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Bustine di zucchero #17: Osip Mandel’štam

In una poesia – in ogni poesia – si scopre sempre un verso capace di imprimersi nella mente del lettore con particolare singolarità e immediatezza. Pur amando una poesia nella sua totalità, il lettore troverà un verso cui si legherà la sua coscienza e che lo accompagnerà nella memoria; il verso sarà soggettivato e anche quando la percezione della poesia cambierà nel tempo, la memoria del verso ne resterà quasi immutata (o almeno si spera). Pertanto nel nostro contenitore mentale conserviamo tanti versi, estrapolati da poesie lette in precedenza, riportati, con un meccanismo proustiano, alla superficie attraverso un gesto, un profumo, un sapore, contribuendo in tal senso a far emergere il momento epifanico per eccellenza.
Perché ispirarsi alle bustine di zucchero? Nei bar è ormai abitudine zuccherare un caffè con le bustine monodose che riportano spesso una citazione. Per un puro atto spontaneo, non si va a pescare la bustina con la citazione che faccia al proprio caso, è innaturale; si preferisce allora fare affidamento all’azzardo per scoprire la ‘frase del giorno’ a noi riservata. Alla stessa maniera, quando alcuni versi risalgono in un balenio alla nostra coscienza, non li prendiamo preventivamente dal cassettino della memoria. Sono loro a riaffiorare, da un punto remoto, nella loro imprevista e spontanea vividezza. (D.Z.)

bustina chiara - Mandelstam

Come vi è un silenzio prima di un rumore o di un suono – un silenzio che però non ne è distaccato, ma al contrario l’anticipa – così esiste una “pre-parola”, una Urwort, una parola originaria che si realizza in quella detta e scritta, e per Mandel’štam l’Urwort è il sussurro. Forse. L’attenzione è quindi veicolata sul prima. Il concetto o l’idea del prima è di fondamentale importanza per chi è acuto ascoltatore della parola e vuole conoscere, capire, auscultare, nonostante le palesi difficoltà, lo stadio prenatale, il vagito originario del vocabolo che, compiutosi nel suono, porta le cose all’esistenza, nominandole. Un atteggiamento simile ricorda un noto racconto tratto dal libro di Daniel Lifschitz, La saggezza dei Chassidim, quando un chassid chiede al Rabbi di Tzanz cosa fa prima di pregare, e il Rabbi risponde: «Prego di essere in grado di pregare convenientemente». Una preparazione, una gestazione. Se da una parte questa ricerca nel primordiale sembra essere votata a un passato arcaico, per noi impossibile da raggiungere, in realtà la riflessione sul prima apre la porta del futuro alla parola perché la configura come volto da conoscere una volta creato, un volto proiettato nel dopo. Il prima diventa allora assicurazione, garanzia per il dopo. Non a caso un altro poeta come Jabès, nella sua opera Il libro della sovversione non sospetta, afferma: «Scrivere è affrontare un volto sconosciuto», quello della parola quando, dalle nostre labbra, arriva a fissarsi sulla carta e nell’orecchio di chi l’ascolterà. Nelle pagine successive Jabès aggiunge: «Il prima della dimora è, forse, un vocabolo allo stato potenziale». Torna il forse in un’espressione calzante con il verso mandel’štamiano, ma l’avverbio non toglie tuttavia certezza al fatto che la parola ha un suo luogo di nascita nel suo perenne realizzarsi. Un mormorio in cammino verso il suono. Il nostro poeta russo dimostra di possedere il dono sottile dell’ascolto e ciò viene confermato in un altro suo libro, Viaggio in Armenia, in cui leggiamo: «In che tempo vuoi vivere? Voglio vivere nel participio imperativo del futuro, forma passiva – nel dovente essere». In una forma analoga al tohu wa-bohu biblico per cui poi si accede alla creazione, così, dal vuoto e informe, un’immagine, un suono o un balbettio scintilla nel buio; nasce allora la parola poetica, come una mano aperta verso il mondo.

Bibliografia in bustina
O. Mandel’štam, Quasi leggere morte. Ottave (a cura di S. Vitale), Milano, Adelphi, 2017, p. 47
O. Mandel’štam, Ottanta poesie (a cura di R. Faccani), Torino, Einaudi, p. 129.
O. Mandel’štam, Viaggio in Armenia (a cura di S. Vitale), Milano, Adelphi, 1988 (2008), p. 67.
D. Lifschitz, La saggezza dei Chassidim (prefazione di E. Bianchi), Casale Monferrato, Piemme, 1995; rist. Milano, RCS, 1997, p. 158.
E. Jabès, Il libro della sovversione non sospetta (a cura di A. Prete), Milano Edizioni SE, 2005, pp. 11 e 49.

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