Simone Weil, Sulla guerra, traduzione di D. Zazzi, Il Saggiatore (nuova edizione 2017); € 18,00
di Sandro Abruzzese
In Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale lo sforzo continuato di Weil è volto contro le forme di dominio, contro la parte di società che opprime spiritualmente e moralmente i suoi sottoposti. Weil vuole semplicemente difendere chi è più debole da chi comanda, e in generale l’individuo dalla collettività. Per questo, nel tentativo di pensare una società più giusta, finisce, a volte rasentando l’anarchismo, per concludere che solo nelle società con un livello basso di produzione, dove la divisione del lavoro è quasi del tutto assente, l’oppressione si affievolisce. Via via che la società si specializza però, che si passi dai riti religiosi alla tecnica al servizio della produzione, si avvia il monopolio degli specialisti e con esso la diseguaglianza. Ecco che l’equilibrio diviene una chimera, mentre la lotta per il potere pone subito il dominio e l’oppressione. Che siano la ricchezza, la produzione, la guerra a guidare una società, sostiene Weil, ciò che la compromette è il rovesciamento “del rapporto tra mezzo e fine”.
“Non è possibile concepire nulla di più grande per l’uomo di una sorte che lo metta direttamente alle prese con la necessità nuda, senza che egli possa attendersi nulla se non da se stesso, e tale che la sua vita sia una perpetua creazione di se stesso da parte di se stesso”, scrive a un certo punto la filosofa. Il fatto è che la società, la collettività, non consentono all’uomo di agire e determinare in toto la propria vita. Allora l’ideale di libertà sarà avere la possibilità di agire sulla società, di controllarla affinché ci renda indipendenti. A tal proposito la cultura è chiamata a incidere “sulla vita reale”.
Per quanto riguarda la vita contemporanea, il dominio quantitativo della tecnica sulla razionalità e la giustizia diventa totalitario. Gli stati centralizzati concentrano nelle loro mani un potere schiacciante sulla massa dei cittadini. Per vivere, gli uomini necessitano della società e del denaro e qualsiasi saggezza o buon senso è soppiantato dal criterio scientifico dell’efficacia, dello sviluppo, non dell’utilità sociale.
Weil, nel ’34, a poco più di vent’anni è già in grado di descrivere un mondo caotico di sprechi e stoltezza, dove la pubblicità e la speculazione regnano incontrastate opponendo le opinioni alla verità e facendo del mondo un luogo di debiti, di “spese folli”. È il capitalismo, ma anche la società totalitaria (Hitler vince le elezioni tedesche nel ’33), è il potere a incidere sul pensiero. Ne nasce una umanità addomesticata dalla scomparsa di idee chiare, disavvezza ai procedimenti logici, ragionevoli; una società che nulla può contro chi possiede i mezzi di produzione, le armi, la tecnica, i media. Ma pur trovandosi di fronte a quesiti insolubili, Weil ricorda “che la vita sarà tanto meno inumana quanto più grande sarà la capacità individuale di pensare e agire”.
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Nel recentissimo Sulla guerra (Il Saggiatore, 2017), tradotto e curato da Donatella Zazzi, volume che raccoglie gli scritti di Simone Weil sul tema dal 1933 al 1943, tornano pagine preziose su questi nodi cruciali. Vi troviamo per esempio le riflessioni sul fatto che uno Stato in guerra, attraverso la burocrazia e l’esercito, attraverso la coscrizione, la legge marziale, opprime prima di tutto i suoi cittadini abili alle armi: “il massacro è la forma più radicale di oppressione”. Sono riflessioni che inevitabilmente rimandano alla storia italiana, portano la mente ai Cadorna o allo stolto e odioso generale Leone di Un anno sull’altipiano. Insomma, le parole di Weil rimandano allo sterminio dei contadini sardi o calabresi nel corso della Prima guerra mondiale, e in generale al rapporto di stampo coloniale che gli stati moderni hanno mantenuto nei confronti del mondo contadino e poi operaio. Siamo di fronte al “fanatismo esasperato” dello stato burocratico: “un’immensa macchina, che senza sosta ghermisce gli uomini, e di cui nessuno conosce i comandi”, a cui bisogna opporre la difesa di tutti i valori umani, ricorda ancora la scrittrice. Anche perché, continua, la storia è piena di buone intenzioni capitolate di fronte alla Ragion di Stato: ne sono esempi sia Robespierre, spianando la strada a Napoleone, che Lenin con il successore Stalin.
È incredibile come il pensiero di Weil sullo Stato idolo-burocratico, che si sviluppa incessantemente per tutti gli anni ’30, approdi a conclusioni molto vicine a quelle che Carlo Levi esprimerà in Paura della libertà, libro scritto nel ’39, nell’esilio francese di La Baule. Entrambi, fino alla fine, resteranno persuasi che nulla di giusto e autentico sia possibile laddove non c’è spazio per il cuore degli esseri umani.
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Se le guerre ci sono sempre state, nel capitolo intitolato Risposta a una domanda di Alain Weil evidenzia che paradossalmente la nostra epoca è quella in cui, alla stregua di schiavi, la guerra la combattono i deboli e gli esposti, a cui quello stesso Paese, al suo interno, non accorda alcuna dignità. E anche qui tornano alla mente gli attuali eserciti professionali. Fu il Michael Moore di Bowling a Columbine a mostrare i meccanismi di reclutamento dell’esercito americana a Flint e nel resto del Paese, dove i militari, davanti alle high school delle province più povere e depresse degli Stati Uniti, illustrano i vantaggi dell’arruolamento. Ma basterebbe pensare all’attuale esercito italiano, composto in maggioranza di ragazzi meridionali provenienti dalle aree più disagiate della penisola.
È una continua battaglia razionale e morale, quella che emerge dalle pagine di Sulla guerra, volta a ritrovare misura e limite, per indicare che il fine della lotta sta nel benessere degli uomini, non nella volontà di dominio. E così Weil ammette le responsabilità della Francia imperiale e coloniale nell’oppressione della Germania pre-hitleriana, e comprende che in questa rivalità non vi è altro obiettivo se non sconfiggere l’avversario per accrescere i propri mezzi in vista di altri scontri. Per cui da parte sua si fa strada un pacifismo a oltranza, esasperato dalla consapevolezza, dettata dall’esperienza come volontaria nella guerra civile spagnola, che nulla è peggio di un lungo conflitto armato, il quale in queste condizioni per l’Europa equivarrebbe a una sciagura di dimensioni colossali.
Sappiamo che Weil fu costretta dagli eventi a lasciare Parigi e rifugiarsi a Marsiglia, New York e poi Londra, dove troverà la morte. Gabriella Fiori, nella sua biografia della francese, parte proprio dalla solitudine londinese e dalla penosa fine fatta di privazioni, lì ad Ashford, nel Kent.
In Sulla guerra apprendiamo che è Simone stessa a scrivere di suo pugno da New York a Maurice Schumann per chiedere di aiutarla a raggiungere Londra. Siamo nel luglio del ’42. In questa lettera la studiosa ammette che “Conoscevo abbastanza la mia forma particolare di immaginazione per sapere che la sventura della Francia mi avrebbe fatto molto più male da lontano che da vicino” (Sulla guerra, p. 145).
La parte finale del libro riporta alla spiritualità e al misticismo dei Quaderni. La filosofa francese fa in tempo a individuare la follia europea nel nichilismo, nell’assenza di scopo capace di produrre una terribile, spaventosa indifferenza: “L’Europa è piombata in questa apatia dopo l’ultima guerra. Per questo non ha fatto quasi nessuno sforzo per sfuggire ai campi di concentramento” (Sulla guerra, p. 150).
La soluzione, la maniera per sconfiggere l’eterna oscillazione umana tra bene e male, è nel “bene assoluto”, ovvero nella religione: ” Si tratta solo di porre, nella vita di un popolo come nella vita di un’anima, questo infinitamente piccolo (Dio) al centro”.
© Sandro Abruzzese.
da leggere insieme: Simone Weil, La prima radice