
Sono nato a pochi metri dal mare. Un mare diventato cattivo, nero e sporco come il petrolio, che non ti ci puoi bagnare. Su uno dei tratti di costa più belli del mondo, dalla spiaggia bianchissima, granelli fini e spruzzati di oro, ma pur’essa diventata cattiva. Seminata di spazzatura come una immensa pattumiera a cielo aperto. La mia casa non aveva finestre. Era un vano lungo. Absidato come una vecchia chiesa paleocristiana. Al vico Gelso. L’uscio principale affacciava all’interno di un luogo, una specie di corte comune ad altre abitazioni tutte a piano terra, confinato da un portone, oltre il quale c’era la strada. Una strada lunga e dritta che solo a vederla faceva paura, per il buio, il silenzio spettrale che l’attraversava da una parte all’altra appena il sole cominciava a declinare. Si vedevano soltanto le stelle e si udiva qualche latrato lontano prima che vi piantassero alti lampioni come filiere d’alberi, con la loro fioca luce artificiale, e vi costruissero case e case e case, che neanche si vede più il cielo. Vivevo con i nonni paterni e una zia, poverina, malata di nervi. Aveva il morbo sacro e quando cadeva in deliquio buttava strilli che facevano accapponare la pelle e noi ragazzini mettevamo le ali ai piedi per scappare. Passata la crisi, la nonna era costretta a farsela tutta quella lunga strada buia per venirci a ripescare, nascosti dove eravamo nei suoi anfratti. La scuola si trovava un poco più avanti. A duecento metri dalla casa dei nonni. C’era un convento di suore francescane, le sorelle della buona morte, attaccato a una chiesa dedicata a San Marco Evangelista. Era bello, il convento. Col chiostro della Madonna, la fontanina, le scale che portavano al piano di sopra appena dirupate, e le monache con le loro tonache marrone scuro che giravano intorno a controllare che tutto filasse per il verso giusto. Mi ricordo di Suor Felice che nella sua stanza-portineria aveva organizzato un vero e proprio bazar, con tanto di penne, quaderni, righe, matite e soprattutto le buonissime merendine che compravamo, caricandole sul conto dei genitori, durante l’ora di ricreazione. Poi c’era suor Priscilla, la superiora, che ci faceva tremare e soprattutto suor-non mi ricordo come, giovanissima e bella come la statua della Regina, che s’occupava del refettorio. Il sacerdote della chiesa di San Marco, invece, si chiamava don Tommaso, ed era un tipo buffo. Quando feci la prima comunione, ricordo, gli caddero le particole sul pavimento e siccome Cristo consacrato non si può cestinare, lui le raccolse una a una e prima d’ infilarcela in bocca, ci soffiava sopra. «Il soffio dello Spirito Santo», commentò con la sua migliore aria ilare per superare lo sgomento dei fedeli. Le scuole medie, invece, dedicate ad Antonio Gramsci, stavano in un vicolo perpendicolare. Via San Rocco. Una scuola come tante, senza poesia, col preside scampato ai campi di concentramento, le aule anguste, qualche professore sfaticato e niente palestra. Non si sentivano odori, le voci erano comuni, senza nenie e soprattutto mancava suor-non-mi-ricordo-come. Mia madre gridava, vedendomi col muso sotto: «Ma vedete se un ragazzino si può innamorare di una monaca! E per giunta del refettorio». Io non lo so se m’ero innamorato di suor-non-mi-ricordo-come, ma la pensavo spesso, col suo passo leggero, silenziosa e sempre sorridente. Poi c’era la Festa di Pentecoste, con le immancabili luminarie, il carro trainato dai buoi, il volo dell’Angelo. Anche questa era poesia. Che si recitava in coro, tutt’insieme a guardare a naso in aria e bocca aperta il solito spettacolo. A notte fonda. Sfiniti. E soprattutto tristi dentro perché era tutto finito e la stanchezza premeva pesante alla testa e alle caviglie. Alla fine ognuno in cuor suo giurava a se stesso che il prossimo anno non vi avrebbe partecipato, che era sempre la solita festa, ma poi bastava il richiamo delle campane dell’Annunziata per ritornare tra la folla, le bancarelle del torrone e l’ossequioso officio di una pratica pagana. E poi cosa c’era più? La campagna coi suoi buoni frutti, con la sua fatica. La consapevolezza di essere parte di quella terra. Di essere un grano o un moggio. Di essere padre o figlio. Ma sempre della stessa terra. Adesso non c’è più niente. Ci sono case e case e case. Anonime. Spoglie. Una uguale all’altra. In fila indiana. Strade parallele. Traffico. Fumo. Rumori infernali. E la consapevolezza è andata smarrita. Divorata come la terra che la generava. Come il senso di appartenenza che in fondo ti faceva sentire essere un uomo.
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© Massimo Cacciapuoti

Una replica a “Massimo Cacciapuoti – Mi innamorai di lei ma era una monaca”
Molto toccante questa rievocazione nostalgica di un tempo in cui la sacralità era riposta nella consapevolezza di essere una tessera di un disegno, di avere un ruolo anche solo secondario, di spettatore ammaliato, nei riti che consacravano la cronaca minuta della comunità.
Tuttavia, non vorrei che questa continua torsione all’indietro ci impedisca di rintracciare in ciò che poi è venuto, nell’attualità che ci troviamo a vivere oggi, una motivazione per ricreare un senso autentico di comunità. Proclamando la morte dei valori che una volta ci permettevano di consolidare i rapporti tra noi uomini, si rischia di credere davvero che oggi non possano esserci dei nuovi valori, una nuova lingua etica corale, una nuova liturgia condivisa che rileghi le persone in una rinnovata compattezza. Cosa che, in un Paese come il nostro in cui la disintegrazione si sta imponendo come pensiero dominante, credo debbano fare gli intellettuali contemporanei italiani.
mdp
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