destino, è presente nel nome dei Visconti di Modrone (Itinerario italiano) con la visita al loro castello «cadeau inattendu» e di cui l’Autore dovrà notare altre volte la presenza annunciatrice. Già questo – a dispetto di estraneità, scissione e «disincarnata aridità dei sentimenti» per cui le cose appaiono irredente e neppure suscitatrici dello stupor mundi (anche la neve lombarda è seguita e commentata nell’intensificarsi dei fiocchi) salva i passi dalla débâcle, come lascerebbero invece supporre. Perché? Perché nella scia dell’“inutile” rimane il desir, l’inquietudine e l’anelito.
Non per nulla, in questi Stücke tipologicamente affini al cortometraggio (in cui il narrato si condensa nelle immagini) c’è sempre un resto da cui riparte lo spostamento narrativo, magari come lusinga… «Riprende l’incantamento del viaggio. E la voracità di dover trattenere tutto». L’animo dello scrittore può essere tanto offeso e smarrito da tentare la catabasi verso l’aridità pur di rendersi credibile e legato a un clima storico, ma lo spinge il rilancio, l’interesse, sia pur dimidiato, verso l’altro da sé, nella ricerca di sé.
Per l’aspetto del bello, occorre precisare come anche il butto attragga, perché la repulsione, nei suoi riguardi, è pur sempre una pulsione, un investimento che, sebbene in termini negativi, può rilanciare la curiosità, ma anche fissarsi come principio di costanza coadiuvato dalla realtà esterna. In Frammento milanese abbiamo:

Non riesco proprio a sottrarmi al fascino del brutto e continuo a fissare i contorni dei grattacieli finché il cavo della notte non li accoglie del tutto, ingoiando quintali di materiale opaco.

In Alpenliebe si legge, all’opposto: «Non riesco più a scrivere una bella frase». Dipende in che senso, perché – esclusi i comuni pregiudizi – la bella frase può assumere a oggetto il brutto e le verità più depressive come hanno dimostrato i grandi scrittori, e certo anche nel senso di fingere enunciando il vero o il possibile: basti pensare ad Agota Kristoff.Ciò che Ramón del Valle-Inclán enuncia nelle Memorie del marchese di Brandomín

(Oh alata e ridente finzione poetica, quando avverrà che gli uomini si convincano della necessità del tuo trionfo? Quando impareranno che le anime nelle quali esiste soltanto la luce della verità sono anime tristi, tormentate, melanconiche, che parlano nel silenzio con la morte e tendono sulla vita una cappa di cenere?)

riguarda la finzione, ma con i caratteri del romanzesco avventuroso volutamente estraneo al proposito di porre in luce la verità come aspetto del reale.
Nel caso di Rega, la rappresentazione del brutto, di cui è un maestro, è finzione per la piega che assumono, soggettivamente, i rilievi del mondo esterno: la Senna del primo racconto si mostra, per analogia, nella figura di un rettile, quindi lontana dai divini attributi di Hölderlin.
Riguardo alla pulsione, non andrebbe perso di vista l’insistere di Rega attorno ad ansia, angoscia e incertezza, le quali possono, per reazione, ingenerare soddisfacimento o – forzando l’idea – una sorta di algolagnia nei riguardi della città-donna: del resto, l’amabile appare tale se motivato da un accordo fra percezione e sentimento.
Nel pensare i componimenti di La linea come a una suite composta di preludes le cui cadenze, come in musica, possono essere sospese, evitate o addirittura mancanti (la lettera a Franco, in Da Mulhouse, Alsazia, termina così: «Poi, nella piazza, un affrettarsi subitaneo come se debba piovere da un momento all’altro. Un disperdersi sotto gocce inesistenti, improbabili») lascerebbe supporre, come già accennato, impossibilità o rinuncia a comporre veri e propri romanzi a favore del frammento studiatissimo dal Nostro, e più consentaneo a un soggetto continuamente derangé, affidato ad avvilenti situazioni provvisorie.
Questo anche nel senso per cui i rilievi e le descrizioni auto significanti danno luogo all’incedere puntiforme della libido narrativa governata della condizione esistenziale (come indicherebbe la telegrafia delle frasi attrazione-repulsione) perché il moto della “macchina da presa” non segue, come già indicato, l’indirizzo precostituito dalla sceneggiatura. Può darsi esista un’intima persuasione, ma essa contrastata con le cupe presenze delle necessità sociali testimoniate nel continuo rilancio della Walderung in termini critici.
Enzo Rega è insomma anche lui uno scrittore odissiaco: il nostalgico Odisseo raggiunge Itaca per poi abbandonarla spinto da un incessante rinnovo del viaggio-nostalgia, perché ogni meta stabile è anche una fine, e il Nostro tanto la cerca quanto la elude (e se ne trova eluso). Il continuo moto si rivela perciò nei termini di un transitare indugiando come la tremula fissità dell’immagine riflessa nel corso del fiume, ricordandomi la distinzione fatta da Jankélévitch fra cinematico e dinamico in Debussy, a vantaggio del primo.
La serie dei viaggi, il cui iter narrativo termina a Genova, è sovradeterminata dalla situazione psicologica del narratore, preso per dir così tra due fuochi: fra Genova, città natale, e Napoli in cui risiede. Da qui, il sogno di creare un Caffè Berlino a Napoli, che nella lettera diventa la straniera Neapel in omaggio a Walter Benjamin, citato in esergo, per il quale in una città straniera si può trovare qualcosa della propria, nel senso anche romantico di cogliere il prossimo nel lontano e viceversa. In gioco si troverebbe quindi la nostalgia (il termine, coniato da Johannes Hofer nella sua dissertazione del 1688, indicava il disturbo di cui erano vittime i soldati svizzeri lontani da casa) dell’infanzia, sennonché Genova assume, per Rega, la portata simbolica di un evento inaugurale: legare l’inizio della vita a quello di chi sta nascendo come scrittore.
In Frammento milanese compare un altro prezioso segnale, indirettamente derivato da un dialogo con il poeta di La corsa dei mantelli: il nome di Webern, l’allievo di Schönberg più aderente alla dodecafonia, cioè al rifiuto della tonalità (nel senso di offrire uguale portata alle dodici note, anche se non uguale colore) elemento- choc non del tutto nuovo a quel tempo (mentre ai nostri giorni il “Posmoderno” ha liberato energie tenute a freno da cogenti posizioni estetiche e politiche) e neppure ogni volta percepibile, se in certi “pezzi” di Debussy, anche a  causa delle continue dissonanze non risolte, può essere difficile scovarla.
In seguito a questa laconica citazione, come a tant’altre del genere “pulce nell’orecchia” possiamo chiederci: esiste una tonalità nel rapsodico libro di Rega, e cosa effettivamente governa i suoi passi ansiosi? Può darsi si trovi come “sede vacante” sognata, ma anche ritardata: in fondo, a chiudere il volume, è il viaggio a Genova. D’altra parte, come scrisse Ladislav Fuks in Una buffa triste vecchina «quando la casa è pronta, il padrone muore».
Occorrerebbe non dimenticare come proprio l’approssimarsi a una meta agognata produca angoscia e godimento al punto da preferirgli il cupio dissolvi o la provvisorietà di chi non preconizza o esclude ogni finale, come ben indicato dall’esergo tratto da Nietzsche in Lettere dalla Germania:

Chi anche solo in una certa misura è giunto alla libertà della ragione, non può più sentirsi sulla terra nient’altro che un viandante – per quanto non un viaggiatore diretto a una meta finale: perché questa non esiste…

Lasciando da parte questa libertà e le sue consorelle (Lacan scrisse, se ricordo bene, che l’uomo è solo libero di morire) la situazione in cui si dibatte il Nostro concerne l’impossibilità di risiedere, sia perché vano è cercare quello che ancora manca in noi, sia perché l’eroica e odeporica ragione di Nietzsche qua non può presentarsi senza cedere alla stanchezza, condizione più volta espressa nel libro…

Ma ora mi fermo. Mi ha sempre spinto, è vero, una forma d’inquietudine che oscilla tra ansia e depressione. E può darsi che oggi non sia più così disperato – o sia invece più stanco. O tutt’e due.
O forse, ancora, il mio posto ora è vicino a te.
Scusa l’immancabile retorica. Ma non voglio più affrontare da solo, come l’eroe magari greco (così dicevo una volta), luoghi sconosciuti alla ricerca del loro dio nascosto.
[…] Forse il mio posto ora è accanto a te, dentro di te (dentro di me).

Nelle due lettere inviate all’amata – la seconda s’intitola Maintal-Dörnighein (presso Francoforte s/M) – il viandante, diventa, sia pure in modo incerto («forse») il viaggiatore anti-nietzscheano che posa bastone e mantello? Interessanti gli omoteleuti, non so se inconsapevoli, di nascosto:posto nel senso che il dio sia nascosto nel posto occupato dalla donna… «dentro te (dentro di me)» quindi non più come nel viaggio a Zurigo e a Basilea in cui molto si scorge e a nulla si aderisce.
Accadrebbe il contrario, se il viaggiatore potesse davvero approdare alla casa e alla città assieme alla sua donna. Per il momento rimane la condizione insoluta e insolvibile (di tipo romantico) di chi dice: “scopro qualcosa di Berlino a Napoli e viceversa” mantenendosi in una sorta di inhabitatio, perché se dell’ambiente partenopeo è possibile parlare altrove, e il sogno di risiedere a Berlino (dove non manca l’architettura funzionale delle periferie milanesi, sia pure in un clima diverso) potrebbe rivelarsi illusorio, le cose non stanno così per l’erma bifronte che si rende straniera in casa propria. D’altra parte, la mancanza dell’oggetto rafforza l’anelito e la nostalgia, compreso il dolore di un tempo: qualcosa che lo avvicina all’intraducibile Sehnsucht  o a una sorta di provenzale amour de lohn.
Tutto ciò offre ai percorsi di Rega, in cui angoscia e momenti epifanici sono magistralmente espressi (nel corso della durée in cui s’incidono, se pensiamo alla critica di Bachelard a Bergson in L’intuition de l’instant) un timbro oscillante fra eros e thanatos, estraneità e intimità.
Ansia, anelito e angoscia anziché ironia (come in Thomas Mann) perché essa è già implicita nel tempo che scorre, sebbene ancora nulla possa fermarne il corso come nel Proust della Mattinée presso i Guermantes, dove tutti appaiono invecchiati e quasi moribondi, mentre il poeta ritrova, sospeso e incantato, la sua giovinezza nella Cattedrale di San Marco.
In queste Lettere dalla Germania ritornano i progetti di scrittura: «Avevo pensato a una sorta di Considerazioni francofortesi da aggiungere ai testi già pronti e a quelli in preparazione (ancora) per il libro» e l’autore pensa altresì al biglietto da spedire all’amata:

Farà un trittico, a ogni modo, con le altre due lettere spedite e che ti parlano del viaggio come fallimento… o dissipazione, spreco, inutilità.
Comunque, anche questa, alla fine, è una cifra letteraria.
Questo viaggio, in fondo, mi ha insegnato qualcosa. È stato “utile” nello svelare la propria “inutilita”. E questa “inutilità” mi torna “utile” per completare il libro.

Esiste dunque un progetto, nel corso del viaggio teso alla ricerca di sé, nel riverbero di quello reale con le sue “manipolazioni visive”. In Ritorno all’albergo del Rosso, cioè a Genova, in cui il soggetto è nato e ritorna per inaugurare la sua nuova vita, l’albergatore gli mostra un quadro con la sola firma, certo in base alla reazione di certi pittori americani all’incontrastato dominio delle immagini, sennonché nel nostro caso esso assume la portata di una previsione, perché la tela bianca può alludere alla pagina (come diceva Ishtar a proposito dello sguardo… e, implicitamente all’Ècole du regarde) per iniziare a scrivere l’opera di cui, al momento, esiste solo il nome dell’autore. La linea dei passi è dunque il preludio di quest’opera. Come termina il libro?

Le increspature delle onde nel buio. Attendo sul mare.
«Cosa?» avrebbe detto il Rosso, se gliene avessi parlato. E subito, cambiando domanda, come fa lui:
«E poi?»
«E poi… poi non so. Come saperlo?»

Certo! perché qui non si tratta del picaresco Gil Blas di Alain-René Lesage, né delle Etiopiche di Eliodoro in cui gli amanti, dopo un’infinità di vicissitudini da far spasimare i lettori, si raggiungono definitivamente secondo un modello che resterà costante, almeno fino a I promessi sposi.  Tutto frutto di finzioni, secondo il detto che il poeta sia un fingitore? (e Rega è anche poeta). Così si legge in Taccuino di viaggio
Scrivere non è un atto di lucidità. È un lavoro all’interno del genere fingere. Ci si finge scrittori, e si scrive. Gli oggetti dello scrivere sono le nostre finzioni quotidiane. Il tema è la finzione, non come tale, ma come vita. Potremmo piuttosto ascoltare le parole che le Muse indirizzano a Esiodo:

Noi sappiamo dire molte menzogne simili al vero, ma sappiamo anche, quando vogliamo, il vero cantare.

Scrivere in termini di finzione (e darsi uno stile, fosse solo per giungere a una certa comunanza con gli autori di cui si avverte l’interesse, sebbene in La linea dei passi esso emerga e come re Mida tutto colori di sé?) non potrebbe nascondere i tratti di verità riguardanti il soggetto.

Silvio Aman

 


Enzo Rega, nato a Genova nel 1958, risiede a Palma Campania (Napoli), e ha vissuto anche a Bergamo e a Siracusa. Si occupa di letteratura, filosofia, cinema e critica della cultura. Insegna in un liceo e ha collaborato con l’Università di Salerno e il “Suor Orsola Benincasa” di Napoli. Redattore di “Gradiva” e “Levania”, scrive per “L’Indice dei libri del mese”, “Poesia”, “Italian Poetry Review”. Tra i volumi pubblicati: di narrativa Le albe inutili (C.E. Menna, Avellino 1980) e Due volte futuro (Michelangelo 1915 Editore, Palma Campania (NA) 2010); di poesia Acroniche angolazioni (Forum / Quinta Generazione, Forlì 1982) e Indice dei luoghi. Poesie da viaggio (e d’amore) (Laceno/Mephite, Atripalda (AV) 2011); di saggistica Berlino e dintorni. Arte, cultura e vita nel Novecento (Edizioni “Il grappolo”, San Severino (SA) 2001); A colloquio con i poeti: De Angelis, Fontanella, Neri (con Carlangelo Mauro, Stango, Roma 2003); Il cinema come fenomeno sociale (con Pasquale Gerardo Santella, Loffredo, Napoli 2005); Derive mediterranee. Immagini letterarie da Napoli all’altra sponda (con una nota introduttiva di Ermanno Rea, l’arca e l’arco edizioni, Nola (NA) 2012; menzione d’onore al Premio “Casentino” 2018 e 1° premio Città del Galateo-Antonio De Ferraris 2020). Con la Zanichelli ha pubblicato a partire dal 2014 dei manuali di Scienze umane per le scuole superiori. La linea dei passi ha vinto nel 2018 il primo premio ex-aequo per la narrativa inedita al Premio La Ginestra di Firenze.


Silvio Aman, si è occupato di molte curatele, tra le quali il  volume di saggi Memoria, mimetismo e informazione in teatro naturale di Giampiero Neri, Milano, Edizioni Otto/Novecento, 1999 (prima  raccolta di saggi in Italia sull’opera di Neri); l’antologia di poeti svizzeri Brigjet/Sponde, Gjakovë, 2015; l’edizione di un’ampia antologia di poeti e scrittori svizzeri di lingua tedesca, francese, reto-romancia e italiana (con inediti di Giorgio Orelli) in “Hesperos” (annuario fondato da Silvio Aman), Milano, La Vita Felice, 2001.Ha curato inoltre la monografia Robert Walser, il culto dell’eterna giovinezza, Milano/Lugano, Giampiero Casagrande, 2009, inserita nei programmi di lettura del Dip. di Lingue e Letterature Straniere dell’Università statale di Milano e del Piemonte.Ha partecipato con un saggio al volume La poesia della Svizzera italiana (a cura di Martin Maeder, Università di Lovanio, e Gian Paolo Giudicetti, Università di St. Gallen) Poschiavo CH, L’ora d’oro, 2015.Ha curato vari libri di autori svizzeri per la casa editrice LietoColle.In poesia ha pubblicato: Sinfonia alpina (pref. di Gilberto Isella) Balerna, CH, Edizioni Ulivo, 2004; Nel cuore del drago (pref. di Guido Oldani) Novara, Interlinea Edizioni, 2005; Ariele (a cura di Giancarlo Pontiggia con postfazione di Paola Loreto) Bergamo, Moretti & Vitali, 2010 – di cui dieci poesie sono apparse nel numero di novembre 2009 della rivista Poesia dell’Editore Crocetti.L’orifiamma (pref. di Vincenzo Guarracino) Busto Arsizio, Nomos Edizioni, 2013. Ha tradotto Hermann Hesse, Robert Walser e alcune poesie di Christine Koschel nel volume Nel sogno in bilico, Milano, Mursia, 2011.


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