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Lascio da parte i commenti da marciapiede
alle luci stente sbranate di marzo
non spetta giudizio
e una fiera d’anime, il controcanto
del viaggio, mi ingombra l’aria
come singhiozzi di morte alla catena.
Quasi sempre la parte in vista di noi
è un lascito magro alla curva di un bancone,
raccolti su un tavolo, quando i minuti
muti senza sonno sospesi
non si possono dire e puoi passare
la sera a farti notare per quello che porti
o difendere un vizio senza discorsi,
così, non spartire niente di te.
Vedi quanto manca a saperci conclusi.
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La penombra di una stanza divide
quanto speravi da quanto rimane.
L’indifferenza di queste ore nei richiami della casa
nei fogli di carta lasciati a macerare
in una mancanza d’attenzione
in un’attenzione fuori dal mondo.
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Ne contavi a milioni di vite, in qualche chiuso progetto
rocce che affondano rocce
affiorano come cadaveri vuoti, poco per volta
sottopelle, sotto gli occhi
in uno sconforto sguaiato.
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Non avere più corpi, averne centinaia di migliaia
ogni segno che passa sul viso
è un fiore di memoria mai nato.
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E così alcuni lasceranno cervelli popolati e doni
parlanti ad ogni costo, per quanti ne chiederanno
si apriranno file di pianti e sorrisi.
Guarda invece questi lampi
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senza sostanza
otre piccole case e grige colonie
di figli. Non ci saranno voci da scrivere,
parola dopo parola come ombre
solo indizi di un passaggio.
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Passaggio
Il tempio rimane distrutto. Nell’ora
della dispersione i canali sommessi
descrivono occhi o
traiettorie da muro a muro.
Bianchissimi.
Qualche goccia divisa tra i bicchieri
per farne silenzi.
Abbiamo visto graffi sui denti,
cumuli di mani per fermare mulini,
fino a quando i corvi
calarono dai tetti. A bocca aperta.
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C’era qualche fiume da dire
una domenica, i colori della macchia
riparavano gli anni, la paura,
la zitta vita del bronzo
nelle file dei corridoi.
Si portavano fino alla sponda
con i loro cappelli, la meraviglia
nei passi, la gola nell’acqua.
Avevano mandato i cani ad inseguirli
fino alla riva i nomi dei viandanti,
la pioggia li aveva presi nei minuti
dopo la strada, a fine corsa
spugne nel fondo. Ti vedevano a memoria,
fisso, le perle del viso che torcevano gli occhi
come fuori dai muri i chiodi,
c’è così poco da dire.
Fuori questi versi
dovremmo cantare domini di colpe
e fiori da dare, fiori.
Per qualche uomo nella cornice,
per una memoria pagata come specchio da muro
per la pietra dove si crede
non manchi di nulla.
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Macerie
Eco di te stesso nella casa
hai pensato fossero le stesse rovine
che ti prendevano l’oro dalle mani
qualche fiore dalla bocca e nient’altro.
Tu hai creduto a favole e parole
fino a doverne inventare
soffocate le mascelle in questi muri
dove ti rimani.
Svuotarsi nella polvere nei vuoti d’aria tormenta
un unico colpo alla porta
come ritmo di un canto,
dolcemente.
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Le cose parleranno per me
nel giorno dell’io senza sostegni
nella solitudine solo ricordata.
Una casa sarà messa da parte, come tante sere
con le ultime ore a venire.
Avere voci da ascoltare, fiori da guardare
fuori da ogni cortile, lascata ogni porta
chiusa la pagina di un dovere.
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In quanti spazi ci sarà da capire
che l’inganno rivive ogni minuto
di una quiete quasi infinita, di una realtà
da non considerare
le volte che abbiamo costruito, che abbiamo distrutto
che abbiamo spiegato parole.
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Nella speranza che almeno il tempo cambi
in una neve senza misura
senza riposo da chiedere
come una coperta di nulla.
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“E’ cominciata la cadenza del soffrire. Ogni sera all’imbrunire, stretta al cuore, fino a notte.”
(C. Pavese)
In questi giorni di quasi inverno
dovresti sapere. L’occhio ci vede sprofondare
come la zampa dell’animale
sotto la neve.
…………………Capiranno in pochi
i più, in disparte, dormono le ore
raccontano miserie poco per volta
i loro morti nelle cornici
le case vuote del mezzogiorno,
ascoltali.
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Ci saranno discorsi, ancora, silenzi ripetuti
nella sola ostentazione di noi
nel ricordare sensi, vestiti, vocabolari del nulla.
Credi che basti farsi da parte
nessuno a far ricordare
nessuno a custodire
nessuno alla fine del viaggio.
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Dovresti sapere in questa categoria
dell’invisibile, solo il respiro conta
e quelli che rimangono
come cuori obbligatori, tutto il resto
non sarà mai nostro.
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Bio:
Alessandra Frison è nata in provincia di Verona nel 1985 e vive a Milano.
Sue poesie sono comparse nell’Almanacco dello Specchio 2008 (Mondadori) e in alcuni blog e riviste.
Un suo racconto fa parte dell’antologia “Bloggirls, voci femminili dalla rete” (Mondadori 2009)


4 risposte a “Alessandra Frison – poesie”
ringrazio alessandra frison per aver accettato il mio invito e tutti quelli che hanno letto
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grazie!
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e’ una poesia molto composta nel suo dire, questa, eppure si sente continuamente la ricerca di un assestamento. le sconnessioni emergono ma come un moto che tende verso il basso, non per esplosioni, dalla soglia del riserbo via via a quella del silenzio, del non detto e dell’indicibile, fino all’invisibile. al mai stato. un smorzamento continuo nei pressi di un limite. questa la mia impressione. complimenti all’autrice!
sergio.
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grazie sergio
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