Un viaggio a bordo della letteratura. Nuvole strane di Marco Onofrio
Aforismi e pensieri sono letture straordinarie, che ci aiutano a dipanare matasse apparentemente inestricabili come le varie difficoltà che il quotidiano ci prospetta; quella aforistica è una letteratura tutta da riscoprire e di questo vorrei ringraziare di cuore Marco Onofrio, che ci dona un nuovo volume di grande valore, com’è ormai sua consuetudine: Nuvole strane. Pensieri e aforismi, edito da Ensemble (2018, pp. 104, Euro 12).
Quelli che viviamo sono i tempi delle frasi con sfondo colorato su Facebook, che non hanno altro effetto che quello di sdoganare le vere massime perché privi di elaborazione; sono i tempi di Wikiquote, a cui chi soffre di egocentrismo acuto può ricorrere quando viene a mancare qualche personaggio famoso per copiare e incollare sul proprio profilo social una frase attribuita al defunto per rendergli un omaggio (non richiesto); una frase, spesso, sradicata dal suo contesto e per questo interpretabile in mille modi diversi, spesso mancando di rispetto all’autore.
Sarebbe molto importante, quindi, che, fra le nostre letture, i volumi di pensieri e aforismi comparissero con molta frequenza, poiché il rischio, che io e molti come me e più quotati di me avvertono ai nostri giorni, è che si stia perdendo il valore delle parole. Non è il topico compianto della contemporaneità, di cui a volte si abusa; gli odierni mezzi di comunicazione hanno molti aspetti positivi, ma uno di quelli negativi, e grave, è che l’estemporaneità dell’espressione, la sintesi estrema che alcune piazze richiedono, il poco tempo che si dedica alla lettura, partoriscano un gusto per l’espressione di impatto, concisa e inevitabilmente superficiale.
E dire che l’aforisma vero, di cui Marco Onofrio ci presenta oggi dei magnifici esempi, è l’esatto opposto di tutto questo: è frutto di osservazione, riflessione, indagine, studio.
Come genere letterario, nasce alle origini dell’umanità e le sue espressioni più celebri sono quelle di Ippocrate (460-377 a. C.), che raccolse nei suoi Aforismi le più importanti scoperte in campo medico; l’imperatore Marco Aurelio (121-180) ci ha lasciato i suoi splendidi Colloqui con sé stesso (ca. 168-179 d. C.), ove possiamo trovare i dubbi, le debolezze, le angosce della vita interiore di un uomo dall’apparenza impassibile; non si può non ricordare Confucio (551-479 a. C.), citato anche da chi poco conosce della cultura cinese. Nell’epoca moderna, Nietzsche (1844-1900) si è servito del genere per elaborare un’intera dottrina filosofica, (“L’aforisma” scrisse ne Il crepuscolo degli idoli (1888) “la sentenza, […] sono le forme dell’“eternità”; la mia ambizione è dire in dieci frasi quello che chiunque altro dice in un libro, – quello che chiunque altro non dice in un libro…”).
Gli Aforismi di Zürau (scritti tra il 1917 e il 1918 e pubblicati postumi nel 1946) di Franz Kafka (1883-1924), Strada a senso unico (1926-1927) di Walter Benjamin (1892-1940), L’ombra e la grazia (scritto tra il 1940 e il 1942 e pubblicato postumo nel 1947) di Simone Weil, Minima moralia (1951) di Theodor Adorno (1903-1969), sono certamente letture che, chi apprezzerà il volume di Marco Onofrio, potrà certamente riservarsi per proseguire questa fortunata scelta letteraria.
Io, come lusitanista – studiosa di culture e letterature di lingua portoghese – non posso non fare riferimento a un grande libro di pensieri che trovano una certa eco in Nuvole strane: il Libro dell’Inquietudine di Fernando Pessoa.
Il Libro dell’Inquietudine, attribuito dal grande poeta portoghese al suo semieteronimo Bernardo Soares,[1] consiste in una successione priva di filo conduttore di pensieri e, per l’appunto, aforismi. Alcuni, per la verità, eccedono la lunghezza degli aforismi, ma mantengono la natura del pensiero fluttuante. Rispetto alla scelta di scrivere un volume di aforismi, c’è da dire che essa appartiene maggiormente alla volontà degli amici di Pessoa e, in particolare, ad Adolfo Casais Monteiro: gli appunti che compongono il Libro dell’Inquietudine sono stati trovati, come tutte le poesie eteronime, in un baule nella casa dello scrittore dopo la sua morte, non erano pubblicati ma neanche riuniti in vita; alcuni sono datati, altri no, ma si capisce che la loro composizione ricopre un lasso di tempo lunghissimo. Rispetto al libro di Marco Onofrio, bisogna dire anche che i pensieri di Pessoa-Soares hanno un tenore decisamente meno ottimistico; eppure, la continuità c’è e risiede, tra gli altri aspetti, in un elemento che Marco ha considerato così importante da farne il titolo della sua opera: sono nuvole.
Nuvole… Oggi sono consapevole del cielo, poiché ci sono giorni in cui non lo guardo ma solo lo sento […] Nuvole… Sono loro oggi la principale realtà e mi preoccupano come se il velarsi del cielo fosse uno dei grandi pericoli del mio destino. […] Nuvole… Esisto senza che io lo sappia e morirò senza che io lo voglia. Sono l’intervallo fra ciò che sono e ciò che non sono, fra quanto sogno di essere e quanto la vita mia ha fatto essere, la media astratta e carnale fra cose che non sono niente più il niente di me stesso. Nuvole… che inquietudine se sento, che disagio se penso, che inutilità se voglio! Nuvole… Continuano a passare, alcune così enormi (poiché le case non lasciano misurare la loro esatta dimensione) che paiono occupare il cielo intero; altre di incerte dimensioni, come se fossero due che si sono accoppiate o una sola che si sta rompendo in due, a casaccio, nell’aria alta contro il cielo stanco; altre ancora piccolissime, simili a giocattoli di forme poderose, palle irregolari di un gioco assurdo, separate dalle altre, in un grande isolamento, fredde.
Nuvole… mi interrogo e mi disconosco. […] Nuvole… Continuano a passare, continuano ancora a passare, passeranno sempre continuamente, in una sfilza discontinua di matasse opache, come il prolungamento diffuso di un falso cielo disfatto.[2]
Non sfuggiranno le attinenze con l’aforisma 44 di Marco Onofrio, che dice: “Il cuore non smette di battere, anche se gli ordino di farlo. Continua, va per conto suo. Ma quando sarà sua l’iniziativa, allo stesso modo, non potrò impedire che si fermi”.[3] Oltre, naturalmente, ai pensieri che aprono il libro, dove le nuvole passano nel cielo della mente. “Guardare le nuvole per ore” scrive Marco “spiarle, studiarle – non certo per capire che tempo farà. Lasciare invece che l’anima, allentate le catene della materia, si lasci cadere nell’abisso del cielo, immemore patria, e obbedisca tutta al suo richiamo, al naturale impulso dell’etereo informe mutamento. Fissare il cielo oltre lo sguardo, uscire senza tempo […]. Ecco le nuvole che inerti vagano, si fanno e si disfanno senza posa, ignare che quaggiù c’è chi le osserva. Gonfie, barocche, ricciute… cicciose, morbide, turrite… sfrangiate, splendide, fumanti… nel soffio dell’azzurro che le porta. E all’improvviso capisci che le nuvole cono i tuoi pensieri, e in quei bordi luminosi leggi tutta la storia della tua vita e la vita misteriosa dei giorni che devi ancora attraversare […]”.[4]
Il topos della nuvole percorre la letteratura mondiale attraverso i secoli e la sua simbologia è sempre legata al campo del pensiero, della filosofia, del tempo umano della riflessione. Aristofane (ca. 450-385 a. C.), nell’opera intitolata “Nuvole”, satirizzava la filosofia socratica per la sua astrattezza; nel sonetto “Alla sera”, per Foscolo le nuvole erano “matarazzi del cielo” che, aprendosi agli occhi del poeta, gli avrebbero donato l’ispirazione per le sue rime; con il Romanticismo, poi, le nuvole hanno fornito agli scrittori la dimensione empirea che più si addiceva alla natura sentimentale del genere letterario: così, Shelley (1792-1922) sceglieva proprio una nuvola come simbolo della perenne trasformazione degli esseri, Hugo (1802-1885) come allegoria della stessa condizione umana per il suo compenetrarsi di placidità e tempesta, mentre Goethe (1749-1832) vi dedicava un’opera sotto forma di diario, sottotitolata “E altri saggi di meteorologia” ma, in realtà, di taglio profondamente umanistico: “La forma delle nuvole”, ove confessava la propria ansia di “dare forma all’informe, conferire una normativa all’infinito mutare delle figure.”[5]
Nel Novecento, si segnala Hermann Hesse, che si dichiarava innamorato delle nuvole, nel suo Peter Camenzind:
Ma le cose a me preferite e a me ancor più dilette del lago splendente, degli abeti malinconici e delle rocce solatie, erano le nubi. Mostratemi nel vasto mondo l’uomo che conosca e ami le nuvole più di me. O mostratemi una cosa al mondo che sia più bella delle nuvole! Sono gioco e conforto agli occhi, sono benedizione e dono di Dio, sono collera e potenza mortale. Sono tenere e delicate e pacifiche come le anime dei neonati, belle, ricche e generose come angeli buoni, scure, inesorabili e spietate come gli araldi della morte. Si librano argentee a strati sottili, veleggiano ridendo bianche e orlate d’oro, si soffermano a riposare tinte di giallo, di rosso e d’azzurro. Strisciano sinistre e lente come assassini, passano sibilando a rompicollo come folli cavalieri, pendono tristi e sognanti in pallide altezze come malinconici anacoreti. Assumono la forma di isole beate e di angeli benedicenti, somigliano a mani minacciose, a vele schioccanti, a gru trasmigranti. Si librano fra il cielo di Dio e la povera terra come belle similitudini dell’umana nostalgia, appartenenti all’uno e all’altra, sogni della terra, nei quali la loro anima contaminata si stringe al cielo puro. Sono l’eterno simbolo del viaggiare, della ricerca, del desiderio e della nostalgia. E come pendono pavide, desiderose e caparbie fra cielo e terra, così le anime umane pendono pavide, desiderose e caparbie fra il tempo e l’eternità. Oh, le nuvole belle, sospese, instancabili![6]
Ora, il fatto che l’essere umano nella sua materialità, si identifichi topicamente con qualcosa di così rarefatto e diafano come le nuvole, chiama in causa un altro secolare interrogativo, quello sul confine tra reale e irreale.
Scrive Marco Onofrio nell’aforisma 32: “Il sogno vero è la realtà; la realtà vera è sogno”; nel 51: “Il visibile è l’invisibile del reale. Ma il reale “è” il suo invisibile. Il visibile è dunque reale. E il vero? È il reale dell’invisibile.” E ancora, nel 55: “La realtà è finta, e ha bisogno della finzione per diventare vera.”[7] Se a qualcuno verrà senz’altro in mente Oscar Wilde (1854-1900), secondo cui “la realtà imita l’arte”, io non posso non suggerirvi, come riflessione e lettura, l’incipit della poesia “Autopsicografia” di Pessoa, che recita:
Il poeta è un fingitore.
finge così completamente
che arriva a fingere che è dolore
il dolore che davvero sente.[8]
Il valore di Marco Onofrio come scrittore – attestato dalla quantità e dalla qualità riconosciuta delle sue pubblicazioni, dalle prestigiose recensioni ricevute e dai premi che gli vengono costantemente attribuiti, mi consente di avanzare senza alcun timore questi accostamenti con l’opera del sempiterno Pessoa, e molti altri ne trovo, non tutti pertinenti con il tema trattato qui, ma di grande interesse letterario.
Gli aforismi di Marco vanno a coprire interrogativi esistenziali, riflessioni più e meno gioiose, e non di rado il lettore vi troverà temi sui quali a sua volta si è trovato a riflettere. L’amore, il tempo, il binomio conflittuale tra realtà e immaginazione, i modi vari in cui si può leggere uno stesso fenomeno, la solitudine, l’apprezzamento per le piccole cose come unica strada per la felicità: sono questi e molti altri i temi toccati dall’autore in questo prezioso volume, da leggere giorno per giorno aprendolo a caso per trovarvi una chiave di lettura delle nostre giornate.
Concludo con un piccolo omaggio a Marco, che ho pensato imbattendomi in una celeberrima frase di Fernando Pessoa–Bernardo Soares mentre scorrevo le pagine del Libro dell’Inquietudine per preparare questo lavoro. Uno degli effetti dello sdoganamento del linguaggio con cui ho aperto questo intervento, infatti, oltre alla superficialità dei contenuti, è quello della sempre minore attenzione alla lingua vera e propria, con indulgenze sempre più vistose su scorrettezze ortografiche e grammaticali; dal momento che scrittori come Marco Onofrio ci offrono grandi libri da tutti i punti di vista, incluso quello dell’esercizio linguistico, vorrei dedicargli questo brano tratto da un pensiero – non potrebbe essere altrimenti – del grande poeta portoghese:
Non ho alcun sentimento politico o sociale. Eppure ho, in un certo senso, un alto sentimento patriottico. La mia patria è la lingua portoghese. Non m’importerebbe niente se invadessero o occupassero il Portogallo […]. Ma odio, con un odio vero, con l’unico odio che sento, […] la pagina scritta male, come se fosse una persona vera; la sintassi sbagliata come se fosse qualcuno da picchiare; l’ortografia senza ipsilon, come uno sputo diretto che mi fa schifo indipendentemente da chi sputa.
Sì, perché l’ortografia è una persona. La parola è completa se vista e sentita. E la gala della traslitterazione greco-romana me la veste col suo vero mento regio, per il quale è signora e regina.[9]
Maria Serena Felici
Università degli Studi Internazionali di Roma (UNINT)
Una replica a “Marco Onofrio, Nuvole strane (lettura di Maria Serena Felici)”
[…] Marco Onofrio, Nuvole strane (lettura di Maria Serena Felici) […]
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