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“Senti le rane”: intervista a Paolo Colagrande

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Bisognerebbe esser capaci di raccontare le cose, spiego a Sogliani, mica come le raccontiamo noi.
A parlare è Gerasim, narratore di una storia che da sola occuperebbe poche pagine: quella della passione del parroco Zuckermann, ebreo convertito per chiamata divina e già santo per la comunità di Zobolo Santaurelio Riviera, verso la bella Romana.
“Come le raccontiamo noi”, in un momento astorico in cui l’ormai ex parroco Zuckermann è poco più in là dal luogo dove si consuma la narrazione, è la maniera omerica di raccontare ai tavolini di un bar di provincia, quando sembra che tutto il reale sia compreso e possibile in ogni singola vicenda.
Quel “noi”, in effetti, è Gerasim, che da solo si sobbarca l’onere del racconto, mentre Sogliani sbotta, indirizza, trancia, gioca all’interlocutore distratto e all’editor impazzito, creando un ulteriore schermo tra il lettore e il centro del discorso.
Quanta maestria c’è nel libro di Paolo Colagrande, Senti le rane (Nottetempo 2015). Maestria di registro e di tono, dosaggio di cliffhangers, uso puntuale di digressioni colte e di grassa risata. Lasciatemi fare un esempio anche lungo, per un libro irraccontabile fuori dalle circonferenze in cui già racconta se stesso:

Finché Zuckermann era sprofondato nella grazia delle albe brumose e dei crepuscoli fiammeggianti e delle agili gambe di esseri umani che saltano i fossi con evanescenza, restava fuori dal territorio del demonio che colpisce fra la quarta e l’ottava ora, come dire che l’antilope era più veloce del giaguaro o comunque erano veloci pressappoco uguali e nessuno dei due era preda o vittima, e anzi potevano vivere sotto lo stesso tetto, e non voglio fare il teologo della sagra ma secondo me questo è un po’ il nocciolo teologico di quello che voleva significare il profeta Isaia quando diceva che il lupo dimorerà con l’agnello, la pantera si sdraierà vicino al capretto, il vitello pascolerà con il leoncello, la mucca con l’orsa, il bue con il leone, e il lattante si trastullerà nella buca dell’aspide.

E allora Sogliani ha chiuso il giornale e ha detto che così non si può andare avanti. Gli sembra di aver vicino un quindicenne che sgasa col motorino, o un vecchio asmatico che sgargaglia, o delle vedove che parlano di cimiteri, guarda te che similitudini va a tirar fuori Sogliani, e sarebbe meglio che io smettessi di parlare, per il bene dell’umanità. Gli ho chiesto cosa c’entra l’umanità, non l’ha spiegato, e anzi sono volate anche espressioni sacrileghe come diocariòla, che poco si intonano con i discorsi teologici ma pazienza. Sogliani mette spesso diocariòla nei discorsi, perché non lo so, bisogna chiederlo a lui ma adesso non è il momento. Poi mi ha provocatoriamente riaperto il giornale in faccia, in modo che davanti a me non c’era più lui ma Vidal un guerriero per la Juve a formare un’invalicabile barriera comunicativa, e ditemi voi che soddisfazione c’è a spiegar le cose a un soggetto del genere.

Opere di Leonardo, parabole del Buon Samaritano, specialisti di ogni ramo che secondo Sogliani bisognerebbe annegarli da piccoli, oli di nespolo, ogni digressione serve a radere al suolo il campo dell’analogia e a fare narrazione pura. Tutto ciò che sembra accumulo è in realtà precisazione. Per spiegare l’aria che la Romana assume dopo la prima volta con il prete, Gerasim e Sogliani discutono per tre pagine sul fotogramma che inquadra Rossella O’Hara dopo la prima notte di nozze; al di là della volontà di Sogliani di dar fuoco a tutte le pellicole di Via col vento, è chiaro come la digressione è maniera per dare esattezza al filo principale non attraverso il linguaggio né attraverso l’immagine: è racconto al servizio del racconto, reale al servizio del reale. E mentre la vicenda del parroco tormentato e della bella Romana si ingarbuglia di gelosie e piccoli misteri e sembra risolversi come un qualsiasi fatto di cronaca su un lembo di fosso popolato dalle rane, su questa che è la grande potenza del libro vorrei fare due chiacchiere con Paolo Colagrande.

Paolo, do per scontato che non hai pensato se non di sfuggita a scrivere un racconto su Zuckermann e la Romana, ma che il vero combustibile del romanzo è sempre stato il resoconto che si fa della loro vicenda. Vorrei entrare un attimo nel tuo laboratorio e chiederti in che maniera hai lavorato, se a ogni snodo hai cercato un corrispettivo in aneddoto o se avevi, non so, un taccuino pieno di cose più impensabili da cui andare a pescare alla bisogna.

senti-le-rane-d444Parto sempre da un’idea da scoprire dentro la materia grezza, non esistono calcoli, progetti o planimetrie. L’idea si libera e prende forma mano a mano che la materia ti parla. Se la materia non ti parla vuol dire che non va d’accordo con quello che hai in mente. Il taccuino, che non sono mai riuscito a tenere con metodo, serve a fissare immagini che non sono tasselli o moduli da assemblaggio o pezzi di ricambio o semilavorati, ma idee già complete, ancora senza forma ed espressione. Ogni immagine è un potenziale romanzo o racconto.
Senti le rane nasce da un’immagine in movimento rapidissimo, quasi un’istantanea: un uomo si alza dal tavolo dove stava parlando con altri due. La scena, vista dall’esterno, non significa niente, non crea né attese né suggestioni, perché nessuno sospetta che Zuckermann – l’uomo che si è alzato – ha un passato di cui vale la pena parlare: se fosse rimasto seduto non sapremmo niente di lui. Ma ha avuto l’imprudenza di un gesto che spezza l’indivisibile, brucia la superficie minima, e che quindi, hobbesianamente, rappresenta già un embrione di guerra. Da lì in poi la vanvera da tavolo diventa narrazione e insieme contraddittorio, senza rinnegare se stessa: Gerasim e Sogliani, i due rimasti seduti, cominciano a parlare (senza controllo e senza pietà) di Zuckermann, ma anche del cosmo e delle sue molecole, e (con più reticenza) di loro stessi: la digressione è una metafora viva, in movimento, serve a dare profondità alla storia e creare uno sfondo, un panorama che non può essere descritto perché la descrizione è per sua natura bidimensionale, strozza la prospettiva, toglie espressione e vitalità ai corpi, alle facce, ai caratteri. E’ un malinteso narrativo, la descrizione. Divagando, i due narratori rendono alla storia quell’universo che l’inquadratura non lascia vedere. E salgono loro stessi in scena. La storia di Zuckermann poteva essere raccontata solo così, come vorrei che la raccontassero a me.

Nel tuo libro è spesso citato un demonio che nell’indolenza di un baretto provinciale può sembrare molle e superstizioso. Invece è un demone preciso, e lo delinei bene nelle tue digressioni sui santi nel deserto: il demone meridiano dell’accidia, l’inoperosità che porta a malinconia e quindi a disperazione, quello che un tempo era ben codificato come peccato capitale e che ultimamente sembriamo quasi dimenticare nel conteggio. Non a caso l’unico “santo” del libro ha una fretta che rasenta l’horror vacui, mentre Zuckermann, quasi aggredito dall’odore di santità, non fa che impastoiarsi in tempi morti che lo riportano alla sua dimensione terrena e al malinteso della sua chiamata da parte del Signore. Non per fare la sociologa da sagra che poi Sogliani mi vorrebbe annegata da piccola, ma mi sembra che tu metta a fuoco, nel tuo libro pirotecnico, due nodi che da soli farebbero tragedia: l’accidia, che riverbera anche nelle chiacchiere da bar e nello stesso atto di raccontare dei narratori, e lo sforzo di dover corrispondere a un’aspettativa.

Nessuno ci ha mai spiegato bene cosa sia la malinconia, sappiamo solo che c’è, e che è sempre in agguato. Un demone iperattivo che incarna una nostra condizione di base (quindi non parlo solo per me) e con cui è più utile, e spesso gratificante, convivere che litigare. E’ anche la più fedele spia della scarsa potenza dinamica del nostro impianto animale: Zuckermann, ebreo di stirpe convertito al cristianesimo per chiamata divina e poi votato al sacerdozio, riesce reggere l’equivoco della santità – e a crederci – fino alla prova più difficile: la noia (cui segue l’innamoramento). E’ qui che la santità va in pezzi, insieme all’autostima di santo. Non mi piace la parola accidia da quando se ne è appropriata la teologia, cioè da circa un millennio, perché richiama il vizio capitale, il vuoto corruttore, la colpa che, anche nel suono fondamentale della parola, contiene già la condanna e l’espiazione: nell’infermo di Dante gli accidiosi sono sprofondati nella palude stigia, dove non si tocca, peggio ancora degli iracondi che possono tenere la testa fuori. Mi piace più la malinconia, come parola e come proiezione di un nostro limite costituzionale, che affossa santi ed eroi e riporta tutto al piano terra: l’eroe e il santo che schiantano a terra (mentre reggono la parte con la fiera pesantezza della santità e dell’eroismo) non sono molto diversi da Charlot che scivola sulla buccia di banana. Le aspettative di cui è prigioniero Zuckermann, l’iperdinamicità del parroco santo che muore di spavento, la cialtroneria dei due inattendibili e narratori, sono tutti il riverbero di una malinconia fisiologica, inscindibile dal corpo e dal temperamento, ma in Gerasim e Sogliani è accettata con maturità e rassegnazione, come compagna di viaggio, magari un po’ ingombrante; per gli altri (fatta eccezione per la Dianora e, in parte, la Romana) è una creatura ostile, o una malattia da cui si pretende di guarire, una ferita che si guarda angosciosamente ma che non si rimargina mai. E’ grazie ai due narratori che affiora la potenza comica di questa condizione: il comico, per definizione, è impastato di tragedia: in Senti le rane, come nel mondo, ogni personaggio produce comicità vivendo il proprio dramma.

La comunità che gravita attorno alla figura di un prete, la toponomastica quasi comica, il baretto, alcune figure che guarderemo con altri occhi quando il libro diventerà quasi un noir: è possibile scrivere un romanzo del genere ambientandolo in una città?

Sì, purché non sia una metropoli. Se togliamo le metropoli il mondo è fatto di provincia, dove si agitano sentimenti, vizi e virtù, tragedia e farsa, insieme a tante scorie riciclabili, che fanno nascere e alimentano le storie come piante selvatiche. Anche le città, per la maggior parte, sono intrise di passione provinciale. Le metropoli invece, salvo rare eccezioni, sono entità socialmente avulse, verniciate di un’estasi mercantile che induce l’omologazione e tende a castrare i sentimenti. Anche le metropoli sono, senza saperlo, intrise di comicità, quel tipo di comicità che rende facile la parodia (pensiamo alla retorica della Milano da bere, oppure proviamo a immaginarci lo smantellamento dell’Expo); la provincia invece è già parodia per se stessa, pronta da mettere in scena.
Nella scelta dei nomi dei luoghi e delle persone non c’è nessuna ricerca: penso ad uno scenario, ad un paesaggio, a una mentalità e da lì esce naturalmente un nome, che poi non è altro che il suono delle cose: il nome è, più spesso, storto e incoerente, come il panorama (o il personaggio) che ho immaginato, ma non uso mai forzature per renderlo ammiccante o suggestivo. E in fondo anche la realtà è così, se la guardiamo senza le lenti dell’abitudine. Per i nomi dei paesi faccio poi una ricerca al contrario, per verificare che non esistano già. Di solito non esistono.

Sono certa che non è, come direbbe Gerasim, una domanda stupida. È solo una di quelle che non ci si aspetta di fare appena svegli al mattino, ma io non metto più limiti alla Provvidenza. Perché le rane?

Il tema per me è commovente, quindi la domanda è tutt’altro che stupida. Amo le rane: cugine brutte e stonate delle sirene. Ma a differenza delle sirene, che sono cattive e sanguinarie, le rane sono buone, non conoscono l’offesa, il loro canto è senza tono e senza utopie, terreno e dimesso, un po’ incline alla petulanza, come la vanvera degli uomini, ma più discreto. Nel romanzo la rana entra in scena nel passaggio più desolato delle sorti di Zuckermann, che corrisponde al definitivo punto di caduta del santo. Compare e subito scompare, come una schiarita in mezzo all’uragano, quanto basta per consolare Zuckermann; non pretende più di tre o quattro righe, ma merita molto più di una dedica.

© Giovanna Amato

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