È una storia fatta di canzoni, di roulette russe, in cui Marlon Brando viene respinto e dove si accende la scintilla per la factory di Warhol e della Swinging London. È la storia di una candela che ha bruciato ardentemente per molti anni, molti di più di quanto molti suoi detrattori ne avrebbero predetti, è una storia imperfetta ma onesta, è la storia di Anita Pallenberg.
Era marzo. E in Spagna era l’inizio della primavera. In Inghilterra e in Francia faceva piuttosto freddo, era inverno. Valicati i Pirenei, nel giro di mezz’ora sbocciò la primavera, e quando arrivammo a Valencia Era estate. Ricordo ancora l’odore degli aranci, a Valencia. Quando vai a letto con Anita Pallenberg per la prima volta, certe cose le ricordi. (K.R.)
Roma a metà degli anni ’40 era una città che voleva rimettersi in piedi, il mondo attorno a lei stava facendo lo stesso. Erano anni fertili, tutto era nuovo e tutto era vecchio allo stesso tempo. Anita aveva un padre italiano e una madre tedesca, senza saperlo era al centro del mondo, prima che il centro del mondo diventasse lei.
Mario Schifano è stato il mio primo ragazzo, frequentavo artisti, intellettuali e il mondo del cinema. Ci vedevamo al Caffe Rosati: c’erano Furio Colombo, Giorgio Franchetti, Cy Twombly, Giulio Turcato. Ero* molto amica della cantante Gabriella Ferri, che mi ha insegnato il romanesco.
Vivere il proprio tempo non significa sempre subirlo, ma nel caso di Anita è stato come modellarlo. Cosmopolita ante litteram, oltre la diatriba tra politicamente corretto e non, oltre le dogane che insieme a lei sono scomparse e poi gradualmente riapparse. Anche oggi in cui pensiamo di essere in un mondo integrato e molto più piccolo una donna come Anita Pallenberg rappresenta un’idea di futuro remoto.
Donne che vanno dove vogliono, donne che sbagliano, senza dar peso a ciò che secondo tutti tranne che per gli interessati una donna dovrebbe fare. Anita Pallenberg ha vissuto la sua vita senza stare troppo a pensare a queste sovrastrutture, perché la vita è una e forse lei ne ha vissute molte di più di quelle che tutti noi ne vivremo mai. Ce ne rendiamo conto da come la descrive uno che di vite ne ha vissute parecchie e che di certo non è conosciuto per essere un perbenista, Keith Richards, suo compagno di vita per oltre 15 anni:
Anita proveniva da un mondo di artisti, e lei stessa aveva un discreto talento – era una appassionata d’arte, molto amica dei suoi interpreti contemporanei e invischiata nel giro della pop art. Il nonno e il bisnonno erano pittori, e la sua famiglia, a quanto pareva, era colata a picco in una vampata di sifilide e follia. Anita sapeva disegnare. Era cresciuta nella grande villa romana del nonno, ma gli anni dell’adolescenza li aveva passati a Monaco, in un decadente liceo frequentato dai rampolli dell’aristocrazia tedesca, dal quale era stata cacciata per aver fumato, bevuto e – peggio ancora – fatto l’autostop. A sedici anni, aveva ottenuto la borsa di studio messa in palio da una scuola di disegno di Roma, vicino a piazza del Popolo, dove, a quella tenera età, aveva cominciato a bazzicare nei caffè della intellighenzia romana – “Fellini e i suoi amici,” come diceva lei. Aveva stile da vendere, Anita. E la sorprendente capacità di unire le cose, di legare con le persone. Quella era la stagione della Dolce vita, a Roma. I registi li conosceva tutti – Fellini, Visconti, Pasolini; a New York era entrata nell’entourage di Warhol, nel mondo della pop art e dei poeti beat. Grazie, per lo più, alle proprie doti, aveva stretto intensi rapporti con molti mondi e persone diverse. Era la forza catalizzatrice all’origine di tantissimi avvenimenti di quegli anni…
Roma ma non solo, perché già a vent’anni il mondo era un posto tutto alla sua portata, i poli di attrazione erano Roma, New York, dove oltre a Warhol era stata con Mario Schifano, e Londra, vero centro pulsante negli anni sessanta:
Se ci fosse un albero genealogico, un grafico relativo alla genesi della scena londinese di quel periodo – il movimento d’avanguardia per cui Londra era nota –, Anita e Robert Fraser, il mercante d’arte e proprietario di gallerie, sarebbero lassù in cima, accanto a Christopher Gibbs, antiquario e bibliofilo, e pochi altri cortigiani di prima grandezza. Anita aveva incontrato Robert Fraser parecchio tempo addietro, nel 1961, quando ancora era in contatto con gli ambienti della prima pop art tramite il suo compagno, Mario Schifano. Grazie a Fraser, aveva conosciuto Sir Mark Palmer, il magnate stravagante e girovago, Julian e JaneOrmbsy-Gore, e Tara Browne (il soggetto di A Day in the Life dei Beatles), perciò una base era già stata gettata per l’incontro tra la musica e l’aristocrazia, benché quelli non fossero i soliti aristocratici. Ormbsy-Gore, e Tara Browne (il soggetto di A Day in the Life dei Beatles).
Anita Pallengerg selezione foto su pinterest
Sono quegli gli anni in cui Anita entra in contatto con i Rolling Stones, lei lavorava come modella e girava l’Europa, viveva per lo più a Monaco dove appunto le pietre rotolanti non ancora famose (non avevano ancora inciso Satisfaction) erano in concerto. Brian Jones era forse il più colto del gruppo e parlava anche il tedesco, cosa che incise parecchio nei primi tempi della relazione che nacque tra i due:
Poi Brian conobbe Anita Pallenberg. La conobbe più o meno nel settembre del 1965, nel backstage del concerto di Monaco. Anita venne con noi a Berlino, dove ci fu una rissa spettacolare e poi, lentamente, nel corso di diversi mesi, cominciò a uscire con Brian. Lavorava molto come modella e viaggiava in continuazione, ma alla fine si stabilì a Londra, e ben presto, tra fragorose esplosioni di violenza, ebbe inizio la sua relazione con Brian…
I Rolling Stones giravano già il mondo, ma la Pallenberg aveva una visione, padroneggiava lo spazio e quel tempo preciso, viveva in modo coerente la sua vita, e ciò impressionò parecchio Richards:
Ne ero affascinato, da quella che ritenevo una distanza di sicurezza. Indubbiamente pensavo che Brian fosse stato molto fortunato. Non capivo come avesse fatto a metterle le mani addosso. La mia prima impressione fu quella di una donna molto forte. Su questo non mi sbagliavo. Ma anche di una donna estremamente brillante, una delle ragioni per cui ne fui stregato. Per non parlare del fatto che era di grande compagnia, oltre a essere una vera bellezza. Molto spiritosa. Infinitamente più cosmopolita di chiunque avessi mai conosciuto. Parlava tre lingue. Era stata di qua, era stata di là. Il suo fascino era molto esotico ai miei occhi. Mi piaceva la sua grinta, malgrado non esitasse a istigare, provocare e manipolare il prossimo. Non ti lasciava mai un attimo di respiro. Se dicevo: “Che carino,” lei ribatteva: “Carino? Odio quella parola. Smettila di essere così maledettamente borghese”. Ci mettiamo a litigare sulla parola “carino”? E io che ne so? Il suo inglese era ancora un tantino incerto, così, di tanto in tanto, quando una questione le stava davvero a cuore, si metteva a parlare in tedesco. “Scusa. Te lo farò tradurre.”
Gli equilibri degli Stones ed anche la loro amicizia fecero si che il rapporto tra Anita e Richards rimanesse quello di due “semplici amici” il più possibile, ma Brian Jones era già incamminato su una strada in declino, tra droghe, violenza ed egocentrismo smisurato. La stessa Anita racconta in questo modo come cominciò la loro relazione:
«Eravamo amici e stavamo insieme. Ci facevamo un sacco di acidi, ma Brian li reggeva male, aveva degli incubi. Quando ci beccarono a Londra decidemmo di andare in Marocco e Brian iniziò a diventare violento. Finì in ospedale. Così io e Keith lo lasciammo lì e a questo punto iniziò la nostra relazione».
Richards ricorda così quei momenti:
E così fu Anita a fare la prima mossa. Io non potevo provarci con la donna di un amico, malgrado lui fosse diventato uno stronzo, anche nei suoi confronti. Era il ser Galahad che è in me. E poi Anita era bella. Ci avvicinammo sempre di più, finché, tutt’a un tratto, lontana dal suo uomo, lei dimostrò di avere le palle necessarie per rompere il ghiaccio e mandare tutto affanculo…
Pallenberg / Richards selezione foto su Pinterest
Quegli sono gli anni in cui Anita Pallenberg lavora anche molto intensamente come attrice, prendendo parte a film come Barbrella, Dillinger è morto, Onyrico e Sadismo (performance). Proprio per girare l’ultimo di questi, durante la relazione appena cominciata con Richards si trovò ad abortire il primo dei loro figli.
«Biologicamente era l’uomo giusto per essere il padre dei miei figli. Tra noi c’era più rispetto e amicizia che amore folle. Keith è molto generoso. Non pensavamo a mettere su famiglia ma sono rimasta incinta. E poi siccome dovevo girare un film, Sadismo, dovetti abortire. Ne risentii molto, e così finito il film sono rimasta di nuovo incinta. Se non eri Sophia Loren con Carlo Ponti alle spalle era difficile essere trattate correttamente».
La sua influenza sulla band fu enorme. Se consideriamo che l’influenza degli Stones sul mondo dell’epoca fui devastante ci rendiamo conto di quanto un personaggio come lei incise sul costume degli anni ’60 e ’70. Il Guardian la definì «l’opposto di un passeggero ornamentale del viaggio degli Stones negli anni Sessanta e Settanta». Fra le altre cose influenzò lo stile di abbigliamento della band – Richards più tardi ha ammesso di essere diventato una icona della moda «solo perché mettevo i vestiti della mia ragazza»
Anita ebbe un’influenza enorme sullo stile dell’epoca. Poteva indossare qualsiasi cosa e le stava bene. Io avevo cominciato a portare i suoi vestiti, la maggior parte del tempo. Mi svegliavo e mi mettevo quel che trovavo per terra. Alle volte era mio, alle volte della mia dolce metà, ma tanto non importava, perché avevamo la stessa taglia. Se vado a letto con qualcuno, ho per lo meno il diritto di usare i suoi vestiti. Charlie Watts, con le sue cabine armadio piene di impeccabili completi acquistati in Savile Row, era incazzato all’idea che io, con il vestiario della mia bella, stessi diventando un’icona della moda.
La sua figura era contornata di un fascino estremo, tanto da sedurre anche chi di seduzione se ne intendeva davvero:
Tanto per cambiare, gli amici di Anita erano un gruppo di personaggi in vista, all’epoca, come l’attore Christian Marquand, il regista di Candy, l’altro film cui Anita avrebbe preso parte quell’estate, il cui cast includeva, tra le numerose star, Marlon Brando, che una notte la sequestrò per leggerle delle poesie, e poi, fallito l’obiettivo, tentò di sedurci insieme, me e Anita. “Un’altra volta, amico”.
La prima delle canzoni dedicate ad Anita, in un certo qual modo, fu Gimme Shelter. Richards la scrisse in un giorno di pioggia durante le riprese di “Sadismo” in cui il regista Donald Cammel mise in piedi una vera e propria pugnalata alle spalle di Keith, facendo recitare a Mick Jagger e Anita la storia di una coppia, che poi fugacemente trascese la finzione.
Ecco perché me ne stavo nell’appartamento di Robert Fraser a scrivere: “Sento che la tempesta sta minacciando la mia stessa vita, oggi”. Fu una terribile giornata di merda, non avevo di meglio da fare. Certo, il testo assume molte sfumature metaforiche se si considera il contesto e quant’altro, ma io non stavo pensando: oh mio Dio, la mia ragazza sta girando una scena con Mick Jagger in una vasca da bagno. Pensavo alla tempesta nella mente delle altre persone, non nella mia. E, per caso, colsi nel segno. Solo più tardi mi resi conto che il significato delle parole sarebbe stato più vasto di quanto avessi immaginato. “Una tempesta minaccia la mia vita.”
Poi vennero i figli con Richards, sempre in tour, con Marlon ovunque.
Non l’ho mandato a scuola fino a 8 anni. Gli ho insegnato io a leggere e scrivere, mentre la madre di Keith si occupava di mia figlia Angela. Ho portato anche lei con me in viaggio, ma meno: con una ragazza è diverso, è un ambiente malsano…
E Tara, terzo figlio morto però a soli due mesi.
Con i figli arrivò anche la caduta definitiva nella droga, Anita e Keith dovettero prima lasciare l’Inghilterra e poi anche la Francia dove gli Stones stavano registrando Exile on main street, di lì a Los Angeles con Gram Parson, fino a terminare questo rocambolesco tour in una clinica in Svizzera, dove appunto su un letto nacquero questi versi:
You can’t say we never tried Angie, you’re beautiful But ain’t it time we say goodbye Angie, I still love you Remember all those nights we cried All the dreams were held so close Seemed to all go up in smoke Let me whisper in your ear Angie, Angie
Poi i figli crebbero, ed anche la dipendenza dalla droga, col passare del tempo le strade di Anita e degli Stones cominciarono a portare in luoghi diversi. La dipendenza dalla droga stava cambiando il rapporto di Anita con Keith Richards ed anche il suo modo di porsi verso gli altri:
Tornati in Giamaica risiedevamo a Mammee Bay,era la primavera del 1973. In un certo senso le cose stavano già cominciando a farsi un po’ difficili. Anita aveva preso a comportarsi in maniera del tutto imprevedibile, iniziava a soffrire di paranoia e durante la mia assenza per il tour si era messa a raccattare un sacco di gente che dava la sua ospitalità per scontata: pessimo assortimento. Anche quand’ero con loro casa nostra era piuttosto turbolenta. In seguito venni a sapere che Anita aveva fatto incazzare di brutto un po’ di gente. L’avevano avvisata, più di una volta, e lei si era comportata in modo eccessivamente sgarbato con i poliziotti o con chiunque fosse andato a esporle le sue lamentele. E la prendevano in giro: “Rude girl, rude girl”. E la chiamavano anche, in modo decisamente più comico, “Mussolini”, perché parlava in italiano. Anita sa essere molto sgarbata. Io comunque ero suo marito (anche se non eravamo sposati), e lei era in un mare di guai.
La vita di Anita rese una strada parallela, anche se ancora non staccata dalla storia degli Stones, viveva con il figlio Marlon, aveva altre relazioni, come quella con un ragazzo che poi si sparò nella sua stanza giocando alla roulette russa, come ha raccontato lo stesso figlio di di Anita…
Era appena uscito il film Il cacciatore. E lì c’è questa scena della roulette russa, e lui quello stava facendo, giocava alla roulette russa. Molto morboso. Aveva circa diciassette anni. Mi ricordo la data, il 20 luglio del 1979, perché era il decimo anniversario dello sbarco sulla luna. Mi ricordo che restò con noi solo per qualche mese, ma Anita era molto autodistruttiva. In quel periodo Keith era via con Lil, per cui Anita era un po’ della serie, gliela faccio vedere io – voleva riprendersi quello che era suo, per così dire. Per cui sfoggiava il ragazzino in modo molto ostentato; Keith lo conobbe anche. Stavo guardando la trasmissione sull’anniversario dell’allunaggio quando sentii uno scoppio. Non sembrava uno sparo o roba simile, fu uno scoppio. E poi arrivò Anita di corsa giù dalle scale, urlando, coperta di sangue…
Quello fu l’epilogo della storia di Anita con Keith Richards. Lei non era mai stata una fan di quel mondo, lo aveva sempre osservata in maniera distaccata, lo dice lei stessa
Le persone sono persone. Non ero una fan. Per dire, non ero entusiasta all’idea di incontrare John Lennon. Non è nel mio carattere. Provavo molto rispetto per Jimmy Page, ecco. Uscivo anche per conto mio, per andare a vedere i Pink Floyd o Jimi Hendrix. Non avrei potuto farlo perché tutte le rockstar sono maschi sciovinisti: se tu eri con i Beatles, o con i Who, non potevi stare con i Rolling Stones…
Questa storia di libertà ha avuto la sua sola grande eccezione nel rapporto di Anita con le droghe
Quando sono rimasta sola ero felice di potermi gestire le mie droghe. Ho avuto alcuni fidanzati, ma niente di serio. Poi ho iniziato a disintossicarmi. Ero anche un’alcolista molto malmessa e mi ci sono voluti vent’anni per uscirne. Sono andata in un centro per tossicodipendenti, alle riunioni degli Alcolisti Anonimi e tutto il resto, la droga è stato il grande amore della mia vita. È una storia d’amore a cui ho dovuto rinunciare. Ma non avevo scelta: ero rimasta sola, la mia famiglia non voleva più vedermi. Ero disgustosa, aggressiva, bevevo un sacco. Ero astiosa, non ero un’ubriaca felice. Volevo vivere. Volevo avere cura di me stessa. La gente moriva, c’era l’Aids. Era un periodo cupo, poi, con le mie forze, ho smesso. È la sola cosa importante. È stata una grande battaglia, ora è finita, a meno che non mi ammali gravemente e mi prescrivano la morfina, ma non lo faranno! Oggi posso sedere a un tavolo davanti a persone che consumano cocaina o bevono, senza problemi. Mi annoio e basta. Le persone che bevono diventano molto noiose.
Tutte le storie di libertà sono storie imperfette. I racconti e le biografie non hanno bisogno di eroi, hanno forse bisogno di persone autentiche, capaci di vivere la propria identità con estrema onestà, quello si, a mio parere è eroico. Anita Pallenberg ha attraversato come un fulmine la storia del secondo novecento, illuminando tutto quello che le stava attorno, dalla musica alla pittura, dalla moda alla società, ma quest’energia ha avuto un costo che ha pagato su se stessa, onestamente, senza cercare alibi. Senza nemmeno prendersi sul serio. Una vita la sua, che contiene mille esistenze, che pochi riuscirebbero a vivere nemmeno in decine di vite.
Sono una vagabonda. Un’avventuriera. Non ho un talento specifico, magari lo avessi avuto…
Quando forse il suo talento è stato proprio quello di vivere in modo libero e appassionato, senza sprecare nemmeno un momento dell’unica opportunità che abbiamo noi qui di passaggio.
La Stampa: http://www.lastampa.it/2016/09/04/societa/anita-pallenberg-la-mia-vita-tra-sesso-droga-e-rolling-stones-ic3nxvQSuggFQmOo6GRMzK/pagina.html (*sul sito si legge: “Era (sic) molto amica della cantante Gabriella Ferri, che mi ha insegnato il romanesco”)
2 risposte a “Anita Pallenberg, mille vite in una sola”
Grazie a Raffaele Calvanese per questo suo contributo denso e appassionato. Da “Roma Beat” riporto questo passaggio su Anita Pallenberg: «Anche la “Regina Nera” Pallenberg parteciperà attivamente alla vita della scena alternativa romana; oltre le vicende amorose con Mario Schifano e il suo interesse per le varie forme di espressione artistica, si ricordano la produzione di Umano non umano (con la Mount Street Film, assieme a Ettore Rosboch) e la partecipazione con Michel Piccoli al bel Dillinger è morto di Marco Ferreri (1969), peraltro girato proprio nell’appartamento del pittore a Piazza in Piscinula […] e allietato, nelle inquadrature, dalla presenza delle sue tele appese ai muri.» da: Claudio Pescetelli, Roma Beat. I duemila giorni che cambiarono la città eterna, Editrice Zona 2015, p. 121.
2 risposte a “Anita Pallenberg, mille vite in una sola”
Grazie a Raffaele Calvanese per questo suo contributo denso e appassionato. Da “Roma Beat” riporto questo passaggio su Anita Pallenberg: «Anche la “Regina Nera” Pallenberg parteciperà attivamente alla vita della scena alternativa romana; oltre le vicende amorose con Mario Schifano e il suo interesse per le varie forme di espressione artistica, si ricordano la produzione di Umano non umano (con la Mount Street Film, assieme a Ettore Rosboch) e la partecipazione con Michel Piccoli al bel Dillinger è morto di Marco Ferreri (1969), peraltro girato proprio nell’appartamento del pittore a Piazza in Piscinula […] e allietato, nelle inquadrature, dalla presenza delle sue tele appese ai muri.» da: Claudio Pescetelli, Roma Beat. I duemila giorni che cambiarono la città eterna, Editrice Zona 2015, p. 121.
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L’ha ribloggato su A-punti.
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