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Luigi Di Ruscio – Firmum – 1953-1999 – poesie (post di Natàlia Castaldi)

forse un giorno mio figlio racconterà a mio nipote
che il nonno era comunista e questa frase
acquisterà un sapore assurdo
come se mi avessero detto che il mio bisnonno
era giacobino e regicida
comunque io non ho fatto che scrivere versi
ho messo carta davanti alla belva
e quando scrissi una lunga poesia per un parto
improvvisamente avvenuto in vicolo borgia
una lunga poesia di cui rimane solo un verso
i tuoi piedi che ancora non hanno toccato la terra
questo verso potrai adoperarlo
per una divinità ancora non incarnata
nonostante tutto incarnato come ero

Luigi Di Ruscio

Firmum
1953-1999

Ed. Pequod  (collana Rive)

Un libro lungo una vita piena di vite. Un libro da tenere a portata di mano per tutta la vita, perché non salva, non promette requie né ristoro, ma la sana schiettezza della rabbia, dell’indignazione, della consapevolezza – amara e lucida – che la sopravvivenza necessita di grandi sogni e mani callose per piedi ben piantati in terra.
Uno spaccato umano privo di fronzoli, lirico nell’aderenza schietta del linguaggio al suo racconto; un racconto crudo, popolato di porci (umani ed animali), immagini rurali, aneddoti ed episodi lavorativi, morti cruente e reali, che accompagnano e segnano il viaggio dell’esistenza nell’arco di più di quarant’anni; un tempo lungo abbastanza per percepire, capire, analizzare e viverne i cambiamenti, la storia, le corse, le innovazioni e i progressi, pagina dopo pagina, verso dopo verso, sì da giungere fino in fondo senza altra speranza che un’estenuante lotta con quella che pare essere l’ineluttabile e amara condizione degli ultimi in qualunque luogo (da Fermo ad Oslo) di qualunque tempo. (nc)

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Voi che da mille anni
Portate i mali del mondo
E ne ridete
E ne morite

Franco Fortini

*
12 – pag.26

La pensione da impiegato comunale
è di ottomila ogni due mesi quarant’anni di fatica
per pane e cacio grattugiato
per imparare a stendere la mano per morire solo
oppure finire al ricovero dei vecchi
ubbidire a bacchetta la madre superiora
alzarsi presto imparare a pulirsi l’anima
per avere sempre il pasto abbondante
e morire in un posto fatto per i vecchi
perché crepino senza dare fastidio.

*
13 – pag. 27

E’ morto lavorando
ottant’anni l’ha passati di fatica
sulla fossa ha la croce di latta
un numero e un mucchio di terra
andava a tutte le manifestazioni del partito
diceva che non avrebbe voluto il prete
ma la paralisi
non lo fece più parlare

*
14 – pag.28

E’ quella che canta la tristezza della strada
suo marito è in Francia
e non fa sapere più nulla
e lei e la figlia vivono
degli uomini che vengono la notte.
E il suo canto è come la strada
stridulo e stonato
è come il vapore che esala
dai tetti dopo la pioggia.
Dice a tutti qual è la sua arte
e a volte lo grida ridendo
con l’amaro delle donne.

*
18 – pag. 32

quando ero piccolo avevo paura
di non ritrovare la strada per ritornare a casa
quando ero a casa avevo paura di non riuscire più ad uscir fuori
c’era un bottaro che batteva le doghe e rimbombavano i colpi
nell’oscurità salivamo i gradini che dovevano essere tutti contati
nella tenebrosità dell’aria e dell’acqua
raccoglievo tutto quello che stava per terra
come se camminassi su un cielo pieno di miracoli

*
26 – pag. 40

quando rigetto la bomba lacrimogena che scotta
getto per te il fumo più bello del mondo
e mi ritrovo in un corpo dilatato da comprendere tutti i corpi
e tutto è come fosse per sparire disfarsi nell’aria azzurra
credevamo a quello che prima mai era stato creduto
tutto era come fosse visto per la prima volta
come se i nostri occhi fossero quelli di un altro
ridevamo di quello che mai aveva fatto ridere
adoperavamo parole che prima mai erano state dette
la vita passata era alle nostre spalle come una scorza vuota
e ti sia preziosa la tua gioia perché è sulla nostra gioia
se salvi la tua gioia si salva anche la nostra
ci specchiavamo nelle nostre pupille
sbalordito a vedermi intatto
dentro le tue pupille ridenti

*
31 – pag. 45

canta canzoni di chiesa o d’amore
e se gli dicono di smetterla canta più forte
urlati segnali della ritirata o del silenzio
la calce viene sbattuta sul muro al ritmo delle canzoni
e risparmiare per l’inverno quando ci sarà
infinito tempo per mirare la carta decisiva
mani e carte incrociate che si dilatano
oltre le figure oltre i bar oltre la piazza

*
37 – pag. 51

ha un numero di anni che non si contano
perché per il cantiere non si può superare i sessanta anni
e deve aver falsificato le carte
ha fatto la prima guerra mondiale d’ardito
anche la guerra d’Etiopia ebbe la sua presenza volontaria
avrà pensione miserabile perché in guerra non si mettono marchette
trovare qualche proiettile savio che spacchi qualche osso secondario
non è una fortuna che capita a tutti
normalmente in guerra spaccano tutto
e la fortuna si perde subito nascendo

*
39 – pag. 53

il colpo di martello che spezza il mattone
o il verso allucinato che smaglia
guardare la cosa mentre ci accieca
l’improvviso bagliore della fiamma ossidrica
o quello che cadde nella vasca della calce viva
scavata la fossa scaricate le pietre cotte
poi con l’acqua tutto ribolliva e fumava
il ribollire delle pietre cotte fu l’ultima cosa che vide

*
40 – pag. 54

camminava nell’universo firmino
sventolando una carta tutta timbrata
della trappola brevettata per decapitare sorci
non fatevi abbacinare dall’odore del formaggio
che vi parte di netto la testa
sputare in faccia a quel porco rappresentate di tutti i porci
sperando di avere anche dopo morto sputo in bocca
e sperando anche che quel porco
abbia il coraggio ancora d’avere la faccia

*
43 – pag. 57

i gatti veloci nello scappare con le flessibili code
il vicolo era nel tripudio dell’erbe murane
con una gioia disperata
e una disperazione gioiosa
correvamo verso l’ignoto spalancato

*
49 – pag. 63

è morto con la testa spaccata sul selciato
sporco di olio benzina e sangue
e senza dignità buttando pezzi di cervello
tutta la nostra fragilità davanti ai mostri
in quello spavento del cozzo in quell’ultimo istante
con gli occhi scoppiati vedere la vita che ci esplode

*
50 – pag. 64
camminare nella più profonda estate
con un vestito scuro completamente abbottonato
entrare nelle fresche ariose ombre
con l’estremo rigore dell’abbottonamento
tutto il lecito ristretto su un filo sospeso sopra un baratro
il più innocuo degli abbottonamenti è la catastrofe

*
51 – pag. 65

si accorgeva che doveva parlare
e per parlare doveva smettere di fumare
parlava chi ascoltava faceva sorrisetti
smetteva di parlare e si rimetteva a fumare
scrivere è facile parlare è impossibile
riesce in un certo controllo solo su quello che scrive
tutto il resto diventa incontrollabile e insostenibile
un leggero sorriso giocava sulle sue labbra
che esprimeva la paura più che la gioia
guardava gli altri dal basso
sembrava che stesse sempre a chiedere scusa
come se si aspettasse uno schiaffo da un momento all’altro

*
52 – pag. 66

e noi con noi senza nulla
col male che ci resta
appoggiati al muro
come fucilati

*
73 – pag. 87

il nazionalista cattolico spiegava con denti pieni di ferocia che il fronte guerriero è un altare dove in continuità s’immolano poveri cristi un iddio non come luce ma come una esplosione di tenebre e se fanno passare uno scemo per un genio tutti gli scemi si credono geni e pochi che non sono scemi faranno del tutto per adeguarsi allo scemo nazionale

*
74 – pag. 88

le nostre storie sconnesse e degradate
incapaci persino di un inventato lieto fine
e tanto meno di una qualsiasi catarsi
come la merda che serve per tutte le fecondazioni
la ferocia di quei denti sarà perfino premiata e decorata
se messa al servizio dello stato

*
75 – pag.89

l’utopia era la liberazione di questi cristi risucchiati dall’orrore
su una lotta che durerà per una eternità di tempi
nell’ultime cellule rimaste vive la volontà di resistenza
sarà sempre più cieca e totale
più la sopravvivenza diventa improbabile
e maggiormente verranno lanciati
messaggi disperati verso tutte le direzioni

*

Luigi Di Ruscio
Luigi Di Ruscio

89 – pag. 104

ovunque l’ultimo per questa razza orribile di primi
ultimo nella sua terra a mille lire a giornata
ultimo in questa nuova terra per la sua voce italiana
ultimo ad odiare e l’odio di quest’uomo marca tutto
schiodato e crocifisso ogni ora
dannato per un mondo di dannati

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24 risposte a “Luigi Di Ruscio – Firmum – 1953-1999 – poesie (post di Natàlia Castaldi)”

  1. Nei versi di Luigi Di Ruscio è la chiarezza delle parole che narrano, serrate una all’altra, l’esistenza degli ultimi, che ne illuminano la realtà, la lotta e l’utopia, con una schiettezza inusuale, a sollecitare chi legge, senza mezzi termini, senza fronzoli – come ben scrive Natàlia Castaldi – a non distogliere lo sguardo, a non scansarsi, a guardare e ascoltare. Un saluto riconoscente per il “sapore assurdo” dell’insubordinazione e l’inequivocabilità della sostanza.

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  2. Tingrazio per questa scelta, che porta la vivacità di Luigi, la vita che gli bruciava in corpo una ferita ancora aperta. Mi scriveva, abbastanza spesso e mi mandava i suoi testi in lettura, mi sono sempre sentita una sua compagna di avventura, perché abbiamo avuto, all’inizio,uno scambio abbastanza duro, riguardava la morte, alla quale non aveva ancora dato la possibilità di sedersi accanto e contro la quale lanciava imprecazioni come massi.Eppure, il suo passaggio, ha reso nitido, netto e ancora più incisivo il suo dire e il suo lascito. Ancora lo ricordo con un grandissimo affetto e lo leggo come si legge un maestro.
    f.f.

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  3. poesia che odora di polvere e strade, quella di Di Ruscio, che scava a mani nude nella terra fino a trovare l’acqua, anche a chilometri dal mare. Grazie per avermi riconciliato con la poesia con questo spot.

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    • :) una disgrafia ci fregò, Gianluca!
      grazie a te, anche io con Di Ruscio, Roversi, e non dico pochi, ma tanti – ed è bene dirlo -, tanti altri, mi riconcilio con la poesia, quella senza linee guida e padroni.
      un abbraccio

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  4. Trovo qui un Di Ruscio leggermente diverso da quello che ho conosciuto, non per le tematiche e per il suo modo di stare al mondo, unico, ma per una scrittura un po’ più controllata. Il primo contatto con le pagine di Di Ruscio è avvenuto nei miei vent’anni avidi di poesia, attraverso una preziosa antologia di Porta sui “Poeti degli anni settanta”. Mi ha subito sorpreso (e incantato) per la sua capacità incendiaria, magmatica, di costruire testi in modo stilisticamente lontano da ogni ortodossia (anche quella avanguardista del gruppo ’63) e per quel suo modo vero e diretto di dire la sua sulla vita stando sulla barricata del lavoro e dell’alienazione. Poi l’ho attraversato molte volte nel corso degli anni, ogni volta riconoscendogli l’insegnamento di un’estrema libertà creativa e la necessità sociale delle sue parole. Qui, come dicevo, lo trovo forse più misurato, meno esplosivo, ma ugualmente (se non più?) in grado di raccontarci la vita, là dove si vive, si lavora e si muore, là dove generalmente non la si scrive (sono quasi sempre altri che la scrivono, quelli che stanno al di fuori, nel mondo letterario). Così ho scoperto pagine tratte da una sorta di Piccola Antologia di Spoon River italiana ( n. 12 – 13 – 39 – 49 ) – Franco Arminio con le sue Lettere dai morti, verrà solo più tardi -, una poesia, la n. 52, quasi ungarettiana e quadretti di vita di una concretezza vicina al neorealismo (n.14 – 18 – 37 – 51). Un grande, come sempre. Grazie Natalia di questa proposta

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