Celebrazione provvisoria del personaggio-donna. Tiziana Marini, poetessa concreta e immaginaria, quotidiana e astrale.
di Plinio Perilli
La lucertola cui Tiziana Marini dedica il titolo del suo ultimo libro, ovviamente (Lo scatto della lucertola, La Vita Felice, Milano, 2016), è sia concreta che immaginaria, quotidiana e astrale come tutta o quasi la sua poesia. Niente male per un’autrice capace in soli quattro versi di raccontarci come dall’interno il senso stesso dei miti, antichi o di sempre fa lo stesso:
Migrazione di sogni dagli orli verde-notte.
Piange la Chioma di Berenice
piange stelle tra i rami
dove i nidi fuggono in cerca della luna.
Cabale o invocazioni, trasmutazioni di sorta – Tiziana esce sempre dal Tempo, perché tutto l’immaiuscola e lo contiene, angelico e terrestre come le elegie omeopatiche con cui Rilke si curava, umbratile e innalzato:
Dov’è caduto l’angelo?
Dove cadde la speranza?
Una macchia d’asfalto, l’ombra del cielo
fra le sillabe del bene.
Ricordo ora quasi con tenerezza la prima volta che ci accingemmo a dar veste e lustro editoriale alle “poesie” puntigliose e dolci di Tiziana. Lei scriveva, impennava o carezzava i suoi versi tutti a stampatello (cfr. Solo l’anima vede, Pagine, Roma, 2011) – sì, proprio come il parlato dei fumetti, e insieme, i titoli strillati d’un giornale, i messaggi cadenzati della pubblicità, se vogliamo anche il dialogo capzioso ed epocale dei quadri appunto di Roy Lichtenstein:
TUTTO AMO DI ME
ANCHE IL DOLORE
SE DIVIDESSI L’IDEALE
DALLA MIA REALTÀ.
E NON NE SON CAPACE,
SOLO PER QUESTO SAREI DIVERSA
E INACCETTABILE AI MIEI OCCHI.
UN IO FELICE
NON GENERA SPERANZA.
Ricordo le facce, più che divertite, turbate delle redattrici editoriali, mentre si accingevano all’opera. Le loro domande leziose (il lezio è una merce abbondante in letteratura, specie oggigiorno): “Ma allora i titoli come dobbiamo metterli? Sempre in maiuscolo o in maiuscoletto?
«I critici da me depistati», sfotticchiava Montale. Tiziana non lo sa, ma per tre o quattro anni alcuni sedicenti misuratori di versi – seppur cordialmente – m’infastidivano amicali con commenti d’ogni tipo, in genere pseudodivertiti e parodistici, su questa poesia che proprio non riuscivano né a capire né a misurare.
Certo, l’intelligenza della critica, il suo dannato o recitato, artefatto mestiere (pur forbito di strumenti filologici, categorie, risultanze, ingranaggi o… manometri stilistici!), l’intelligenza – dicevamo – ha risorse inesauribili, invenzioni arzigogolate e volenterose.
Ma loro, questa poesia, proprio non la capivano, né forse la volevano. A quale genere appartiene? – stile, categoria, svolta gnomica – sembravano chiedersi, chiedermi.
Una poesia, in effetti, quella di Tiziana, sempre immobile e sfuggente, sempre antiretorica e cruciale, fideistica eppure scettica, timorosa (perfino timorata) e sorprendentemente eroica, pasionaria d’autocoscienza:
Non dico nulla
nascondo nel perimetro dilatato
del mio corpo
lo scheletro trasparente,
l’evidenza dei fatti.
Una poesia scomoda per i critici magari in vena di post-ermetismo: troppo chiara, schietta, ineludibile, senza serrature a cassaforte da far scattare, o scassinare: “Comincia in un angolo e finisce in un altro / non so bene cosa, ma l’ho provato”.
Fastidiosa anche per gli aedi di un improbabile sperimentalismo, troppo spesso più sedicente che seducente. Tiziana, invece, dàgli!, macina versi e snuda, cadenza verità, irrelate o gnomiche, per lei pari sono:
Sopporterà il cuore
l’interno mare effimero
l’epica distanza tra le foglie?
Non dico nulla.
Sì, Lei non dice nulla, perché sa fin troppo bene che sempre e comunque, per fortuna, Passa il cuore sulla terra (Tracce, Pescara, 2014):
Mitridate di gioia
voglio essere.
Felice sì, ma a poco a poco.
La vita insieme come un’eterna vacanza e un’eterna Odissea – la sa lunga, Tiziana – dove il dramma sempre s’inzucchera, perché tanto già viene da solo, non c’è proprio alcun bisogno di recitarlo, o inseguirlo quaggiù.
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Nella sua splendida Commemorazione provvisoria del personaggio-uomo, un grande critico come Giacomo Debenedetti ci parlava di questo esimio indiziato, il “personaggio-uomo”, quale illustre anonimo “alter ego”, la cui professione è “quella di risponderci, ma molto più spesso siamo noi i citati a rispondergli”:
«… si tratta anche di te. Allora non c’è più scampo, bisogna lasciare che si intrometta. …»
Sempre Tiziana ci fa capire – ci addita – che si tratta anche di noi. Nel bene e nel male. Sia cioè quando ci invita alla sua tavola – come buona massaia, signora di rango, coltivata e borghese en artiste – sia quando invece, e ben ci sta, con alcuni o con tutti noi rimane muta, compunta e costipata di malessere. Lirico ma insieme arreso a fertili scorie di prosa:
Qualunque mare è più piccolo di questa distanza
qualunque silenzio in fondo non è mai silenzio.
Ci confondiamo, involontariamente,
nel sorpasso.
Lo scatto della lucertola, lo si immagina perlustrazione cosmica, elegantissima cosmogonia lirica, anche atelier dell’anima, inesauribile e prezioso, benvoluto, arredato e architettato come spazio concreto e utopico, ripeto, per una applaudita mostra personale, rito bello e chiacchiericcio intonato sotto i riflettori…
Ma è anche e soprattutto spazio umbratile – ci piace e dobbiamo dirlo – regno denso di malessere, breviario di Male Oscuro. Ed è esso stesso, una dichiarazione di poetica.
un vuoto fra le stelle
invisibile
incolmabile
una mancanza di cielo
quando il cielo muore.
Dove però anche la depressione – evviva l’Arte avverata! – sortisce, censisce, ripartorisce gioielli luminosi e tagliati di saggezza, monili inestinguibili, corredo numinoso della Bellezza.
Mio viaggio sconosciuto
sospiro impervio senza riposo.
Allora sì che tutte le lucertole le coccinelle i gatti – non solo i pomi d’oro – di questo inenarrabile Giardino delle Esperidi, tornano spoglie e parvenza umana, fin troppo umana.
E Tiziana ci apre – la porta e il cuore – ci chiede di entrare, a casa sua (e con Roberto), nel salone luminoso dei suoi versi.
Io sto bene anche a casa, da sola
la mia superficie lucida, sferica
non trattiene gocce, non mette radici
di albero malato.
Dove vogliamo sederci? Nella poltrona di una metafora? O sulla sedia in stile d’un interrogativo? Nel puff trasognato e scherzoso d’un dolce aneddoto, d’uno sbuffo o d’un rimprovero carezzevole, inferto o subito? E in nome, anche, di tutti gli abbracci mancati della nostra vita – gli appuntamenti sciupati con l’affetto vero:
Per tutte le volte che non ti ho abbracciato
presa da fretta o da dimenticanza,
io mi rimprovero
considerando oggi il tempo troppo breve.
Tutto è amore, per Tiziana, anche la Storia. E guai a chi pensa che qui Essa resti assente – guai a chi ne dubita.
L’area postatomica dei relitti
alza il recinto ad alta tensione.
Si fa presto, oggi, nella fiumana di retorica che maschera invece l’aridità più scontata, plasticata, a scimmiottare parole per sentimenti, nominazioni in cambio del rispetto dei cosiddetti “valori”. Pietas, solidarietà, progresso:
S’incontrano e si separano
con egual dolore e gioia,
nel vortice del vento
perché lasciarsi, incontrarsi,
sono la stessa fonte.
Tendevano un tempo
all’immortalità
piuttosto, oggi,
alla resurrezione.
Parlo di noi
di dove stiamo andando.
Tiziana invoca “la chiarezza delle stelle”, e noi capiamo che è metafora di chiarità interiore; giacché Ella adempie e prega una “prima lux” che è sempre risveglio, pura aurora dell’anima. Aurora dopo un intero regno e confine di nebbia. “Io la contenevo intera”, sussurra Tiziana. Per questo ora può dissiparla, dissiparcela: “Cadde una nota nel silenzio / e passarono mille istanti nei miei occhi.” Sguardo dunque tutto suo, ma per gli occhi di tutti: “Poi nulla e tutti si confusero / senza nome”.
E torniamo al fulcro cruciale della mancanza. Che ovviamente ha un’accezione, una lettura duplice. Soffriamo per la mancanza che subiamo – ma anche per quella che infliggiamo. Qualcosa, qualcuno ci manca – ma anche in qualcosa, per qualcuno, noi siamo carenti. Così la mancanza s’infibra pena, ma anche s’incarna come una lieve o più fitta colpa:
Mi metterai un fiore fra i capelli
e un sorriso fra le mie mancanze
sentirò i tuoi passi sopra i miei
e saranno i tuoi piedi a camminare.
In quattro versi Tiziana Marini esplica e confessa la forza – la fragile caparbietà – del rapporto matrilineare che la lega alle sue figlie, che sempre, nell’avanzare dell’età, ci fa insomma diventare genitori dei nostri genitori, padri dei padri e madri delle madri, ma anche poi figli dei nostri figli:
Gli occhiali nuovi tu sarai
la foglia verde accanto a quella gialla
il gesto fermo, il tenero rimprovero.
Che non ti sia pesante perché non lo vorrei
quando diventerò tua figlia.
*********
In una splendida ricerca e dedizione scientifica, un grande filosofo di Psiche come Bert Hellinger ci parla delle “Costellazioni familiari” come viscere e ragione, resoconto dolente e trasvolata lirica, perché entriamo un po’ tutti (come fa e ci invita a fare Tiziana) nella Grande Famiglia delle Costellazioni, stelle noi stessi. C’è un punctum dolens che da sempre mi affascina, in Hellinger come negli scrittori arditamente e assolutamente “contemporanei” (e tanto più nelle scrittrici più coraggiose, dalle Menzogne e dai sortilegi della Morante, insomma dagli Angelici dolori della Ortese, alle quotidiane Variazioni belliche di Amelia Rosselli, alle inquiete Notti di pace occidentale di Antonella Anedda, da L’Io singolare proprio mio di Patrizia Cavalli, fino all’Animamadre purulenta e serafica di una Nina Maroccolo): ed è il bilancio, l’ondeggiamento equidistante e specchiato fra “Il bene e il male”. Senza falsi moralismi di sorta così frequenti nella falsa, recitata poesia che oggi ci insidia:
“Soltanto chi affronta anche le forze oscure e le accetta,” – scrive e direi sancisce l’onestà finanche terapeutica di Hellinger – “è legato alle proprie radici e alle fonti della propria forza. Queste persone sono ben più che buone o cattive, sono in armonia con qualcosa di più grande, di universale, e con le forze e la profondità in esso contenute.”
Liberiamoci allora di tutte le provvide, squisite carinerie di Tiziana Marini, e caliamoci, benediciamo la sua ombra che buona e giusta ci confessa, un archetipo dopo l’altro, e ci risana, si risana, come le amiche di foscoliana memoria…
Dimentichiamo i suoi colori, che non sono in realtà né feticcio né espediente rimbaudiano per uscire, saldare la nostra eterna stagione all’Inferno. E poi anche qui, attenzione: nulla per fortuna di superficiale o consolatorio, se i colori che privilegia sono – al di là del verde e del giallo apparentemente ottimistici, e proprio come nel miglior Paul Klee – tutta una teoria e un fitto reticolo variegato di blu notte o di celesti incupiti in lilla, infine di viola (“Mi sporco di viola”); ma soprattutto di neri e di grigi.
È un colore il nero? Potevamo chiederlo a Burri.
E il grigio? Quanti grigi esistono, redenti o sfumati di luce, riperdendola tra sguardo e cuore? Magari proprio in una “zona oltre il dolore”. Quando “il vento degli anemoni” le portò via la madre:
Adombravo la luce ogni tanto
per bisogno di buio
perché tu non mi vedessi triste
per fingere la notte
ed ingannare gli angeli.
Nel Purgatorio di Tiziana/Matelda, il Paradiso Terrestre, l’Eden perduto e ritrovabile è sempre in cima, come il Letè/Eunoè, fiume/traguardo d’un percorso, lieve e immane al contempo.
Giriamo e rigiriamo nella pena e intanto ascendiamo, saliamo, da “Tutto il cielo sotto” (vera spiaggetta di transito, vestibolo condominiale e poi domestico, sulla borghese e benpensante via Balduina), all’“Epica distanza tra le foglie”, ma aggiungerei anche tra le anime che ci affratellano, ci simbolizzano:
Siamo omini
e donnine
nell’abitacolo grigio-senzavita
seduti comodi, uncinati
come su un divano di velluto
lumachine senza scia
veloci.
È l’“Alfabeto ascensionale” d’ogni poesia e della poesia tutta (quando è buona, cioè vera), a confidarci “Il segreto della vita”, ogni rito avverato, transeunte di Salvazione.
Il segreto della vita
è tra terra e cielo
dove le piume si fermano
e scelgono dove planare.
Ora invece, ci spiega e ci dona Tiziana, ecco la scintilla, il senso, “lo scatto” insieme rettile e umano della salvezza. Lasciare, sacrificare la nostra coda perché rinasca. In un’altra vita, con altro scatto e senso, e un nuovo incipit finanche lirico. Lasciare le zampette di lucertola per ritrovare dita, carezze meritate, avverate. “Le mie dita hanno corolle intorno”:
M’irriga un’unica stella ormai fra tante
(e mi basta)
come acqua scesa dai molti cieli
che devoti e pazienti mi nutrivano.
E poi ogni giorno ricordare la notte; ed ogni notte – quando “la nudità dei corpi celesti” torna anche la nostra – sognare, amare insieme la sommità e la radice del giorno: “la chiarità del cielo”.
© Plinio Perilli
Tiziana Marini, Lo scatto della lucertola, ed. La Vita Felice 2016
Una replica a “Tiziana Marini, Lo scatto della lucertola. Lettura di Plinio Perilli”
[…] 2011) e Passa il cuore sulla terra (Tracce, 2014), entrambe con la prefazione di Plinio Perilli e Lo scatto della lucertola (La Vita Felice, 2016) con la prefazione di Sabino Caronia. Si dedica da alcuni anni alla […]
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