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Pillole da Mantova #1 – (dieci anni di aspettative)

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Nel 2004 avevo 17 anni e arrivavo a Mantova per la prima volta. Era l’estate tra la terza e la quarta liceo, dieci anni fa. Avevo nella testa tante curiosità ma ero abbastanza confusa su ciò che avrei voluto fare da grande. Ricordo però che il festival mi abbracciò da subito, come un conoscente con cui per l’appunto non hai tanta confidenza ma che ti dimostra da subito che c’è empatia tra voi. Mi sono lasciata travolgere da questa relazione; nonostante i miei 8 anni di volontariato consecutivo interrotti da un paio di pause, non è mai finita e si rigenera ora con uno stupore nuovo. Certi amori iniziati durante l’adolescenza (lo si sa) creano un senso di appartenenza irrinunciabile! E di ‘adolescenza’ si è parlato ieri, nell’evento 9, con Michele Serra presentato da Federico Taddia e da tre studenti di liceo presso la bellissima Piazza Castello [nel 2004 lì ho assistito al mio primo concerto di Patti Smith, dalla prima fila]. I suoi ‘sdraiati‘ sono stati al centro di un dibattito intergenerazionale sorprendente; incalzato da numerose questioni anche provocatorie, Serra ha affermato: «A 16 anni ero uno spocchioso rompicoglioni [ma] non vorrei tornare adolescente; è un’età in cui sei vulnerabile.»
20140904_112216Se ripenso a me stessa allora ricordo il mio spaesamento non orizzontale (come quello del protagonista del romanzo di Serra) anzi, completamente verticale, eppure difficilmente governabile. Ed è anche quella l’età de Il giovane Holden, al centro del translation slam di stamattina (evento 15). La più recente traduzione per Einaudi è a cura di Matteo Colombo, presente presso la Chiesa di Santa Maria della Vittoria con la traduttrice Anna Rusconi; l’evento, moderato da Isabella Zani ha sollevato numerose questioni di approccio ad un romanzo ‘particolare’ come questo, che in Italia uscì nel ’61 tradotto da Adriana Motti. Questo libro, originariamente pensato come un monologo, ellittico e allusivo, presenta un inglese americano già per l’epoca molto contemporaneo; si tratta altresì di una scrittura ricca di ripetizioni ma, al contempo, raffinata in partenza, in cui tutto fa gioco allo stile, dalla sintassi alla punteggiatura. Rimettendo in discussione la traduzione di cinquant’anni fa, Colombo ha ascoltato il testo cercando di lavorare secondo la regola della ‘lealtà’ a detta di Rusconi, la quale recupera con questa definizione Bruno Osimo. Prosegue Colombo: «Ogni generazione merita che un testo venga veicolato nel miglior modo possibile. La lingua era un mio serio ostacolo da ragazzo, e mi dava la sensazione di non poter entrare nel romanzo. Questo è un testo che non ha bisogno di essere giovanilizzato perché questa cosa non c’è in originale. Ho scoperto che poteva reggere, sulla pagina scritta, una traduzione molto più fedele all’originale di quanto pensassi. Volevo sentire cosa questo personaggio tirasse fuori da me. Quando consegno un testo per me è [l’]’inevitabile’.» E prosegue: «Oggi non mi chiedo più [solo] come si potrebbe tradurre ma come si potrebbe vivere senza.»
Nel 2004 venivo a Festivaletteratura per la prima volta e avevo da poco letto Holden (che ho scoperto oggi essere il titolo suggerito, a quel tempo, da Italo Calvino più di recente da Colombo stesso, mentre la proposta di Motti fu Il pescatore nella segale, poi scartato). Nel 2004 ero una liceale onnivora e ‘macina pensieri’. Oggi invece ho scelto cosa farò da grande e penso che il mio tempo qui sia quello che prendo per me, per nutrirlo di aspettative che dieci anni fa non avevo, e che sono cresciute con me, ma anche di sempre nuove domande.

© Alessandra Trevisan

Una replica a “Pillole da Mantova #1 – (dieci anni di aspettative)”