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La scrittura e il mondo: Teorie letterarie del Novecento – di Stefano Brugnolo, Davide Colussi, Sergio Zatti, Emanuele Zinato

La scrittura e il mondo (Carocci editore, 2016), pur cercando da una parte l’esaustività tipica del manuale, non rinuncia a esercitare una posizione critica nei confronti delle teorie descritte, senza nascondere riserve, problematicità, preferenze. Questa seconda attitudine, meno manualistica e più saggistica, si fonda su un’idea centrale, condivisa dai quattro autori e condensata nel titolo: la scrittura letteraria non può fare a meno di rimandare in qualche modo all’esterno, alla realtà, per l’appunto al mondo.
Va da sé che una tale convinzione rifiuta le cime più evanescenti di un certo formalismo, ma non si pensi nemmeno che il rapporto tra testi e realtà venga qui articolato secondo il criterio di un semplice e ingenuo rispecchiamento (come fanno in fondo, nelle loro varie declinazioni, i cosiddetti studies, per i quali la letteratura non è che riproposizione dei rapporti di forza che dominano il mondo). Viene piuttosto sostenuta una visione ambivalente dell’opera letteraria, fatta di conformismo e anticonformismo, adeguamento e reattività. Non è ad esempio un caso che in età industriale la letteratura abbia preferito l’immagine di oggetti ormai inutilizzabili, vera e propria robaccia, scarti della modernità, ribadendone così l’inattualità ma celebrandone al tempo stesso una qualche sovversiva sopravvivenza e valore residuale. Nel brano che riportiamo si impone allora il confronto, proprio sul tema dell’oggetto, con altri linguaggi attuali e dilaganti, che nella volontà di simbolizzare tutto approdano invece a una sorta di acquiescenza estetica.
Se dunque la letteratura, e l’arte in generale, ci mostra anche il rovescio del mondo, le sue contro-verità, va proprio per questo considerata come un insostituibile strumento conoscitivo, di “scuotimento” delle nostre certezze. Ma il bello della faccenda è che la conoscenza in questione non è mai separata da una qualche esperienza di piacere, il piacere di leggere i testi e immergerci in essi, accordando loro una complicità che può anche andare contro le nostre stesse convinzioni quotidiane. Il continuo rinvio alla dimensione immediata ed empirica della lettura, punto di partenza per ogni attività interpretativa, potrebbe riconciliare finalmente il senso della critica con quello del lettore comune.

@ Andrea Accardi

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13.5. Barthes e Eco

La critica culturale rappresenta oggi l’accesso privilegiato a quei fenomeni introdotti dalla modernità che si manifestano soprattutto attraverso un dispiegamento sterminato di oggetti tanto materiali che simbolici (fumetto, TV, video, cartoons, musica pop ecc.). Ha aperto il campo Roland Barthes con un saggio del 1957, Mythologies (in italiano col titolo Miti d’oggi), in cui il semiologo francese cominciò ad analizzare i fenomeni della cultura di massa alla stregua di figure del mito. Per Barthes il mito è un sistema di comunicazione, un modo di significare, una forma. Può essere mito tutto ciò che subisce le leggi di un discorso e come tale viene investito di un uso sociale. Tutte le forme della scrittura, ma anche la fotografia, il cinema, il reportage, lo sport, gli spettacoli, la pubblicità, possono servire da supporto alla parola mitica. La nostra società massificata e consumistica è il territorio privilegiato delle significazioni mitiche, dove il mito sceglie i propri oggetti per lo più dagli scaffali dei supermarket o dalla scatola della TV. L’enfasi del suo interesse ermeneutico è su dettagli a prima vista insignificanti della vita quotidiana, piccoli eventi mediatici tratti dalla cronaca e dallo spettacolo (La crociera del Sangue blu, Il viso della Garbo, Strip-tease, La nuova Citroën, La «Guide bleu») dove l’aspetto ‘mitico’ non consiste nelle singole cose in sé ma nel modo in cui vengono comunicate (meglio quindi la designazione originale di mythologies rispetto alla traduzione italiana con mito). Anzi è proprio questa nozione rinnovata di mito come sistema semiologico secondo a farsi strumento capace di prendere un segno qualsiasi, anche dozzinale, e di elevarlo al rango di presenza numinosa, pronta a trasformarsi in icona, ad ammantarsi di un’aura sacrale. Barthes legge nelle rappresentazioni collettive della contemporaneità un sistema di segni tenuto insieme da una operazione mistificatoria, quella che trasforma la cultura piccolo-borghese in una finta natura universale.
Sulla scia di Barthes, Umberto Eco ha costruito in Diario minimo (1961) una «mitologia» italiana. Eco ha in comune con Barthes, oltre che l’acutezza dell’osservazione e il feroce sarcasmo, la varietà degli oggetti di riflessione e la predilezione per la mescolanza dei livelli semiotici di alto e basso. Nel famoso saggio Fenomenologia di Mike Bongiorno lo sguardo critico si posa sugli effetti sociologici prodotti dalla televisione nell’Italia del boom economico. Ne viene fuori un ritratto impietoso e brutale del presentatore televisivo Mike Bongiorno che vuole dimostrare come la TV non offra, come ideale in cui immedesimarsi, il superman ma l’everyman. Mike Bongiorno è il caso più vistoso di tale riduzione: idolatrato da milioni di spettatori, egli deve il suo successo al fatto che in ogni atto e parola del personaggio creato dalla telecamera traspare una mediocrità assoluta (questa è l’unica virtù che egli possiede in grado eccellente). Lo spettatore vede glorificato, e insignito dell’autorità che solo la potenza mediatica può conferire, il ritratto dei propri limiti e gli decreta per questo un successo duraturo nella storia della TV italiana.

13.6. Gli oggetti culturali

Gli oggetti sono sempre più protagonisti dell’immaginario culturale contemporaneo. Come osserva Emanuele Zinato (1993), la loro rappresentazione in letteratura si presta esemplarmente sia a una trasversalità metastorica che alla demarcazione di grandi cesure epocali. Che il tema sia di grande attualità anche fuori dei confini letterari (in cui spicca lo studio di Orlando) lo segnalano, fra gli altri, il libro curato da Vijay Appadurai (1986), quello recente di Remo Bodei (2009), e il diffondersi in area anglosassone del campo della Material Culture che comprende la Things Theory, dove si studia la connessione fra produzione di oggetti e processi di simbolizzazione. Fra questi, fondamentale il rapporto oggetto/merce.
Nella società tardocapitalista (Jameson, 1989) le merci si riempiono sempre più di messaggi, immagini, suggestioni estetiche, lasciando in secondo piano la loro componente primaria, quella materiale, che le ha prodotte. Ma a sua volta i cosiddetti beni culturali – turismo, editoria, informazione, intrattenimento – hanno subito una trasformazione acquistando una dimensione di mercato che ne ha fatto una voce importante dell’economia globale. Alcuni caratteri della cultura postmoderna e degli oggetti che ne riscuotono l’interesse si possono ricondurre a questa nuova, forte convergenza di cultura e mercato: per esempio, la contaminazione di alto e basso, le citazioni colte e gli ammiccamenti alla cultura di massa, un atteggiamento spesso ironico e autoriflessivo, una predilezione per forme frammentarie e composite, l’evocazione nostalgica di ogni sorta di atmosfera storica o culturale (il vintage; cfr. Ghelli, 2005).
Un modo di comunicare e di manipolare gli oggetti che ha segnato incisivamente la nostra civiltà dei consumi è certamente la pubblicità. In un’epoca dominata dalla fiction economy, i simboli e le immagini immateriali sono diventati una fonte diretta di valore economico. L’applicazione alle cose delle tecniche della comunicazione pubblicitaria ha contribuito a trasformare i beni in rappresentazioni, ovvero in simboli. I processi di valorizzazione hanno assegnato al marchio, al brand, alla griffe sempre più importanza per la definizione dello statuto degli oggetti. La stessa confezione, non più mero contenitore materiale, è diventata essenziale nei processi di visibilità e spettacolarizzazione delle merci. Da che esiste, il fenomeno non sfugge a una sua perdurante ambiguità:

la pubblicità è, per alcuni, la definitiva dissacrazione, l’estremo involgarimento che minaccia tutti i valori alti e sacri, per altri è una nuova forma del sacro, una religione perfettamente adeguata ai nostri tempi secolarizzati: può essere l’espressione del disincanto figlio del materialismo e dell’utilitarismo moderno; può essere una forma di re-incanto, di meraviglia, ridestata dalle spettacolari creazioni della modernità (Ghelli, 2005, p. 28).

Di questo ed altro si è occupato brillantemente Francesco Ghelli che ha studiato le forme mutevoli dei rapporti fra Letteratura e pubblicità (2005). Abbiamo sin qui sintetizzato le premesse del suo lavoro: adesso ripercorriamo con la sua guida una breve storia del tema. Già Balzac con César Birotteau (1838), Dickens con La bottega dell’antiquario (1840), Zola con Il paradiso delle signore (1883) avevano dedicato nel XIX secolo interi romanzi all’avvento e alla affermazione delle strategie pubblicitarie. Walter Benjamin ha avuto un ruolo pionieristico nello studio della civiltà dei consumi già negli anni Trenta del Novecento (benché sia rimasta incompiuta la sua ricerca sui passages di Parigi, le gallerie commerciali costruite a partire dagli anni Venti dell’Ottocento). Insieme alle esposizioni universali, i passages sono per lui il simbolo della «fantasmagoria» messa in scena dal capitalismo ottocentesco: «la trasformazione delle merci in spettacolo e in esperienza estetica» (ivi, p. 70). Anticipando gli scrittori contemporanei e prendendo le distanze dalle posizioni negative dei sociologhi francofortesi, Benjamin coglie l’ambivalenza della pubblicità e dei consumi: «strumenti di diffusione dell’ideologia, ma anche luogo di evasione fantastica, espressione della dialettica, per usare i suoi termini, di “utopia” e “barbarie”» (ibid.).
Da sempre pubblicità e letteratura occupano un territorio comune che è la figuralità del linguaggio, mirano a una seduzione estetica del destinatario attraverso la manipolazione retorica della parola. Il fascino ambivalente della pubblicità e della cultura di massa è fra i temi ispiratori di un capolavoro primo-novecentesco, l’Ulisse (1922): James Joyce vede nella pubblicità non solo un nuovo motore sociale, ma soprattutto un meccanismo di produzione di significati scoprendo la moltitudine di stimoli e di informazioni nel tessuto urbano della nuova società mediatica in cui si aggira l’uomo-massa della modernità, Leopold Bloom, lui stesso agente pubblicitario di piccolo calibro. Sul versante opposto, spicca il pensiero apocalittico di Aldous Huxley (Il Mondo Nuovo, 1932). La sua antiutopia edonista ci dice che, al di là di certa condivisione retorica delle forme, la natura dei due fenomeni, pubblicità e letteratura, differisce profondamente nella sostanza: «La letteratura dà voce a quei desideri repressi o inappagati che in una società in cui fosse realizzato l’ideale pubblicitario del benessere per tutti non avrebbero più ragion d’essere» (Huxley, 1932, p. 86). Huxley inaugura la critica ideologica che diventerà dominante negli anni della contestazione giovanile del secolo scorso: non solo egli denuncia nella pubblicità uno strumento per il lavaggio del cervello delle masse, ma contrappone radicalmente la «coscienza infelice» della grande arte al banale benessere promesso dagli araldi della civiltà dei consumi.
Dal secondo dopoguerra in poi gli scrittori hanno preso coscienza che proprio quei vizi imputati alla pubblicità dai suoi critici (mercificazione, conformismo, sessismo), si stavano trasformando in elementi di fascinazione. La Lolita di Nabokov (1955) – dice Ghelli (2005, p. 105) – è stata un esemplare precoce dell’ambivalenza e del contagio: «il romanzo non racconta infatti solo la passione morbosa di un uomo adulto per una “ninfetta” adolescente, ma vi innesta anche la sua graduale fascinazione di intellettuale europeo dai gusti estetici raffinati per tutto ciò che inizialmente disprezzava: la cultura di massa americana, il consumismo, la pubblicità». Miscuglio di innocenza infantile e di volgarità disperante, Lolita non rinuncerà mai, nonostante gli sforzi di iniziarla all’arte e la letteratura, ai suoi fumetti e alle riviste femminili: è anzi la “consumatrice ideale”, la destinataria perfetta di ogni promessa pubblicitaria. A poco a poco l’attrazione per la ninfetta si traduce per il protagonista narratore in fascinazione per la cultura in cui è immersa. In un romanzo che galleggia ambiguamente intorno a uno dei pochi tabu – la pedofilia – ancora colpito da interdetto in una società ormai quasi priva di tabu, «il vero desiderio trasgressivo è qui rappresentato dalla seduzione della pubblicità» (ivi, p. 106). Così la beata credulità consumista di Lolita è il moderno ricettacolo in cui va a rifugiarsi l’innocenza infantile, trasformando in oggetto del desiderio quella condizione demonizzata da un’intera generazione di intellettuali.

13.6. Critica e fascino della merce

C’è una ambiguità diffusa nell’atteggiamento odierno, in cui la critica apocalittica, ormai del tutto integrata, convive con la seduzione delle merci. La letteratura postmoderna spesso ripropone gli antagonismi ideologici del passato, ma li combina sempre più con una accettazione consapevole, o solo rassegnata, della civiltà dei consumi, in una sorta di, talora compiaciuto, «ritorno del represso» anti-intellettuale (ivi, p. 120). L’ambivalenza perversa inaugurata da Nabokov trionfa nei romanzi di Don DeLillo, lui stesso ex pubblicitario di professione: emerge nel suo capolavoro, Underworld (1997), il ruolo determinante assunto dal messaggio pubblicitario nella codificazione dell’esperienza quotidiana costantemente filtrata dagli stereotipi commerciali e televisivi. La grande macchina pubblicitaria americana e la grande industria del cinema hollywoodiano sono i nuovi pilastri di un sistema simbolico responsabile della crescente reificazione della soggettività, colonizzata anche nella sua sfera emotiva. E quanto alla rievocazione degli incanti infantili, fra quelli raccontati dalla narrativa italiana contemporanea (Aldo Nove, Francesco Piccolo), vengono prescelti, con effetto straniante, ricordi mescolati a prodotti, marchi, programmi TV, ironico omaggio alla madeleine proustiana: il filtro della memoria (facendo leva su un pizzico di nostalgia generazionale più ancora che individuale) addomestica i tratti demoniaci e angosciosi di quello che al tempo delle ideologie era il dominio dell’apocalittico. Come dice Ghelli, «l’incanto consumistico fa vacillare il super-ego ideologico»: la denuncia feroce di un tempo si stempera nella deriva estetizzante odierna.
Con la sua analisi pionieristica, Barthes ha mostrato già negli anni Cinquanta il meccanismo «mitologico» che investe gli oggetti del consumo quotidiano. E in seguito Baudrillard (1968), utilizzando psicoanalisi e semiotica, ha indagato il Sistema degli oggetti dal punto di vista delle forme simboliche di tale consumo, mentre sempre più il mondo postmoderno tende a svuotare l’oggetto in segno (Debord, La società dello spettacolo, 1967, e Perniola, Il sex appeal dell’inorganico, 1994); per parte sua il post-umano celebra i suoi fasti nel cosiddetto cyberpunk. Spicca in questa nuova tendenza degli Studies la figura della biologa americana Donna Haraway che in maniera inedita lega scienza e tecnologia con femminismo e cultura postmoderna. Incrociando territori e confini tradizionali, il cyborg (organismo cibernetico che si situa fra l’organico e la macchina) segna la rottura delle distinzioni razionalistiche fra mente e corpo, sé e altro, animale e umano, naturale e artificiale, destabilizzando la soggettività fino al punto di mettere in questione lo stesso «essenzialismo» umano.

13.7. Due approcci a confronto: Orlando e Fusillo

Più recentemente un altro tipo di oggetto è stato rivisitato con accento e prospettive rinnovate dall’interesse degli studiosi culturali. Alludo a Feticci (2012) di Massimo Fusillo che si accosta, per contrasto, al grande studio di Orlando sugli oggetti desueti (su cui cfr. i PARR. 7.14 e 8.1), ma riprende un concetto di lunga tradizione che risale, con accezioni diverse, agli studi illustri di Marx (sul feticcio della merce) e di Freud (sulla perversione feticistica). Si tratta di un originale studio monografico condotto a cavallo dei secoli e degli ambiti disciplinari sul presunto legame tra creatività artistica e disposizione feticista in base al presupposto che l’arte, come il feticismo, è incline a caricare di simboli il dettaglio condensando in proporzioni discrete di realtà una ricca stratificazione di sovrasensi. La ricerca di Fusillo non si occupa di tutti gli oggetti, ma solo di quei catalizzatori di emozioni, sentimenti, valori simbolici che si caricano di una «eccedenza di senso« (Bodei, 2009, p.17). Il suo fine è di liberare il campo dai pregiudizi e dalle connotazioni negative che gravano sulla categoria estetica del feticismo facendo i conti con l’approccio marxista e freudiano che vi hanno visto la sede – rispettivamente sociale ed erotica – dell’inautentico: e cioè del feticcio come surrogato simbolico di una pienezza originaria perduta. Un fenomeno tanto pervasivo nella nostra cultura per Fusillo non può più essere confinato semplicemente a una perversione individuale o a una ossessione consumistica.
A seconda dei punti di vista, Feticci può essere considerato un esempio estremo di brillante critica tematica in cui si misura una nuova saggistica interessata a farsi promotrice di un sapere antigerarchico e antimetafisico (fuori cioè dei confini dello specialismo disciplinare artistico o letterario), e che punta sulla ibridazione transmediale; o, viceversa, una liquidazione definitiva della critica tematica stessa in quanto slegata ormai dai vincoli della testualità specificamente letteraria. L’aspetto innovativo del saggio è nell’estendere il campo di indagine a quei linguaggi che del dettaglio fanno la propria cifra stilistica: nella fattispecie a privilegiare un metodo – l’indizio, il paradigma, la sineddoche – rispetto a un contenuto – il testo letterario. E in effetti la rappresentazione dell’oggetto in letteratura sembra aver imboccato due prospettive di ricerca assai diverse: Orlando vede nell’oggetto non funzionale un caso esemplare di «ritorno del represso» nella serie dei contenuti (classificati con inesorabile rigore razionalistico); Fusillo lavora invece con categorie fluide, rovescia l’inautenticità presunta del feticcio nella sua piena valorizzazione, secondo le tendenze dominanti della cultura postmoderna e dell’estetica camp inclini a svalutare le opposizioni fra originale e copia, autentico e inautentico, naturale e artificiale. Dagli studi culturali, dalla critica queer, dalle ricerche sulla visualità, Fusillo mutua soprattutto la temperie irenica, la reificazione “buona” di un consumismo senza angoscia (Zinato, 2005). Mentre il libro di Orlando costituisce ancora un atto di fiducia nei confronti delle potenzialità cognitive e sovversive della letteratura, i Feticci di Fusillo adottano quella postura antitragica in cui scompare, insieme con l’ultimo residuo di critica ideologica, un atteggiamento di perdurante fiducia nell’umanesimo.

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