– Nie wieder Zensur in der Kunst –
Se la poesia fosse la risposta, allora avremmo bisogno di poeti al governo degli Stati. Se la poesia fosse illuminazione e strada certa, allora, data l’abbondanza della produzione poetica nostrana, avremmo il Paese più illuminato del globo.
Ma non è.
Poesia è creazione artistica che fonda e centra sulla parola lo svilupparsi del verso, “il corrimano” di un possibile pensiero.
Pensiero. Dello scrivente o del lettore? E cos’è questo pensiero: rappresentazione artistica o cronaca di un fatto, di un sentimento, di uno stato in luogo?
Troppo poco. Troppo riduttivo.
Eppure si tende a cercare l’intimo vissuto come voyeur letterari, onanisti, escavatori e quando non si comprende, non si coglie il lato nudo, non va bene, e la sentenza è pronta: Non è poesia.
Ma quale poesia? Quella dell’oratorio di parrocchia o di partito, o quella di una “mise en-scene” che non necessita altro che transito, così com’è, nella sua pura teatralità espressiva, senza altre “archeologie”?
La parola.
In Marina Pizzi il senso risiede nella ricerca “paleografica” della parola, parola che fu segno, tratto, immagine che torna nell’insolvenza di una gamma apparente di significati da rimessare nel Cantiere delle parvenze.
Ecco, già il titolo è una premessa, un’indicazione di lettura, un passepartout per non cadere nel broglio della ricerca di una traccia, di un indizio di vita che sia visibile ed a portata di mano, come un seno, un ventre, una lacrima, una vita, una morte che sia data, certa, spiattellata come in un talk show letterario.
No.
Marina Pizzi rispecchia l’esistenza senza ricorrere a mappature, a scandagli quotidiani, a scuole di pensiero e verso da cronachismo. La salvezza è nel senso del suono, nella capacità di ancorare phoné e dolore al risvolto di ogni possibile immagine, in una drammaticità che transita dalla vista alla trachea fin dentro gli organi a fiato del corpo che si rende attore della sua lettura.
E nel rimessaggio di questa drammaticità, tanto antica quanto attuale e tagliente nella successione cinematografica in presa diretta sfocata, seppiata, accecante, Marina dirige un moderno canto dei capri, quasi una liturgica litania, dalla quale si esce tramortiti, purificati; senza altro senso o significato da ricercare oltre la pronuncia del proprio vissuto, della propria esistenza.
Se solo si smettesse di cercare nella poesia la risposta assoluta e si ascoltasse d’essa il solo e possibile apodittico percorso creativo, oltre il limite del proprio personale gusto, allora – forse – si avrebbe una ragionevole speranza di crescita e pluralità attraverso ogni singola lettura.
– Buona visione –
nc
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Marina Pizzi: Il cantiere delle parvenze – inediti 2010
1.
la mia sciarpa è un tragitto lontano
uno scalmanato talamo di nebbia
dove è agreste il cielo e logica la tana
di perdere la vita.
rotta anemia della città calva
senza nidi di cuccioli cantanti
né elemosine badanti il veritiero
abbraccio. s’intani il mio straccio
che non vede né attende nulla.
la maestria dell’alba bada a non
gridar di troppo le rondini bambine.
le grotte scialbe come fandonie
dove ristagna il secolo al petrolio
espanso. la fatica senza saliva
delle mie abitudini-arsure su
per l’acredine di attese morenti
nel trotto della pupilla impazzita.
il lutto m’incolla la salsedine addosso
questo proverbio che non serve
a consolare la resina del sangue.
2.
quale sarà il chiodo che mi sonnecchia dentro
che vitalizza l’edera della malasorte
che si diverte con un attizzatoio
verso la zattera che mi malmena
tetra malizia corvo miliziano?
invano l’azione del tubero rinasce
al cielo, qui la penombra perpetua
della slitta chiama l’oasi ad appassire.
quale paese d’asma andrà vicino
al rantolo? perché qui le smanie
delle serve vogliono morire
di un attacco immune, colpo sordo
non imposto randagismo.
3.
falò di stoppie codici di cenere
queste livree già prospere di nulla
elemosine cortesi. così resiste
l’alibi del bilico, la cornucopia placida
del gatto musicale. osteria museale
il tuo sguardo non sotto teca ma
veliero darsena. ho comandato l’astio
di non venire approdo di se stesso, ma
diluvio t’amo modo d’avvento-accento
ludo per sempre. brevetto di comari
la mattina quando s’impara a venire
al mondo sopra faccende di dondoli
senza doli. dove sei tu re minimo
e prezzemolo, ambulacro e molo
per remi divini. aiutami a campa’ con
questi nodi duri fatti di gessi mortuari.
4.
ipotesi di cervi mancarti
sotto lo zero che mi campa
capanna di brevetti andati a male.
la spalla del silenzio è una bestemmia
darsena, una spallata al sudario
che non vuol morire la rendita
del datario. dove non sono vergine
m’incanalo lungo gli stemmi che
non danno affetto. io poveretta
la militare stoffa che fonda ruggini
e cipressi. litigio di remore la stasi
di non concepire più. in vena ho un
amore di distanze intatte meraviglie.
ora m’acquatto e ti dimostro strenne
queste braci di quaderni di civiltà
dismesse.
5.
attorno alla galassia del distacco
piango la rotta di non saper la rotta
né la perfetta eresia del vento.
gerundio di comete l’inutile avvento
quando la rupia è la miseria del certo
lo sciacallo avventa lo sparviero.
la minuzia della rondine commuove
le ventole che aizzano il fuoco
per la felicità comunque.
in breve sullo scempio del ristagno
la malinconia del cerchio non è divina
né pone eclisse una calma darsena.
6.
libagione d’àncora non so lasciarti
nel losco del tombino della storia.
7.
agorà del sale
palude della gola
dove il ludo è logica del gelo
e la festività dell’ombra
abbraccia le penombre
e le novene delle sabbie mobili
con la paura sempre erettile
e le stagioni sporche
nel credito del pane.
fragilità del sacro strazio
startene ridotta
zona di farfalla
insidia della falla.
il matrimonio sragiona alla parete
del fatuo nome, questa radura
patrimonio d’scia.
8.
immortalità sacrale l’astuccio della nebbia
dove la lite è un fato di ristagno
e si comincia a sgretolare il torto
della faccenda d’ascia.
criminalità dell’angolo
custodire a rovescio la camicia
sotto il gelo della storia darsena
e la cometa corrotta in un sasso.
dolce stile anemone di bello
questa versione tattica del vivere
didattiche le curve dei mattini.
9.
nubifragio del tatto starti a guardare
sotto le unghie che scavano nei baci
unguenti di salive per le resine del dare.
scompiglio a mare aperto l’inguine
questo pagliaccio che stempia il cuore
e nuda le maree con uno slancio d’epoca.
intruglio a fato avvinto il tuo ristagno
stazione sul convulso pernottare
arie palustri e darsene di lutti.
gerundio del pane nero questo discapito
nottambulo balordo acre di flutto
dove annerisce l’apice del fato.
10.
galateo di stracci rupe nel petto
stare a sentire le prigionie d’angolo
dove si sfama l’attrazione darsena
se la salsedine stempia le persiane.
11.
il gallo della foce
è senza canto
né giostre da sedurre.
qui resta il muto occaso della notte
senza delta d’abbraccio
né cintole strette la vita.
il commando dell’alamaro
è la paura darsena
la rotta di concludere con smorfia.
agreste la conchiglia di lumaca
seduce la scia, incrocia il singhiozzo
al sorriso. là la ventola del baro
aumenta l’onere senza onore.
ti bacio con le carezze degli esclusi
le voglie amare dei reclusi
le stimmate di guardia contro il portone.
vedi tu di amarmi con le malizie
di ciechi dove nessuno è vivo.
12.
in te nel decesso avvenuto
disincanto magnifico vederti
guardarti smotivato nelle palpebre
chiuse. morto così mortale da far
paura questo tuo linciaggio senza
pietre. è un peccato sapere quale
flusso ti calcò nel letto del tuo Ulisse
non più affascinante di un rovo. morto
nel male di maggio trito di rose
la tavolozza bigia dell’accattone
al fondo della vita violata grazia.
dividendo di lettere guardarti
quando il gerundio non permette più
la giostra monumentale la mela minima.
13.
qui nel male che acciacca le persiane
rimanga un verbo al sì contro la caccia
che le ali al terreno incolla
e fa proseliti le meretrici polveri.
qui si succhia un lingotto di dolore
per le scale vuote dove le crepe
spergiurano i diritti delle rondini
in un chiodo d’occaso ho messo il vólto
il viso vòlto al disbrigo di non piangere
le rotte attente al timone timoroso.
in te se guardai la luna piena
era un amore tacito d’eclissi
uno stilema senza abbreviazione.
le mondine superbe delle gestanti
stanno nel verbo d’acqua la vita
la bella vita senza quarantena.
le credenziali nere degli specchi
mettono a lutto le dimagrite stanze
svezzate per spezzare ogni sorriso.
14.
è un secolo che mi ostino a perdere
il posto. e mi oscilla il cuore in un pilastro
lapidato invano. qui la corda della foce
non marcisce, il marmo aderisce
alla lapide già morta. qui il mio contegno
è labile maestro d’asme, una caduta e un lancio
braccano sempre la nuca da abbattere.
le eleganze del ballo non tacitano
il titano del portone che vuole chiudere
ciliegine e pilastri questo stretto sistema
della stempiata arringa che non convince
le regole da ammettere. è già gerundio
il tempo che da sempre progetta le farfalle
che non vengono né le oasi del brindisi
beate. mo’ di calunnia l’apice del cielo
a nulla vale una formazione accademica
per le lentiggini di satana tarato e forte.
annullami la spalla che codifica l’altezza
e le missioni di tattiche benigne
dove la fortezza smuore e smorza
il ponte levatoio.
15.
foschie sul seminato quando l’incontro
è un trovatello d’ascia. qui la cupola
rende stupido il cielo. iettatura d’asma
passare in ospedale per vederti
passare. discorso d’appendice l’urlo
di morire o solo il sospiro rorido del rantolo.
qui s’impiglia l’eresia del fosco
il nano triste tristissimo gigante.
a quale malia porterò la mansione
del secolo? qui sul cornicione della storia
c’è l’emorragia di cadere. non basta l’erta
per sfinire il fianco o la cometa fradicia.
nessuno è indispensabile nel cheto del frutteto
questo zucchero apolide lasciato a marcire
sotto la tetra forca dell’inutile.
16.
qui si scarta il tempo in
un breviario satanico
il corrimano traballante
luciferino l’appoggio
della mano. si è diabolici
per la paura di cadere
di andare a battere contro
la nebbia piena. è un tramortito
nome che ci scorta dentro
le fiaccole dello stillicidio
ciclo assassinante. nella realtà
del muschio che ci rasenta tutti
sta la frottola del primo marinaio
la gerarchia dell’apice in condotta.
in un quaderno di rese e rette vane
la giunonica malizia dell’orologio
quando giocare non simula la vita.
qui si scarta il tempo in
un breviario d’ascia.
un canto sulla soglia del lamento.
17.
languori di paese quando la canicola
langue gli archivi di finestre
e le guardinghe foci del nulla
rimano le giostre con le culle
nemiche di rovi che tramontano
le genie del verbo. con i tetti spioventi
il giramondo guarda in alto così rispetta
il pio pavoncello in mezzo alla piazza
vuota: si lascia guardare tra gli scuri
che vegetano la polvere. il titano del sale
è un orafo paziente dove la vera tana
si fa bivacco di senza patria attivi.
l’elemosina del fulcro chiama la creta
ad allestire un capanno per uova fresche
e la bellezza del cuore è sindrome
d’immancabile fola autrice del fausto
distacco dal corpo dove l’indice muore.
18.
un giorno qualunque in data di catastrofe
mi ferì la questua sparsa sul sagrato
la luna giovane senza la fidanza
di competere con la nenia del cipresso.
meringa di sale il velo della sposa
quando la gara di guardare il vero
genuflette le prassi delle ruggini.
titano di giostrina stare al mondo
con i bambini che tifano la rima
di giorni immensi lussuosi d’arca.
marette di coriandoli vederti
il giorno chiuso d’alamari pessimi
dove i bambini dolgono svegliarsi.
le libertà conchiuse delle foglie
arbitrano liquami di dolori
i morti offesi da un quasi pianto.
così mi va di vestirmi in un nodo
di malta per lapidare il sole
combustione di luce la conchiglia.
19.
crolla la cialda mare di sterpaglia
si fa l’addome antro di responso
verso quel cuore che scodella abissi
resina contumace per le vedove.
di poco talento il varco delle nuvole
chiama quel dove che non fu cortese
verso l’avamposto di coriandoli.
avvento di edicola guardare il mondo
nel guaio della colpa data
senza altezza di accusa. in mano
all’impotenza della cantina si decifri
la lettera d’enigma, il millantato
credito del coma lacerto.
20.
dio mangiucchia le dimore d’alba
dove le prove del baratro si trovano
valenze dell’invano per i profughi.
in una notte di baveri e fiocchi di neve
la cometa fa piangere i vigliacchi
le teste giovanili ancora per poco.
in mano alla bellezza di vederti
resto blasfemo nonostante l’eremo
con la virtù ciondoloni del salice piangente.
con la virtù sciocca dell’estate
voglio i ladroni che spacciano conchiglie
gente dappoco e rantoli di polvere.
21.
in un cielo di scoscese balbuzienti
venne la daga delle scosse eclissi
la vena esangue della gioia vuota.
in mano alle vedute delle stelle
si comportò l’alunno un veritiero
enigma: venne la madre e gli fermò
la nuca che lo alzava in volo.
encomio ad angolo il massimo della gioia
per questo coma che si incolla tutto
verso la staffetta di farsi termine.
tutto si allunga in un eremo di stelle
dove le gioie frugano i dolori
per la gara di fuggire il mondo.
dove dappresso una storia vedova
il gran sentiero di perdere le staffe
con le ginestre che piangono di ruggini.
22.
va via la vita senza ricordo
se il dondolio dell’etimo non rassicura
che ci sia rimedio. un intralcio di
condotto dover sopportare il no.
e la venia ancestrale non serve
a salvare le povere bestiole.
qui è dannato il salario e la vendetta
non serve. si piange il preludio e
l’epilogo. chi resiste è un filino-darsena,
una donna in stato interessante dove
la nebbia frana-sfratta l’orizzonte. qui magari
le gesta delle rondini fanno stupore
per ingrandire un seme di meraviglia.
23.
mi sarà d’occaso il mantice dell’ombra
la bravura di saltare il fosso.
così nel mare se ne andrà la pioggia
per gentili approcci e conchiglie femmine.
mattino mattino la guglia del santo
quando s’inverna per apici pigrizie
e zonzi senza pregi. l’ilarità del mare
è una cometa panica. mentre morivo
in una stanza uncinata a discapito
del cigno che ci crede almeno all’amore.
il lacerto dell’ombra issa se stesso
verso la sequenza della rovina.
24.
in data di eclissi in data di acrobata
so far centro al modo della scuola
quando s’impara veramente il sì.
ho pettorali di arrivo come incidenti
quando la barca si genuflette al mare
e tutto sembra carico di sassi.
per desiderio di pace piango la fune
che stringe la gola con tattica di nebbia
nella paura che sconforta il calice.
si va così bacando l’obiettivo
questo stradario che non serve a nulla
ma osanna le porte che fanno indice
sotto promesse succulente.
la paura del fato è più che mai ardita
verso i giochi delle lune piene
ma il pube si sconnette dal mondo intero.
la grondaia nubile di rondini
duole la bile delle notti insonni
verso gli scavi che si fanno a letto.
25.
marette di elemosine cullarti
dentro la febbre di guardarti
per sentire il guado che ti voglio.
rovo di rose l’imponente morte
in casa del ciliegio generoso
quando l’avaria bacia le crisalidi.
nulla si placa nel gerundio d’ascia.
26.
amor non ebbi che lasciti di nebbia
salutari ammicchi con le rondini tate.
e le ingerenze del panico sul sale
resero regale il buio. qui in collina
si sposta la vendetta di una qualunque
stanza addetta alla finanza dell’aquilone
che non vola. la falla del bivacco
raccomanda dadi per le giovani
ombre. si recita addosso a un palo
penzoloni senza speranza la cinta
della censura. qua si sta a casa con
l’aureola dentro un cassetto e il peccato
mortale nel pugno della resistenza non
condivisa.
27.
irata pioggia
bacca di nessuno
sarabanda d’arresto voler vivere
cadenza d’àncora la darsena
vitale sul detenuto.
l’abbecedario al centro della stanza
lucra la guancia in un sorriso
in un commesso di rara scienza.
la luna sfatta a grappoli d’inedia
colpisce le lentiggini del mago
la libertà costretta della falla.
la giacca appesa all’origine del chiodo
sfalda la riva in un agguato
forse senza cuore della cerchia.
28.
tu non sei badato dalle fionde dell’aria
né dal continente che ti ammalia tanto
tanto da renderti atleta di nuoto
per lo stretto da superar tranquillo
nonostante il panico del dado tratto
tra eresie e simboli divieti.
qui la morte in ernie di collaudo
(soqquadro al patrimonio che non c’è)
ha la peggiore fiaccola del tempo
il re disgiunto dal regno e la nomea
del tragico paese con le ceneri
in giogo d’edera. la maretta della darsena
riposi per convalescenze di buon augurio.
29.
la luna è una pozzanghera di nervi
una bacchettona che si rifà il trucco
sotto gli occhi atavici di vivi
in attesa di morire. le lentiggini
del fato non ribellano la pelle
intrisa di giovinezze ipotetiche.
qui la corda salina del costrutto
impiega il tedio di mattoni pagani
per preparare tane senza amore.
le penombre cortesi delle cameriere
offrono letti intonsi asciugami canditi
per un amore in forse. nasce la lebbra
della villania del sole. scorciatoia
d’occaso cadrà il mio petto stanco.
30.
la notte del dispaccio
fu la pertica di morte
la stasi vuota di non imparare.
cumulo tardivo questa gioia
da decesso avvenuto
finalmente in circolo la cenere.
l’avaria del setaccio intasa
l’università dell’equivoco dolente
dove la voce è simbolo fendente.
impara da me che ho singolo il dirupo
e rubo il timone per ingannare il boia
da sotto la recita del nato vivo stagno.
ogni giorno un bastone d’ulivo
simula la storia dell’enigma
per mantenere intatta la cisterna.
non basta il cielo per credere in dio
né la ragione per commettere la favola
di ridanciane oasi o forti simulacri.
31.
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Marina Pizzi è nata a Roma, dove vive, il 5-5-1955.
Ha pubblicato i libri di versi: IL GIORNALE DELL’ESULE (Milano, Crocetti, 1986), GLI ANGIOLI PATRIOTI (Milano, Crocetti, 1988), ACQUERUGIOLE (Milano, Crocetti, 1990), “DARSENE IL RESPIRO” (Milano, Fondazione Corrente, 1993), LA DEVOZIONE DI STARE (Verona, Anterem, 1994), LE ARSURE (Faloppio, CO, Lieto Colle, 2004), L’ACCIUGA DELLA SERA I FUOCHI DELLA TARA (Lecce, Luca Pensa, 2006), DALLO STESSO ALTROVE (Roma, La camera verde, 2008), L’INCHINO DEL PREDONE (Piacenza, Blu di Prussia, 2009).
Le plaquettes “L’impresario reo” (Tam Tam 1985) e “Un cartone per la notte” (edizione fuori commercio a cura di Fabrizio Mugnaini, 1998); “Le giostre del delta” (foglio fuori commercio a cura di Elio Grasso nella collezione “Sagittario” 2004).
Numerosi e-book e collaborazioni si possono leggere on line. Ha vinto due premi di poesia. Sue poesie sono state tradotte in Persiano, in Inglese, in Tedesco. Sul web cura i seguenti blog di poesia:
Sconforti di consorte
Brindisi e cipressi
Sorprese del pane nero
Ho letto qualcosa, cercherò di tornare perchè la velocità non rende certo giustizia a questi suoi lavori che mi colpiscono in qualità ma soprattutto “sincerità “.
Complimenti Marina e grazie.
Grazie Nat.
clelia
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Di Marina Pizzi non c’è opera che non meriti elogio.
La più prolifica, densa e affascinante poetica degli ultimi decenni.
leggo con calma..grazie;)
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Una poesia da leggere piano per goderne ogni risvolto.
concordo con i vostri commenti e ringrazio Marina per averci mandato questo splendido lavoro.
nc.
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Brava, brava Marina: riconosco, e forse già lo scrssi, che certi tuoi -nuovi,incipit di apertura,di queste tue poesie poematiche,danno un’impronta che si propaga e riverbera poi tutto il testo, indirizzandolo:respiro inedito e possanza piena- al tuo volo!
Con i complimenti di Maria Pia Quintavalla
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