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La diatriba sui rapporti tra canzone d’autore e poesia andrebbe sempre precauzionalmente evitata. Tanto non se ne esce vivi, tra puristi irremovibili (“la poesia è un’altra cosa!”) e fan semplificatori (“i cantautori sono poeti!”). Possiamo comunque dire che la canzone d’autore ha una stretta parentela con la poesia, pur restando vincolata a una struttura musicale (fuori della quale il testo quasi sempre zoppica), e che i cantautori hanno rilevato il mandato sociale che era dei poeti (la maggioranza dei giovani cita più facilmente Battiato e De Gregori che Montale). I giudizi di valore e le gerarchie nascono dopo, e in fondo non spiegano molto. Una cosa che invece mi sembra sostanzialmente vera è che la canzone arriva in ritardo, ripete cose che la poesia aveva già detto in precedenza, e quindi in un certo modo segue la scia: lo disse Zanzotto a proposito di Conte, trovando nelle sue canzoni “una forma di dolce crepuscolarismo”. Probabilmente è così, ma quanta (buona) poesia di oggi sembra un po’ in ritardo sulla storia stessa della poesia? E quanti poeti sono sopravvalutati soltanto perché poeti?
Un’altra cosa va detta: essere cantautori in italiano è più difficile che in qualunque altra lingua. Questo perché la nostra tradizione fortemente austera e conservatrice ha scavato un solco profondo tra cultura alta e cultura bassa, e tra linguaggio poetico e linguaggio comune. Molto più ad esempio che in Francia o in Inghilterra (dove infatti i cantautori sono visti con molto meno sospetto). La stessa natura polisillabica dell’italiano rende particolarmente difficile adattare un testo “alto” a un’armonia semplice da canzone. Prendiamo il cantautore più importante della nostra tradizione, Fabrizio De André. Bene, prima di trovare nel dialetto genovese una duttilità metrica inconsueta, De André aveva scritto i suoi testi migliori grazie anche al virtuosismo della musica. Nei concept-album dei primi anni settanta, infatti, la collaborazione con veri compositori (Reverberi e poi Piovani) gli aveva concesso una possibilità di scrittura più ampia e complessa che in altri casi, una fuoruscita dalle forme prevedibili della canzone. Non a caso in Storia di un impiegato il livello letterario è molto alto, così come lo sarà a maggior ragione in Crêuza de mä, dove il dialetto incontrerà la musica di Pagani.
Proviamo però a vedere cosa sapeva fare De André “con pochi mezzi”. Confrontiamo quindi due canzoni musicalmente facili, costruite su un giro armonico, e con testi piuttosto regolari. La prima è La guerra di Piero, una delle sue più famose. Tipica ballata alla maniera degli chansonniers francesi, linea narrativa semplice, immagini misurate e coerenti fra di loro. Alcuni versi sembrano sacrificati sull’altare della rima (“con le stagioni a passo di giava”), altri sono bellissimi, come i due che descrivono Piero più morto che vivo, e ormai incapace di parlare (“dentro la bocca stringevi parole/ troppo gelate per sciogliersi al sole”). Non ci sono molti dubbi, si tratta di una buona canzone, molto tradizionale sia nel tema che nella struttura, e insomma non c’è niente che possa far pensare a una poesia in musica. Qui il lavoro dell’artigiano di canzoni è troppo evidente.
Prendiamone invece un’altra, di molti anni successiva, scritta con Bubola: Rimini. Apparentemente si tratta ancora una volta di una canzone piuttosto tradizionale, con una storia raccontata, e un ritornello in maggiore a intercalare. Teresa, la figlia del droghiere, sedotta e abbandonata da un bagnino quando era ragazza, durante un’estate a Rimini. Questo è il tema narrato. Il colpo di genio di De André è però quello di accostarlo analogicamente, nella strofa centrale, alla vicenda di Cristoforo Colombo, a cui viene peraltro attribuita una sorta di innocenza, storicamente discutibile, rispetto ai massacri dei nativi americani (“per un triste re cattolico – le dice -/ ho inventato un regno/ e lui lo ha macellato/ su una croce di legno”). Ed è per questo che agli uomini dell’equipaggio (a tutti gli uomini di tutti gli equipaggi della Storia) raccomanda dolorosamente: “non regalate terre promesse a chi non le mantiene”.
Un verso del genere, inserito nella Guerra di Piero, l’avrebbe fatta esplodere, andare in mille pezzi. Rimini ha un testo molto più pregiato, e regge. Cos’è avvenuto? Una specie di lapsus, di scivolamento, che dall’espressione lessicalizzata “terra promessa” ritorna alle banali promesse del bagnino: entrambe le cose, le promesse e l’America, non sono state mantenute come dovevano. De André insomma, per dirla con Freud, qui tratta le parole come cose, scivola cioè sulla superficie dei significanti. Freud lo diceva a proposito del comportamento linguistico dell’inconscio e dei bambini, e Lacan andò oltre, scorgendo in tutti i nostri discorsi il predominio della lettera sul significato. Molta poesia di oggi sembra trattare le parole come cose, scoprire (o fondare) significati sulla faccia dei significanti. Lo faceva Zanzotto, non lo ha fatto De André, perché non era quella la direzione della sua ricerca. Eppure anche in una canzone semplice come Rimini può avvenire un’interferenza come quella che abbiamo visto, a conferma che i percorsi della canzone d’autore e quelli della poesia si incrociano di continuo. Se la poesia fosse ancora in metrica, probabilmente la confusione sarebbe maggiore.
De André era d’altronde consapevole di giocare sui due tavoli dell’emotività (le parole e la musica). Molto bella, in questo senso, una sua lettera di ammirazione e di “scuse” a Mario Luzi per il successo raggiunto, assai maggiore di quello dell’anziano poeta. L’unione di timidezza e pubblico è la contraddizione interna a questa nuova figura sociale che è il cantautore, animale ibrido tra l’artista pop e il bibliotecario. De André stesso raccontava di soffrirne molto, e pare che bevesse prima dei concerti per vincere la propria riluttanza alle esibizioni dal vivo. Durante il tour registrato con la PFM, fece così un famoso strafalcione, paragonando l’atmosfera della sua Rimini a quella della Rimini di Federico Fellini, ma invertendo le desinenze di regista e titolo: I Vitelloni di Fellini diventarono così I Vitellini di Felloni. Ecco un altro caso di scivolamento sulla superficie dei significanti, dovuto non all’intuizione poetica, ma all’alcol. E comunque passato alla storia.
10 risposte a “I Vitellini di Felloni – di Andrea Accardi”
Eh sì, concordo in gran parte con questo pezzo. Credo che canzone “d’autore” e poesia siano due generi artistici differenti: il primo è un genere musicale, l’altro letterario. Naturalmente, il cantautore (parola bruttina) può fare anche della letteratura, ma i suoi testi quasi sempre stanno in piedi grazie alla musica, o meglio, al ritmo melodico. Comunque, basta agli steccati e ai compartimenti stagni nell’arte.
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Complimenti, Andrea, per quel lapsus di Rimini, così bello. Un abbraccio
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complimenti anche da me, per questo testo tanto brillante! Grazie
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Ho letto e “ascoltato” con il piacere di conferme e scoperte. Grazie, Andrea, per queste tue osservazioni.
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Grazie a tutti per lettura e commenti.
Spero di non aver fatto torto né alla poesia né alla canzone d’autore, visto che tengo a entrambe allo stesso modo. :)
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Musa irreprensibile! Di poesia non si mangia ma si campa .Cultura spicciola senza reddito alcuno che ci sorprende
sempre, sazi,-(è la metafora che ammazzerei,)-Coltello o piaga questo è il dilemma!
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…lo strabiliante mondo del non essere!
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Acc… Che bel pezzo! Ne aspetto un altro su canzone e poesia nel post De André. Chissà uno sguardo acuto cosa può dirci…
Tra parentesi: com’è evocativa la copertina scannerizzata di un compact disc, ormai ha sapore annata pur esso…
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Bellissimo pezzo, Andrea, ma non c’era da dubitarne. L’unico mio dubbio è se, effettivamente, De André sia il cantautore più importante della nostra storia (bazzecola), e inoltre se l’accostamento – che tu splendidamente illustri – tra la vicenda di Teresa e quella delle Americhe sia un caso di predominio della lettera in senso lacaniano (ancora una bazzecola). Ma… insomma, cavolo, bello, dai!
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Ciao, Edoardo,
quanto a De André, anche le gerarchie di merito all’interno dello stesso genere lasciano il tempo che trovano, però qua mi sentirei di sbilanciarmi… O perlomeno, nessun cantautore ha avuto come De André l’idea e il sentimento di non scrivere mai soltanto canzoni, isolate fra loro, ma progetti in musica. Questa visione dall’alto (che è un valore, non ho dubbi) è stata una sua caratteristica dalla Buona Novella fino alla fine. E poi ci sono altre ragioni, ma non mi dilungo..
No, non è un predominio in senso lacaniano, in Rimini il significato ancora stravince sui significanti. Non è quindi, come ho scritto, un esperimento alla Zanzotto, che al pensiero di Lacan spesso si rifaceva esplicitamente. E però, ed è quello il bello della faccenda, volevo far vedere come perfino in una canzone dalla struttura tradizionale la lettera scalci e produca strane interferenze, che in qualche modo costringono a una torsione tutto il resto del testo. Perché, ne sono sicuro e lo ripeto, fai un gioco di parole del genere nella Guerra di Piero e vedi come esplode tutto.
Un abbraccio
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