
L’otto dicembre di tre anni fa
Quando è nato Michele, Marta e Giorgio volevano trasferirsi in una casa più grande. Solo che nella loro si stava tanto bene. Cioè, non era proprio loro, erano in affitto. Però l’avevano cercata tra decine e scelta come se avessero dovuto comprarla. Volevano trasferirsi perché oltre a Michele avevano Massimo, che era nato prima. Massimo è nato per caso, Michele invece l’hanno voluto tanto. Massimo è più bello di Michele, e Marta è convinta che sia per il fatto che non l’abbiano desiderato, e poi, quando è arrivato, era perfetto. Non assomiglia né a lei né a suo padre, almeno per ora, anche se ha già sette anni. Michele invece è esattamente Marta quando era piccola. L’altro giorno, per giocare, si sono messi il rossetto tutti e due e poi si sono specchiati, ed erano l’uno e l’altra, identici. Marta ha riso. Era tanto che non rideva così. Quando è nato Michele, lei e Giorgio hanno pensato di prendere una casa nuova perché la loro all’improvviso sembrava troppo piccola. Aveva due camere da letto, ma quella dei bambini era minuscola, e poi Giorgio diceva, è meglio che ognuno abbia la sua stanza fin da subito, perché gli spazi sono importanti, e ognuno deve avere i suoi, punto. Fosse stato per lui, anche con la compagna avrebbe voluto camere separate. Invece dormivano insieme, nello stesso letto, di fronte allo stesso armadio. Per fortuna, perché senza Giorgio a Marta manca l’aria. È sempre stato così, da quando si sono conosciuti. Gliel’hanno presentato una sera e lei ricorda di aver pensato: vorrei che me lo presentassero per le prossime sere di sempre. Invece è bastata quella. Lui stava finendo l’università, Marta già lavorava. Un mese dopo aver finito ragioneria, era impiegata. Nemmeno il tempo di una vacanza. L’hanno assunta ad agosto, si è mai vista una cosa del genere? Ma bisognava approfittarne, al tg dicevano che trovare lavoro era un miracolo. E allora eccola lì, miracolata, di fronte alla macchinetta del caffè a sperimentare la sua prima pausa, senza sigaretta, perché a fumare avrebbe iniziato più tardi. Quando è nato Michele, Giorgio ha iniziato a cercare una casa più grande, anche se la loro era perfetta. Era perfetta anche per lui, che aveva voluto prenderla subito, complice la terrazza, grande quasi quanto tutto l’appartamento. C’era stata una cena, per inaugurarla, anche se non era loro. Era l’inizio dell’estate, Giorgio aveva appeso delle lampadine colorate, blu, rosse e gialle e tutti ridevano, perché sembrava di stare al luna park e allora lui aveva fatto tostare delle arachidi e urlava arachidi, arachidi e poi la stessa cosa con i popcorn e gli amici erano stati bene. Avevano bevuto tanto. Massimo, lei ce l’aveva in pancia, ma non lo sapeva ancora. L’amore di Giorgio e Marta è uno di quegli amori che funzionano e basta. È stato così da subito. Da quando quella sera lui l’ha riaccompagnata a casa. Era felice, perché aveva passato l’ultimo esame, e avrebbe iniziato la tesi. Lei era già innamorata anche della tesi che non aveva ancora scritto. Era innamorata del colletto della camicia, infilato male nel maglione. E dei suoi occhiali. Si laureava in lingue, inglese e russo. Marta non aveva mai letto un romanzo russo in vita sua e si vergognava a dirglielo, ma glielo ha detto comunque. Giorgio ha risposto che lui invece non aveva mai letto un romanzo portoghese e poi si erano baciati. Un anno dopo urlava arachidi e versava tutto il vino che gli avevano portato. Era diventato un impiegato anche lui, inserivano dati a dieci chilometri di distanza, a mille euro cadauno. Poi a casa, la sera, cenavano e facevano l’amore. Qualche volta prima facevano l’amore, e poi cenavano. Era normale, ripetitivo e bello. Quando Marta ha scoperto di aspettare Michele, Giorgio ha detto cambiamo casa e si è messo a cercarne una nuova, più grande e tutto il resto. Lei però, che voleva rimanere, perché rivedeva ogni volta le lampadine colorate e quella sera bellissima, gli chiedeva di aspettare che il bambino crescesse un po’. Aspettare, per le loro camere separate. Giorgio le aveva dato retta. Cercava comunque, ma senza convinzione. Dopo che è nato Michele la percezione del tempo di Marta è completamente cambiata. I giorni hanno iniziato a trascorrere più veloci, e così sono passati i mesi, la maternità si è smaterializzata, finché una mattina è dovuta tornare al lavoro. Michele al nido, Massimo all’asilo. Crescevano sani e felici, nella stessa stanza, e così è stato, per quasi quattro anni. Poi sei mesi fa l’hanno licenziata. Non c’è molto da dire: è successo. È rimasta senza lavoro, all’improvviso. Il capo ha dichiarato fallimento, ha chiuso tutto ed è scomparso. I dipendenti non sono nemmeno riusciti a entrare a prendere la loro roba: Marta aveva una foto dei bambini e un portapenne a forma di papera. Quella sera è tornata a casa tardi. Ha lasciato trascorrere il più lentamente possibile quel tempo che le sembrava tanto prezioso appena il giorno prima. Alla cassa del supermercato ha fatto passare un tizio che stava dietro di lei, con duecento euro di spesa nel carrello. Signora, le ha detto, guardi che ho un sacco di roba. Vada pure, davvero, gli ha risposto. Per strada ha dato la precedenza a chiunque, fatto passare tutti sulle strisce pedonali, anche quelli ancora lontani dalla strada. Si è fermata a fare benzina e ha scelto l’unica pompa già occupata. Poi è rientrata a casa. Giorgio stava mettendo a bollire l’acqua. Mi sono preoccupato, le ha detto. Michele e Massimo guardavano un cartone animato. Giorgio quando Marta fa tardi non la chiama mai, eppure soffre, ha una paura terribile che possa succederle qualcosa. Ma non chiama, e non scrive. Aspetta in silenzio. Una volta, appena prima di dormire, le ha detto, serio, se ti succede qualcosa muoio. La sua voce non era né piena d’amore, né di apprensione. Era ferma. Così Marta ha capito che sarebbe stato meglio non farsi succedere niente. E quando è lui, a rientrare tardi, nemmeno lei lo chiama, o gli scrive. È un amore fatto di spazi il loro, di paure sussurrate al buio, quando può essere il dormiveglia a parlare e a far sentire.
È tornata a casa alle nove. Mi sono preoccupato, ha detto. E lei gli ha risposto, ho perso il lavoro. Michele e Massimo guardavano estasiati il duello tra Merlino e Maga Magò, come sempre. Lui le dice, l’avranno visto cinquanta volte.
È stata dura, perché entrambi sapevano che nessuno avrebbe potuto aiutarli. Certo, magari qualche soldo, magari una mano all’inizio, ma da chi? E poi? Quella sera, prima di dormire, al buio, lui le ha detto, succede a tanti, sai? E poi le ha chiesto: come stai? Abbastanza bene, ha risposto lei, e si è addormentata quasi subito. È stata dura, perché dopo un calvario di colloqui, rifiuti e mancati appuntamenti per finte riunioni improvvise, l’unica cosa che è riuscita a trovare è stato uno stage nell’ufficio di un commercialista. Io un lavoro ce l’avevo, ha detto, quando l’hanno riconvocata con la scusa dell’apertura di una possibilità interessante. Trecento euro al mese, otto ore al giorno. Io questo lavoro già lo so fare, ed è tornata a casa. I soldi che avevano da parte, pochi, se ne sono andati in qualche affitto e un cappottino per Michele. Bello, verde scuro, con gli alamari. Dobbiamo cambiare casa, ha detto una sera Giorgio. Stava sbucciando una pera. E poi: è bello il cappotto nuovo di Michi. Com’è che si chiamano quei bottoni? Alamari, ha risposto lei. Poi l’ha guardato e ha pensato dio, siamo alla canna del gas. Alla canna del gas, capite? Lo diceva sua nonna in dialetto, quando parlava della guerra. È un così brutto modo dire. Però era lì che stavano. Dobbiamo cambiare casa, ha continuato masticando, diciamo che dovremmo stare sui cinquecento euro al mese. La loro ne costava settecentocinquanta, ed era stata un’occasione. Oppure ci spostiamo in provincia, ma poi c’è la benzina da pagare. E dobbiamo trovare l’asilo nuovo. E non conosciamo nessuno. E non mi piacciono i multisala. Era spaventato, ma sempre uguale. L’ha fatta sorridere, perché anche la sera in cui si erano conosciuti aveva parlato a lungo di un multisala che avevano appena aperto. Diciotto sale, diciotto. Pazzesco, diceva. L’ha fatta sorridere. Inizio subito a cercare, ha aggiunto. Ha acceso il computer e ha tentato di attaccarsi a una rete non protetta, sempre la stessa, alla quale provava ad accedere da settimane. Niente, ha detto, e l’ha spento. Sotto la tastiera c’era ancora la lettera di sospensione del contratto telefonico.
Ma eccoli lì l’otto dicembre nella loro casa nuova. Ci vivono ormai da tre settimane. trentacinque metri quadrati, compreso il soppalco. Una sola finestra, che dà sul cortile, con sbarre incluse, perché sono a piano terra. I bambini dormono su, nello stesso letto, grande. Lei e Giorgio invece stanno giù, su un divano letto, di fianco al tavolo della cucina, che è di fianco al frigorifero e di fronte al bagno. La scala del soppalco è così ripida che per i bambini è diventata una specie di avventura. Meglio del parchetto, ha detto Michele. Il parchetto ma in casa, ha detto Massimo. E Marta realizza solo ora che i loro tre nomi iniziano tutti con la stessa lettera. Lei non ha ancora trovato lavoro, anche se qualche sera aiuta un vecchio amico che ha un bar frequentato per lo più da nordafricani. Ha chiesto all’amico, ma lo fai il tè alla menta? E lui, no. Allora hanno cominciato a servirlo, dolcissimo, in quei bicchieri minuscoli, comprati dal cinese all’angolo per l’occasione. I nordafricani sono stati molto felici. L’amico le ha proposto, dai, vieni qui due sere a settimana, anche se non gli serve a niente, perché il bar al massimo tiene dieci persone alla volta, ma spesso ce ne sono meno. E insomma, eccoli l’otto dicembre nella loro casa senza caloriferi, anche se possono scaldarsi in tre modi diversi: con un climatizzatore che all’occorrenza spara aria calda, con una stufetta elettrica e con un’altra stufa, un po’ più grande, che funziona a bottiglie di carburante nero e vischioso, da tenere chiaramente fuori dalla portata dei bambini, anche se l’altra sera Michele ha insistito per versarlo di persona. Però c’è una buona notizia: la casa ha la cantina. È grande come la cuccia di un cane, ma almeno sono riusciti a portare con loro ciò che un giorno forse starà nella prossima casa. Quella con tre camere da letto. E tra tutti gli oggetti accatastati che un giorno forse sposteranno altrove ci sono l’albero e le statuine del presepe. Allora succede che l’otto dicembre Massimo vuole fare il presepe, e Michele l’albero. Di solito vanno d’accordo su quasi tutto, ma questa volta ognuno rimane immobile nella sua posizione. Giorgio spiega ai bambini che l’albero più il presepe non staranno mai quella casa. Non glielo spiega come un padre, ma come il terzo amico, quello che esprime dubbi sulla stabilità della casetta sull’albero. Ed è forse l’assenza di autorità a non convincerli, a farli rimanere ognuno della propria idea, che poi è solo un desiderio. Marta non c’è, è andata a trovare sua madre, che da quando sa delle loro difficoltà, non potendoli aiutare in alcun modo, produce maglioni in continuazione, che vengono poi stipati nel loro unico armadio, quello blu, come la libreria e le sedie. E insomma, sono le quattro del pomeriggio e a Milano tutti stanno facendo l’albero oppure il presepe e qualcuno entrambi. E poi c’è Giorgio con due bambini in una stanza, che all’improvviso capisce che non c’è molto da fare, e che in fondo anche lui vuole sia l’albero che il presepe, che se li meritano tutti e due, visto che hanno tre stufe e una cucina elettrica tipo quelle che si usano in campeggio. E che non c’è spazio per i vestiti, non c’è spazio per i giocattoli, non c’è spazio per i libri, le pentole, una poltrona, e non c’è quasi più spazio nemmeno per fare l’amore. Dice ai figli che arriva subito, di aspettarlo con il naso appiccicato alla finestra, che poi quando torna vuole vedere il segno. Sotto la finestra c’è il climatizzatore che sputa aria calda. Quando Giorgio esce di casa, passa davanti ai bambini e vede questi due nasi schiacciati e i capelli sparati in alto dall’aria, fa un po’ fatica a deglutire e avverte, per la prima volta, la paura di non farcela. Però vuole che quel pensiero se ne vada subito. Guarda i suoi piedi nudi nelle ciabatte da piscina, fa freddo, cammina veloce verso la cantina cuccia di cane e non ci pensa più. Ricorda esattamente sia dove ha messo l’albero che le statuine del presepe, e ricorda di aver piegato per bene la carta con il cielo stellato. Meno male, non c’erano soldi per comprarne ancora. Prende lo scatolone con l’albero, uno di quelli di plastica ma comunque spelacchiati. Di fianco allo scatolone c’è una borsa con le palline e un’altra scatola in cui troverà le statuine del presepe. Prima l’albero. Attraversa il cortile di fretta, apre la porta di casa, i bambini sono ancora lì. Quando Michele lo vede esulta, convinto di essere il vincitore della sfida. Giorgio dice a Massimo di non muoversi, che arriva anche il presepe. Due minuti dopo è di nuovo in casa. Sono tutti felici e Marta non è ancora arrivata. Cosa facciamo per primo? Chiede Michele. Questione presepe: c’è una sola mensola in tutta la stanza, esclusi gli spazi della cucina, già completamente occupati. E un presepe in cucina davvero non si è mai visto. L’ipotesi libreria viene scartata immediatamente, Giorgio non vuole spostare i suoi libri in cantina nemmeno per due settimane. D’altra parte però, la mensola, la prescelta, rappresenta a sua volta un problema: lì sopra ci sono i quaderni dei bambini, due giochi in scatola e una serie di animali di pezza accatastati, tra cui Giulio il Coniglio, il preferito di Michele. Questione albero: l’unico spazio libero è quello tra la porta del bagno e quella d’ingresso. Si dovrà solo fare un po’ di attenzione quando si entra in casa, per esempio evitando di spalancarla. Sembra un buon posto, nonostante tutto. Massimo è imbronciato, ha capito che il presepe è un problema, ma Giorgio non vuole deluderlo. Allora apre lo scatolone dell’albero e lo mette in piedi. È ancora più malmesso di come se lo ricordava, ma dopo poco prende forma. Le palline sono sempre le stesse, ce ne sono alcune color perla e alcune rosse. Manca qualche festone per agghindarlo e renderlo un po’ meno triste, ma ecco che ne compare uno d’oro dalla scatola delle statuine. La magia del Natale. Michele è felicissimo, corre attorno all’albero e fa linguacce a Massimo. Poi si avvicina alla borsa delle palline e ci infila le mani. Ne prende, una, ci si specchia, la avvicina e allontana dal naso e vuole che anche suo fratello sia felice come lui, ma l’altro non cede. Giorgio però gli dice di stare tranquillo e lasciare le palline dove sono, perché bisogna pensare anche al presepe e chiede a Massimo di cercare un po’ di spago tra i cassetti della cucina. Perché lo spago, papi? Gli chiede Michele, ma Massimo si è già tuffato nei cassetti e ne esce trionfante con un gomitolo di spago nuovo, ancora incartato proprio, e Giorgio si sente improvvisamente sollevato, come se per un attimo avesse la percezione che non sia tutto da buttare, che possono ancora salvarsi, e gli manca Marta, che però arriverà presto. E allora eccoli tutti e tre attorno all’albero ancora spoglio, come dei magi in anticipo e senza regali. Adesso facciamo questa cosa, spiega Giorgio ai bambini. Michi, tu inizia ad appendere le prime palline, ok? E invece noi, e guarda Massimo, noi ci inventiamo il primo presepe che sta su un albero insieme alle palle. Michele ride, tutto eccitato perché ha capito che lì dentro si sta per fare qualcosa che non si fa da nessun’altra parte. Poi Giorgio apre la scatola delle statuine e ne prende una: è la pescivendola con il suo banchetto. Di plastica e made in China, svolge il suo lavoro nel loro presepe da sempre. Ha entrambe le mani appoggiate al banco ricoperto di pesci e guarda con sfida chi ha di fronte: da anni uno dei tanti pastori che orbitano intorno alla capanna. Giorgio prende un pezzo di spago e glielo lega delicatamente attorno a un gomito. Stringe per bene, e all’altra estremità del filo fa un nodo che sembra un cappio. Poi appende la pescivendola a un ramo dell’albero. I bambini ridono da morire. Tocca a Massimo, che fa la stessa cosa con il fabbro. Poi una pecora per lo zoccolo, lo zampognaro per la zampogna, il fornaio per la pala di legno con cui sta diligentemente togliendo il pane dal fuoco. La stessa cosa con le casette che vengono appese per il tetto, per le finestre e, il mulino, per la ruota. Intanto Michele attacca le palline. Presto però sorge il problema capanna. Come facciamo? Chiede Massimo con la consapevolezza del fratello maggiore. Come facciamo a tenerli tutti insieme, papi? Giorgio inizia dal bue e dall’asinello, che gli sembrano i più facili da sistemare. Lega la zampa di uno a quella dell’altro, e poi li appende insieme. Una scena da macello più che da presepe, ma quando li raddrizza va un po’ meglio. E poi c’è la Famiglia ed è lì il problema vero. Intanto Michele ha finito di mettere le palline, ma tutte dalla stessa parte, tanto che l’albero pende a destra. Mettine un po’ anche di là, gli dice Giorgio, e Michele torna al lavoro. Intanto Massimo tiene in una mano Giuseppe, nell’altra Maria e la mangiatoia col Bambino. Giorgio capisce che è il momento di agire. Maria purtroppo ha le mani giunte e niente a cui si possa legare lo spago, a parte la testa, e allora le lega la testa. Fa passare poi lo spago per la mangiatoia, lo fa girare due volte attorno al bambino e arriva a Giuseppe, che come Maria sta pregando, ma ha le braccia staccate dal torace, per cui lo spago passa di lì e gli immobilizza le mani. Dopodiché le due estremità del filo vengono riunite e la famiglia rimane appesa, in alto, perché è più importante di tutto. La capanna, vuota, verrà rimessa nello scatolone. Giorgio cerca di coprire un po’ lo spago con gli aghi di pino di plastica e di fatto ce la fa, tanto che a un certo punto la famiglia sembra essersi ambientata. Un po’ come è successo a loro, nel monolocale. Il filo d’oro non lo mettono, lo lasciano nella scatola che Giorgio corre a riportare in cantina, insieme all’altro scatolone. È appena uscito dalla porta di casa, lasciando i due bambini ad ammirare l’albero e incontra Marta, che sta rientrando con alcuni sacchetti. Le dà un bacio e le dice, dentro c’è una sorpresa. Quando torna li trova tutti e tre sul divano letto che fanno la lotta. Lei si ferma, lo guarda e gli chiede, ma cosa avete combinato? Lui non sa cosa rispondere, allora va a sistemare la spesa.
© Sara Nissoli
