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Raffaele Calvanese, intervista ai Blindur

foto di Gigi Reccia – Blindur

INTERVISTA BLINDUR

Siamo realisti, esigiamo l’impossibile.

Le interviste non sono tutte uguali, lo dico subito per pagare dazio alla quota di banalità da scrivere in un pezzo. Detto ciò quella con Blindur è stata tutt’altro che un’intervista. Pronti, via abbiamo deciso di farla al Pub vicino al loro studio di registrazione che è anche il loro quartier generale, intorno alle sei del pomeriggio, in perfetto stile british. Con un paio di birre ed una Spezi (ebbene si, Michelangelo è quasi astemio) le parole sono venute più facili, nonostante una colonna sonora tambureggiante sparata a volumi disdicevoli. Il resoconto di quasi tre ore di chiacchiere, dopo lunghi e sanguinosi tagli alla sbobinatura è il seguente, tra anticipazioni sul futuro prossimo, gli sms di Damien Rice ed il centro sociale della musica indie italiana che è la loro etichetta.

Recentemente ho letto un articolo sulla sparizione della musica dai dischi. Si prendevano ad esempio il singolo ed il disco in cima alle classifiche e si notava come la musica trova sempre meno spazio. Musica intesa come elaborazione sonora priva di parole, come sperimentazione e suono senza bisogno di essere sovraccaricato di effetti e parole. La musica e i musicisti stanno perdendo la guerra contro i fenomeni da classifica?

Massimo: Dovremmo sempre dividere il mondo del pop (parte a bomba la musica con un live degli U2) da quello del rock che vive di una serie di stereotipi come l’assolo del chitarrista, che pur se non è sui dischi c’è comunque dal vivo. Per il resto c’è una paura generalizzata di perdere l’attenzione dell’ascoltatore. Si ha paura che indugiando qualche minuto in più nel suonare e non parlando, si possa perdere l’attenzione del pubblico; come se suonare non significasse comunicare.
È peggiorato il pubblico allora? Non lo so, ma di sicuro noi che stiamo sul palco ci siamo adeguati a questo abbassamento del livello di attenzione piuttosto che combatterlo. È sempre una scelta di campo, un discorso applicabile a tutti gli ambiti della società. Si tratta di voler costruire un’alternativa, come le piccole sacche di resistenza tipo la musica new-classic ad esempio. Sono stato giusto ieri ad ascoltare Jessica Moss, una violinista canadese molto sperimentale, le sue cinquanta persone le ha fatte, con biglietto all’entrata. Queste sono le cose che ti fanno capire come si possa reagire alla tendenza ad appiattirsi, un’alternativa c’è sempre e sempre si può trovare una strada per dire qualcosa in modo diverso provando ad alzare l’asticella.

Michelangelo: a mio parere in alcuni casi cercare da parte dell’ascoltatore i famosi dischi di qualità è una presa di posizione sterile, quasi una posa da dover assumere. Certo, ben vengano queste pose.
Forse alla fin fine è una questione di corsi e ricorsi, se ci pensiamo un attimo gli anni ’70 col prog e le sue sperimentazioni sono stati spazzati via dal punk, gli anni ’80 hanno segnato un ritorno alla musica che è stata a sua volta resettata dal grunge.
Forse il punto vero è che oggi molto del successo di un artista o di una canzone non viene dalla musica o dal testo in quanto tale ma da una preponderante componente “altra”.

Ottimo gancio per passare alla domanda successiva, immancabile, sui social: sono nostri amici o no? I social sono amici della musica?

Come si diceva prima, al netto del fatto che i social sono una cosa nuova ed in quanto nuova ha dinamiche che non abbiamo ancora imparato tutti a maneggiare bene. Forse oggi abbiamo il problema di essere troppo dentro a questa situazione. Magari guardandoci da fuori, con calma tra qualche anno potremo serenamente dire che non sta succedendo nulla di speciale, in riferimento a molta della musica che viene fuori dai social. Attenzione, per noi i social sono fondamentali, molto di quello che abbiamo fatto come band è avvenuto grazie ai social, dalle date al contatto con chi ci segue.
Tutto ciò che è immateriale va trattato con cautela, anche la musica digitale è così. Io (Massimo, ma anche Michelangelo la pensa così, ndr) non amo la musica digitale, amo i dischi, amo sentirla tra le mani. Ti faccio un esempio, una delle mie band preferite in assoluto  sono i Fairport Convention. Quando ho comprato il loro primo disco ho pensato per un sacco di tempo di aver buttato quindici euro, anzi dollari perché lo comprai a Boston. A un anno di distanza quello stesso disco è stato una completa illuminazione, era cambiato tutto, ho apprezzato ogni cosa. Forse con un file mp3 non ci sarei più tornato su quell’album che poi è stato tra quelli che mi ha cambiato la vita.

Cosa significa per voi sentire?

Michelangelo: Bella domanda, non è facile rispondere su due piedi, probabilmente per me sentire vuol dire essere trapassati da qualcosa. Ne parlavo con Sebastiano Esposito a proposito di cos’è per me la musica. Come una ragazza di cui sei innamorato alla follia, una di quelle che ti fa star bene ma anche soffrire tantissimo, ma poi quando sei con lei e magari ci fai l’amore ti fa dimenticare tutto. Sentire è questo per me, è incontrare una di quelle cose che ti cambia in qualche modo.

Massimo: per me sentire ha a che fare con l’interiorizzazione. Quando interiorizzi un’esperienza, a quel punto senti. Ad esempio se tu ascolti una canzone che ti emoziona e ti riporta a qualche altra esperienza, quando si sprigiona quel potere evocativo, in quel momento stai sentendo davvero.
La stessa differenza tra Listen e Feel.
Ormai lo standard qualitativo della musica, tecnicamente parlando, è molto aumentato, a differenza di molti dischi del passato tra cui varie pietre miliari, è l’attitudine che ti fa davvero la differenza tra un buon ascolto e sentire. È l’attitudine che ha salvato il pessimo missaggio dei dischi dei Ramones o la chitarra scordata di Dylan in Blowin’ in the wind.

A questo punto, se si parla di produzione musicale la domanda nasce spontanea, che male ci ha fatto, o meglio, che abbiamo fatto di male per meritarci l’autotune?

Massimo: Gabry Ponte, è partito tutto da lì. Ad esempio c’è Michelangelo che ce l’ha a morte con il Chorus, lo odia. Io invece non la penso per nulla così, prendi The Edge, è un maestro ad usarlo (ci soffermiamo a commentare Elevation che intanto va a tutto volume all’interno del locale).
Anche Jessica Moss con le sue pedaliere aumentava l’esperienza percepita del suo violino. È una questione di come si gestisce una tendenza o una moda, e di come la interpreti.
Planetarium di Sufjian Stevens è registrato interamente con un autotune esagerato, lo stesso che si usa nei dischi rap e non ho mai sentito nessuno lamentarsi dell’uso che ne ha fatto. Come per la domanda precedente il vero grande solco lo traccia l’attitudine dell’artista, è quella che fa la differenza a prescindere dagli effetti o dagli strumenti usati per la realizzazione di un album.

«Le nostre valigie logore stavano di nuovo ammucchiate sul marciapiede; avevano altro e più lungo cammino da percorrere. Ma non importa, la strada è vita». Così in un passo di Sulla strada si descrive l’ansia di andare, di non stare fermi. Cosa significa per voi la strada, il tour, la vita in continuo movimento?

Michelangelo: In uno dei tanti viaggi fatti in questo tour ricordavamo con Massimo quando ai tempi della Dioniso Folk Band (la prima formazione in cui militavano Massimo e Michelangelo ndr) il nostro sogno era quello di fermarci agli autogrill di notte, come nei peggiori stereotipi della vita del musicista on the road, mentre ora al ritorno da un concerto non vediamo l’ora di arrivare a casa e cerchiamo di fermarci il meno possibile. È il genere di sogno che se si avvera assomiglia quasi a un incubo. La strada per noi è odio e amore. Stare anche un solo mese a casa è quasi una chimera alla fine di un tour, dà una sensazione strana.
Nonostante il nostro amore per il viaggio, dopo tre anni passati quasi senza sosta in viaggio sentiamo l’esigenza di coniugare anche il verbo tornare. Se ci fai caso nel primo disco di Blindur ci sono brani e frasi tipo Sola andata, Vanny, Canzone per Alex, tutte canzoni che invitano al movimento, gente che parte, che corre. Foto di classe è l’inno per eccellenza ad andare, senza preoccuparsi di dove. Gli appunti sulle nuova canzoni, non a caso, sono cose tipo “casa”, “la mia stanza”, “tornare”. È la chiusura di un cerchio di sicuro.
Si riesce a campare facendo il musicista? O meglio, la vita nel mondo della musica emergente com’è? Solo onori e foto da condividere o si riesce ad arrivare a fine mese?

Massimo: in quanto contabile della band, nella condizione di un gruppo emergente col primo disco che compie quasi un anno devo dire che economicamente le cose sono andate bene. Abbiamo aumentato rispetto allo scorso anno i contatti, i live e tutto il resto. Dietro c’è da farsi un mazzo incredibile per portare a casa l’equivalente di uno stipendio di un lavoratore part-time in un call center.
Alla base di tutto ci vuole la mentalità, tenere la testa bassa e pedalare. Ad ogni salita potrà corrispondere una caduta, che sia economica o anche a livello di riscontro col pubblico. È necessario lavorare continuamente per avere le spalle abbastanza forti da saper affrontare i periodi negativi, quando oltre ai soldi vengono meno anche energia ed entusiasmo. Se si parla di arrivare a fine mese è ancora una chimera per noi. E considera che in tre anni avremo rinunciato si e no a tre date. Blindur è una famiglia e molti dei guadagni vengono reinvestiti per progetti comuni. Se si ragiona in questi termini il computo è sempre positivo per l’impegno profuso e nel bilancio finale i pro superano di gran lunga i contro.
La verità è che noi guardiamo molto avanti, lavoriamo in prospettiva o almeno proviamo a farlo. Puntiamo al massimo, nonostante tutto quello che abbiamo ottenuto in giro, per ottenere 10 si deve puntare a 1000 è questo il nostro modo di affrontare la vita da musicista. Riassumerei tutto in un episodio che è capitato pochi giorni fa, incontrando un amico che ci ha detto “Complimenti per tutto quello che avete fatto ragazzi” e la risposta automatica è stata “non abbiamo combinato ancora un cazzo”.
Certo se pensi che Damien Rice ci ha chiesto di aprire la sua data napoletana, che abbiamo passato con lui un paio di giorni, e ormai abbiamo uno scambio continuo via sms e non solo, quello economicamente non lo puoi definire. Abbiamo avuto il piacere e l’ emozione di aprire date di Niccolò Fabi e Zen Circus, oltre ad altri grandi artisti italiani per loro esplicita richiesta. Ciò non vuol dire che se frequenti Damien Rice o Fabi sei automaticamente bravo come loro, ma meglio stare lì che altrove o no?
Siamo estremamente realisti, pretendiamo ancora l’impossibile.

«Si va avanti. E il tempo, anche lui va avanti; finché dinnanzi si scorge una linea d’ombra che ci avvisa che anche la regione della prima giovinezza deve essere lasciata indietro. Questo è il periodo della vita in cui è probabile che arrivino i momenti di cui ho parlato. Quali momenti? Momenti di noia, ecco, di stanchezza, di insoddisfazione…».
In qualche intervista avevate nominato il libro di Conrad come uno dei vostri preferiti e a ben guardare pare che il vostro disco rispetti questo passaggio dall’età giovane a quella matura. A quasi un anno dalla sua uscita come vi sentite rispetto a quelle canzoni?

Massimo: È così. Diventare grandi è una cosa molto difficile, tanto banale quanto vero.
[intanto parte, senza un vero perché, l’ultimo singolo dei The Kolors]
Il disco è proprio quella cosa lì, molte canzoni parlano di questo. Ora c’è da fare il passo successivo, come diceva Battiato “serve del talento per invecchiare senza diventare adulti” ora c’è bisogno di capire una serie di cose. Questo è anche il motivo per cui Blindur sta per prendersi una bella pausa. Per scrollarci di dosso una serie di riferimenti musicali fondamentali per il lavoro precedente, ma che ora anche basta, per tanti motivi, ma specialmente perché è ora di andare oltre. Perché c’è voglia di andare a sentire concerti, c’è necessità di vivere storie da poter raccontare. Le canzoni e le narrazioni non nascono dal nulla, hanno bisogno di un vissuto. Poi c’è bisogno di altro tempo per somatizzare e digerire le esperienze e capire come e quando raccontarle. In questo io sono molto lento, ho bisogno quasi di arrivare ad annoiarmi, di potermi prendere la giusta pausa per poter scrivere. Le storie che ci riguardano sono sempre abbastanza misteriose, Foto di Classe e Sola andata ad esempio sono il concentrato di varie persone messe insieme.

 

blindur foto di Gigi Reccia

Una volta mi avete detto che una canzone va scritta solo quando si ha qualcosa di davvero importante da dire. In questo senso mi pare che alcune canzoni come ad esempio Lunapark vadano in questo senso, si nota nel disco che tra un brano e l’altro è passato del tempo e c’era qualcosa che andava raccontato, qualcosa che era più importante di altre, è così?

Massimo: Lunapark invece è una storia tutta mia lì ci si accorge che quando si raccontano le storie di altri è un discorso, ma quando sei davanti ad uno specchio e racconti qualcosa di davvero personale la differenza si sente, eccome se si sente, non a caso molti che hanno ascoltato il disco mi hanno detto che è la canzone che li ha colpiti di più.
[a questo punto il dj del locale è passato al repertorio dei Red Hot Chili Peppers mentre noi siamo passati alla seconda birra]
Certe sensazioni sono difficili da descrivere, forse il modo più efficace per capirle è ascoltare la reazione chimica generata dalla registrazione di un brano, con qualcosa di non ripetibile che passa dall’artista al microfono e resta impresso in un disco, come un alone che circonda musica e parole e li rende diversi da altre cose registrate, e non si sa come ci si possa arrivare fino a che non lo riascolti. Per dire, quando la canto durante i live ho bisogno sempre di prendere fiato ed entrare nel mood della canzone, cosa che non mi capita con altri brani, è proprio speciale e ogni volta richiede preparazione per essere cantata, anche dopo cento concerti, non è cambiato nulla. È proprio quell’emozione che ti dà cantare canzoni come Lunapark che spiega come mai si è disposti, alla fine, a fare tanti sacrifici per fare il musicista.

C’è questo paradosso per il quale un artista porta spesso in giro canzoni che parlano del proprio passato senza poter suonare quelle che lo descrivono per com’è ora. Perché ogni volta tra la scrittura, l’incisione e la pubblicazione passa molto tempo, mi riferisco a Foto di classe ad esempio che parla della fine della scuola, periodo che avete passato da tempo. Come vivete questa situazione?

Michelangelo: La risposta è il tour. Perché il periodo in cui si è in tour è un momento sottratto in qualche modo al tempo ed allo spazio. Sei come sospeso. Andare in giro è un’esperienza talmente totalizzante che non hai il tempo di fermarti a pensare oltre. Come se si portasse in giro un’opera teatrale in qualche modo.

Massimo: Infatti una delle idee che ci frulla in testa è quella di creare una performance capace di cambiare ogni sera, per capire la forza del presente, dell’esperienza live non ripetibile. Non sappiamo ancora che forma e modalità avrà ma è una delle cose a cui stiamo pensando.

Cosa significa per voi “famiglia” e quanto conta per voi? Molti musicisti italiani vengono fuori da una “scena” o da una cerchia di persone che spesso sono artisti a loro modo diversi tra loro ma che riescono a crescere insieme anche grazie alla sinergie che creano tra loro. Conoscendovi da un po’ anche voi sembrate rientrare in questa dinamica o sbaglio?

Massimo: Per me è fondamentale, io personalmente sono molto espansivo ma al contempo molto selettivo sulle persone a cui aprirmi. Ci sono persone come Daniele (il cantante dei Malmo), Joseph (Joseph Foll), Micaela (Tempesta) e Roberta (una dei soci del Club 33 Giri) che sento almeno una volta a settimana se non quotidianamente. Molti ci seguono in tour, e non è che sia una gita di piacere, lì è lavoro vero, si fatica parecchio e ogni volta è una guerra per il loro compenso che puntualmente rifiutano. Per fortuna succede anche con amici e artisti più grandi di noi come Luca del management del dolore post operatorio o con Roberto Dell’Era e Xabier ed gli Afterhours, artisti con cui siamo entrati subito in sintonia pur  non avendo mai suonato sullo stesso palco insieme. È anche vero che anche noi cerchiamo di creare questo concetto di famiglia con chi ci sta attorno. Michelangelo ad esempio sta ancora cercando di diventare il fonico dei Malmo e prima o poi andrà a fare qualche data con loro, appena uscirà il loro disco. In fin dei conti credo che lo stare insieme e lo stare bene ci renda addirittura più belli, vedi ad esempio l’ensemble di Santi Poeti e Navigatori insieme a Lelio Morra e le serate assolutamente speciali che organizziamo almeno una volta all’anno.

Nel corso della vostra esperienza live avete diviso il palco con tanti artisti italiani importanti, ce n’è qualcuno che vi ha colpito maggiormente?

Un gruppo su tutti: gli Zen Circus per il loro approccio rock’n’roll a 360 gradi. Siamo subito entrati in sintonia, come poi è successo anche con i Tre allegri ragazzi morti e i MaDeDoPo. Ma in generale con tutta La tempesta.

Com’è avvenuta la vostra entrata nel mondo de La tempesta? Com’è il rapporto con i suoi fondatori e con gli altri artisti che fanno parte di questa sorta di collettivo?

Noi definiremmo La Tempesta come il “centro sociale della musica indie italiana”. Per lo spirito comunitario dello stare insieme, dell’amore per la musica in modo quasi disinteressato. Per dire quest’estateabbiamo passato insieme al Pan del diavolo una delle serate più incedibili della nostra carriera da musicisti. Ad esempio con Fabi c’è sempre stato timore reverenziale anche se lui non si poneva assolutamente su nessun piedistallo mentre coi ragazzi de La Tempesta non ho mai avuto nessuna remora a fare alcunché, siamo stati sui palchi insieme con tutti senza timore. Quando abbiamo conosciuto Enrico Molteni la prima volta lo vedevamo come una dei mostri sacri della scena indie italiana mentre adesso abbiamo un rapporto totalmente sciolto, ci scriviamo e ci prendiamo in giro in continuazione. Ci ha addirittura raccontato la genesi del nome dell’etichetta, in omaggio ad un loro amico scomparso anche se noi continuiamo ad insinuare che lo abbiano rubato ad una label islandese.
A noi piacciono le persone scostumate, umanamente parlando, amiamo fare casino, amiamo il simposio, ed in questo artisti come Appino sono nostri fratelli. Uno di quelli con cui non abbiamo mai suonato ma con cui c’è tanta stima reciproca è Dario Brunori per dire e chi può dire se un domani non riusciremo a combinare qualcosa anche insieme a lui.

Una delle vostre particolarità è quella di passare anche dall’altro lato della barricata producendo dischi di altri artisti, come decidete quando un disco vale la pena di essere prodotto? Come si fa a dire a qualcuno che le proprie canzoni sono scarse o magari valide? La produzione è solo un processo puramente economico o per produrre un disco c’è bisogno di essere convinti del progetto?

Massimo: Principalmente deve esserci il fattore umano, quantomeno al nostro livello, dove non girano somme di denaro stratosferiche. Per passare molto tempo al lavoro con una persona, un artista, che vuol fare un disco c’è bisogno di star bene e di entrarci in sintonia perché immancabilmente i dischi che produci ti condizionano e diventano anche un po’ dischi tuoi. Mi chiedevi della difficoltà di dire a un artista che la sua canzone è brutta, ma tu pensa dovergli dire che non sa suonare, ci vuole molta schiettezza, per questo è necessario stabilire una comunicazione che sia sullo stesso canale di chi la riceve.
Il produttore è un ruolo che rimane spesso nell’ombra, ciò vale quando un disco va male ma anche quando va bene, questo stare nell’ombra mette chi sta dietro al mixer nella condizione di fare un lavoro totalmente altruistico, nell’amore della musica, quantomeno ai nostri livelli. Io porto sempre ad esempio quei quaderni con i disegni da colorare dei bambini, quelle sono le canzoni che vengono portate al produttore, lui contribuisce ai colori ma il disegno non è suo. È comunque un lavoro che non finisce mai, magari la sera stai cenando e ti viene in mente un suono o qualcosa da mettere in una delle canzoni in lavorazione che l’indomani proverai a far funzionare in studio.

Ultimamente siete stati anche negli studi islandesi usati anche dai SigurRos per produrre un album di un artista campano, quali sono le differenze nell’approccio alla musica che ci sono all’estero rispetto all’Italia?

Massimo: Quest’estate siamo stati lì per ultimare il disco di Manuel Zito, un pianista che fa parte della famiglia e che appare anche nel video di Foto di Classe. Ma collaboriamo con loro da tempo, prima che per i nostri lavori per molti dei dischi di artisti a noi vicini che abbiamo mandato lì per il missaggio.
La differenza fondamentale che ho trovato lì è l’approccio totalmente rilassato che hanno a certi tipi di lavori. Ad esempio sono rimasto sbalordito dallo scoprire che Takk dei Sigur Ros è stato registrato totalmente su nastro, sena mai accendere il computer, senza editare nulla, e rimane un disco super contemporaneo. Forse la differenza di base è che lì quando registrano un disco ragionano su scala mondiale, quasi naturalmente, mentre qui in Italia abbiamo sempre il limite di pensare al locale. Navighiamo semplicemente in un acquario piccolo e ciò ha portato il nostro paese ad esportare quasi zero, musicalmente parlando, all’estero. Lì si pensa a fare semplicemente un bel disco, non a caso molti dischi dei grandi artisti italiani vengono incisi e registrati altrove. Non che qui manchino la professionalità e le strutture, i Muse ad esempio vengono a registrare in Italia, è l’approccio che è totalmente differente. Tra l’altro mi è capitato proprio pochi giorni fa di trovarmi a scrivere con il batterista dei Sigur Ros per questioni lavorative fino a che lui non mi ha gentilmente abbandonato dicendo che l’Islanda stava per qualificarsi ai Mondiali e il lavoro poteva aspettare, correndo a vedere la partita in Tv.

Voi siete cresciuti all’interno della realtà campana anche se la vostra musica e il modo in cui la componete non ha mai avuto un confine stabilito. Siete una delle poche realtà campane con un respiro davvero nazionale, da osservatori privilegiati come la giudicate questa famosa “scena campana”? Ultimamente il produttore de “I bastardi di Pizzofalcone” di de Giovanni ha definito Napoli “bacino culturale d’Italia” ma la mia impressione è che molti artisti quotati in Campania fatichino ad uscire fuori come succede per artisti di altre parti, che ne pensate? Stiamo vivendo e alimentando una bolla?

Qui ritorna il discorso della mentalità, di mettersi alla prova. I primi anni abbiamo girato l’Italia con la paura di non finire il tour in pari, non che volessimo guadagnare ma lì si paventava l’ipotesi di perderci andando in giro. Superati quei momenti si capisce che quella fatica paga. Quel rischio serve a liberarsi di certe zavorre. Il non accontentarsi della propria comfort zone è il primo passo. Certo, avere duemila persone davanti che cantano le tue canzoni è fantastico e molti a Napoli riescono a fare una cosa del genere, ma il mondo è smisurato e prima o poi tocca confrontarsi con quello che succede altrove. C’è un passaggio della biografia di Bruce Springsteen che parla proprio di quella che tu definisci bolla, in cui lui descrive quella fase in cui aveva la più famosa band nel giro dei locali del New Jersey che veniva puntualmente rifiutata ai provini in California. Lui impazziva perché sapeva che gli altri venivano presi perché erano davvero più bravi di lui, questa è stata la molla che lo ha fatto migliorare e lo ha portato ad uscire dal giardino di casa sua. Poi alla fine è una scelta di vita. Ognuno fa la sua. A questo proposito mi auguro che il prossimo disco dei Blindur provochi reazioni scioccate da parte di chi ci segue da sempre, vorrà dire che ci siamo rimessi in gioco ancora una volta. Questo tipo di mentalità ci ha portato dal marciapiede del bar sotto casa dove suonavamo non più di due anni fa fino all’Alcatraz ed al Carroponte. Senza contare anche qualche piccola soddisfazione che ci siamo presi andando a suonare in giro per l’Europa all’uscita del disco con la ciliegina sulla torta di essere gli unici invitati all’Airwaves Music Festival che si terrà a Novembre in Islanda, la nostra seconda patria ormai.

Siete finiti anche nel disco per il ventennale di Tregua di Cristina Donà, disco che annovera altre belle realtà della musica italiana come ad esempio Io e la Tigre, Birthh e La rappresentante di lista. Com’è nata questa collaborazione e la scelta del brano?

[A questo punto ritornano gli U2 con Stay, ci soffermiamo a commentare la canzone che incontra i favori di tutti e tre]

Tutto nasce da Manuel Zito, di cui abbiamo prodotto il disco quest’estate in Islanda. Mi passa uno dei brani della Donà, Conosci, con un arrangiamento di archi e violoncelli pazzeschi di cui ci innamoriamo. Passa il tempo, vinciamo il Premio de Andrè e quella sera in teatro c’era anche ospite Cristina Donà, dopo la sua esibizione la fermiamo per farle i complimenti e ci giochiamo il tutto per tutto dicendo che dal vivo facevamo la cover di Conosci. Lei resta basita, dicendo che non la suonava mai dal vivo perché non aveva mai trovato un arrangiamento live in grado di soddisfarla. Dopo qualche giorno le mandiamo la nostra versione, che a lei piace molto, ma nulla di più.
All’improvviso a fine 2016 ci arriva una telefonata in cui ci viene chiesto dal suo entourage di rientrare nel progetto del disco dei vent’anni di Tregua. Inutile dire che è stata una grandissima emozione, l’ennesima dimostrazione che l’approccio à la Blindur paga. Se mettiamo da parte il fatto che Cristina continua a considerare Massimo il batterista dei Blindur con lei va tutto alla grandissima.

Cosa bolle in pentola per il  futuro?

Si, senza mezzi termini, sta per uscire un disco di cover. Il titolo non è ancora stato deciso ma all’interno ci saranno cinque brani con altrettante collaborazioni. Ci saranno un po’ di amici dentro, qualcuno appartenente alla famiglia campana, altri a quella allargata. Tutti brani che in modo diversi parlano di noi, come anche le collaborazioni che in modo diverso raccontano un po’ di noi.
Sono passate più di due ore, più di due bicchieri di birra e svariati file audio, le interviste non sono tutte uguali, sarà banale ma è proprio vero.

© Intervista a cura di Raffaele Calvanese

 


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