Amore inquieto di Nadia Tarantini
Recensione di Floriana Coppola
Romanzo dell’io, autofiction, flusso di coscienza, racconto della memoria del corpo, sperimentazione narrativa ma soprattutto esperienza esistenziale in prosa, con momenti di assoluta e profonda poeticità. Nadia Tarantini nel suo secondo romanzo affronta l’epica decostruzione e ricostruzione del sentimento che ci lega alla madre, tracciando la sua cifra, il suo percorso interiore che porta verso il permesso di vivere e di scrivere.
“Se c’è qualcosa aldilà tu mi verrai a trovare, io ti riconoscerò.” Ci credevo più di te, ma non immaginavo il sigillo gioioso del ricordo, dopo gli anni del dispiacere.
Di solito ogni narrazione, anche autobiografica, gioca su un mosaico di tessere che non possono imprigionare la complessità del reale. Non esiste una sola verità, ognuno inforca il suo paio di occhiali, citando Anna Maria Ortese. In questo romanzo, il legame con la madre e con le altre figure familiari femminili disegna una costellazione parentale fatta di permessi e ingiunzioni, impliciti ed espliciti, che possono rallentare, paralizzare, oppure spingere verso la realizzazione della propria segnatura artistica ed esistenziale. Direbbe Hillman, la ghianda può diventare quercia, solo se viene vista. Esiste uno sguardo materno che omette, pur amando, il genio della figlia. Soprattutto nella nostra generazione, l’emancipazione delle figlie veniva vissuta come una minaccia, un pericolo per l’equilibrio del sistema familiare, un segno di divergenza dal binario solito della zona comfort, accettato dal gruppo delle donne. Ogni famiglia è un clan, con le sue leggende e i suoi segreti. Nadia ci permette di entrare in punta di piedi nella sua memoria, per restituire vita e voce a ciò che può andare perduto con il tempo.
Batti le dita sul risvolto del lenzuolo, le premi una ad una, come se stessi suonando tasti di pianoforte. Anche stanotte ti ho sognata. Eri in cima a una scogliera e mi chiedevi aiuto.
Non è importante veramente ciò che è stato, ciò che poteva essere ma il ricordo incarnato nel corpo che genera il senso di un universo emozionale. Ogni dettaglio sfugge nella sua interezza e può essere richiamato solo per frammenti. L’autorizzazione a scrivere di sé, il permesso di liberarsi dai ruoli a cui viene destinata la donna, il bisogno di spezzare una catena infinita di atti di rinuncia che passa attraverso l’intera genealogia femminile sono punti nodali della narrazione. Ma la stessa struttura narrativa del romanzo di Nadia è un movimento di emancipazione letteraria, perché riprende e porta avanti in modo originale e sperimentale la volontà di superare il canone letterario. Il confine tracciato da Virginia Woolf tra flusso di coscienza e monologo interiore viene arricchito da altre contaminazioni. Non solo prolessi e analessi, discorso diretto e indiretto, l’uso della lettera e del diario, ma continui slittamenti della memoria che generano un corpo fluido e magmatico, dove presente e passato si mescolano, in un gioco psicofisico di percezione e coscienza. La memoria delle donne funziona così, vuole dire sottovoce l’autrice. Niente di razionale e di classificatorio ma un linguaggio che tenta di registrare con puntualità ossessiva il moto ondoso del ricordo.
“C’è sempre qualcosa che ti trattiene”. La frase le riecheggia nella mente, emergendo dai rumori dell’ospedale. “C’è sempre qualcosa che ti trattiene.”. Gliel’ha detto sua madre, quasi trent’anni fa prima di morire. “C’è sempre qualcosa che ti trattiene”.
La memoria costruisce così sulla pagina un andamento ellittico che procede per successive spirali, dove le personagge hanno voce e dignità di esistenza paritaria e parallela. Quasi un canto al principio di sincronicità, il principio dei nessi a-casuali di Jung. Niente succede per caso e ogni ricordo risponde a una logica precisa del sistema di comunicazione tra tutti gli elementi. Non una sola voce narrante si mostra ma la pagina della madre si alterna alla pagina della figlia e la scrittura della figlia parla alla madre con la seconda persona singolare dell’intimità. Questo andirivieni narrativo crea un’immersione emotiva di grande spessore, immersione accentuata dal continuo richiamo del corpo. La memoria del corpo è in presa diretta, con una vivacità catartica che fa saltare ogni pudore.
Entro e ti trovo, gli occhi chiusi, persa nell’incessante andare del corpo da una sponda all’altra del letto. Cerchi di spogliarti della camiciola verde d’ospedale, vuoi strapparti la flebo, respingi la mascherina che ti fa respirare. A tratti spalanchi gli occhi, colpita da un mio gesto brutale. Vorrei picchiarti per farti tornare in vita. Ti schiaffeggio leggermente la mano, il tuo sguardo ha uno stupore di bambina. Impaurita.
La gabbia del romanzo è squadernata dalla potenza e dalla commozione del corpo che parla, per entrare mani e piedi nello struggente sforzo affettivo, emotivo e intellettivo di rappresentare il passaggio dalla vita alla morte, combattendo l’oblio. La morte e ogni lotta che la precede, nella lettura del tempo che passa e rischia di abbassare e sfumare la temperatura affettiva dei ricordi. In Amore inquieto seguiamo fino in fondo la battaglia di un legame che vuole mantenere la sua vitalità. Parla di me, dice Bruna alla figlia e così l’autrice ha il permesso di partorire la voce della madre, diventa madre della madre. Il cerchio si chiude in una memorabile gestalt del verso lirico. Attraverso il flusso di coscienza, con escamotage preziosi che rivoluzionano l’impaginatura, si specchiano varie generazioni di donne, fino ad arrivare ai nostri giorni. Rompere il silenzio sull’eredità implicita della rinuncia, della violenza e dell’abuso, della cancellazione del proprio talento si offre come strategia psicologica e educativa per trasmettere un messaggio di libertà ma anche di amore. L’amore ritorna quando finalmente ogni credito è stato risarcito e ogni debito è stato saldato con il dolore e la sofferenza. La malattia è, pagina dopo pagina, il rito iniziatico di purificazione del legame materno, per scrostare ogni ruggine e vivere pienamente tutta la tenerezza verso chi si è amato e perduto. Come in ogni esperienza letteraria femminista, il privato è pubblico, perché le relazioni familiari sono relazioni di potere tra i sessi e determinano il linguaggio e la soglia di omertà. Nadia Tarantini ha avuto il coraggio radicale, condiviso e dichiarato, di mostrare la sua inquietudine in modo integrale, recuperando nel tempo la semina avvenuta del danno, dell’amarezza e della passione.
© Floriana Coppola