Di Gabriele Doria
Il cinema è un’invenzione senza futuro.
I fratelli Lumière
Esco dalla sala con questa frase in mente; ricordo di averla vista-intravista-stravista in un altro film, Il disprezzo, di Godard, ma potrei sbagliare, o comunque potrei sbagliare film. Aurora è accanto a me, mi corregge: non si tratta di una frase dei fratelli Lumière, bensì di una capziosa estrapolazione, sembra, di una frase dovuta al padre dei due, Auguste Lumière (fotografo e pittore). C’è del futuro in questo passato, ed è già un altro film1.
Esco dalla sala e di fronte a me si aprono le mille vie della Napoli serale, settembrina, nei suoi snodi e nelle sue derive da fine settimana, nelle sue avventure (andare al cinema: un’avventura): mi sento guidato, soprattutto ma non solo da lei, anche dal flusso delle cose che si affastellano, si sgretolano, si rimescolano nella testa e (ridicolo questo accanimento: le luci sono di nuovo accese e la cecità è al contrario, non vedo per un troppo attraversarmi ) penso a tutte le cose che non scriverò del film che ho appena visto e che pure avrei voglia di fissare, penso a tutti i pretesti che userò per non scrivere, ancora, per mettermi con le spalle al muro, ancora.
In girum imus nocte et consumimur igni2
Giriamo in tondo nella notte e veniamo consumati dal fuoco.
Ancora.
Penso a tutte le volte che Enrico Ghezzi ha parlato di Francesco giullare di Dio (1950) di Rossellini, definendolo uno dei suoi film preferiti, mimando la scena del girotondo, in cui si perde la testa girando, in cui tutti questi santi fanno la figura degli idioti, felici, cadendo, e ci ripenso e mi gira la testa.
Vorrei partire dal presupposto (ma sono già andato troppo oltre) che Ogni opera è ambigua. Ma lo dico non in difesa della sua unità; bensì in polemica con la sua unità. E questo è Pasolini, Filmcritica, 1977. Lo sento molto perentorio. Ogni unità sarebbe “irrazionalistica, decadentistica, borghese”. Certo, l’immagine è ambigua sempre, fa parte del suo statuto originario, è inevitabile il suo (citazione colta) imputtanamento.
Esco dalla sala e ancora sono per aria, mi gira la testa, sono tra le nuvole (non è vero, ma mi piacerebbe), tra i cumulonembi, di là dai nembi impalpabili dei cirri cui son costretto salire per amarti – così Testori, mi pare – ma amare cosa, chi sale? Chi vola? Il santo che borbotta una sandrociottesca telecronaca del Palermo, inascoltabile, è illetterato, è guardiano di porci, è San Giuseppe Desa da Copertino, l’idiota; sta volando, e accanto a lui sta volando il regista, Franco Maresco.
Il film che ho appena visto – non ci sono/siete più ma sono giunto al cosiddetto punto – è il nuovo film di Franco Maresco. E chi è, Franco Maresco?

Non è un uccello, non è un aereo, questo entusiastico sognante drone che chiude Un film fatto per Bene è una memoria donneriana (Superman, 1978, crederete che un uomo possa volare), a sua volta – grande, romanticissimo cinema americano classico – memoria FrankCapriana o anche, letteralmente, I migliori anni della nostra vita, William Wyler, 19463 .
Il sogno di un volo, un cinema fatto di nuvole. E tornando a Rossellini, i cieli di tutti i suoi finali più belli, da Francesco giullare di Dio (appunto) all’estremo Il messia (1975). Finali tutti pieni di nuvole.
C’è tanto cinema classico, da sempre, nell’opera di Franco Maresco (mi sembra superfluo aggiungere: John Ford, Dreyer, Hitchcock – Totò che visse due volte, appunto, come Kim Novak) ma anche: Tex Avery, Chuck Jones, i grandi cartoni animati della Warner Brothers. Mi piacerebbe ora tracciare una dialettica delle restanze, tra le gag (crudelissime) di Will E. Coyote e Beep Beep e le gag (angeliche) di Cinico TV, ma sento un certo accademismo di ritorno. Mi salvo perché comunque non è l’occasione adatta, e mi spiego subito: Un film fatto per Bene non ha nulla a che spartire con Cinico TV, la trasmissione ideata da Franco Maresco con Daniele Ciprì negli anni Novanta, trasmessa all’ora di cena da Rai 3 e poi interdetta per vilipendio alla religione. O meglio, qualcosa a che vedere ce l’ha, evidentemente, ma ci arriveremo in seguito.

Procediamo con ordine (quale? Sento già di avere scordato il meglio di quello che avevo pensato).
Cinico TV presentava alle famiglie riunite al desco serale un bianco e nero esorbitante già ridipinto rimasticato risputato VHS, tra amplessi di uomini e asini, angeli stupidi e assorti masturbatori, nani ruttanti e sante processioni col deforme. Cinico TV e tutto il cinema di Ciprì e Maresco era nei ruggenti anni Novanta questo contenitore imploso di carni, questa collezione ballonzolante di litanie, pance, ossa, peli scorreggianti.
Corpi martoriati da sempre, da una nascita posta al di fuori del periplo idiota nel quale si ficca l’atto del generare4, e d’altronde quale madre ci può essere, se in questa Palermo prima/dopo la bomba (Goffredo Fofi ricollega lo scenario a una fantascienza Ballardiana, comunque a un futuro, forse sbagliando) non ci sono donne, ci sono personaggi femminili ma non ci sono donne, solo nani con la parrucca (Lo zio di Brooklyn). Disgustose vecchie cacanti e piscianti da portare a presso, di peso, e baldracche bassamente concupite che si concedono pochi secondi da un balcone, in realtà non sono che uomini sotto un non troppo pietoso velo. C’era tanto cinema alto e classico, vero, ma come dire (s)venuto su se stesso, svenato. Qualcuno ha parlato di una precisa genealogia pasoliniana: chiuso Salò, si aprono allora i corpi di Ciprì e Maresco. Rappresentazione plastica del cupissimo anatema delle Lettere Luterane: “Il crollo del presente implica anche il crollo del passato. La vita è un mucchio di insignificanti e ironiche rovine5″.
Quello che forse mi preme dire, in questa nervosa rendicontazione (praticamente un trailer), è che la forma portata in televisione e al cinema da Ciprì e Maresco si fonda su una almeno triplice riattivazione del materiale di scarto – anche detta comunemente passione necrofila: davanti a noi si agitano, e a volte vegetano, rovine umane afasiche e dirute, volti vuoti e anatomie traballanti all’interno di contesti (s)oggettivamente correlati. Squallidi deserti, rovine post-industriali, quartieri malfamati e disertati di città da medioevo futuro. Scarti tra gli scarti.
Non solo, perché questi derelitti noi li conosciamo attraverso riprese “di scarto”: il regista chiede a Fortunato Cirrincione decine di volte il proprio nome, e noi lo ascoltiamo per decine di volte scilinguato, incomprensibile. Il regista chiede di ripetere la scena perché la parola non era ben scandita, e nel montaggio finale noi vediamo la sequela degli errori, tutti grottescamente uguali. Il montaggio finale ci lascia vedere i ciak, i “rifacciamo”, ciò che normalmente verrebbe tagliato, e non la scena, come rinunciando a montare, come rinunciando alla propria prerogativa e allo stesso tempo riacquistando un surplus di potere visuale. È così che noi vediamo di più, e non di meno. Attraverso ciò, sembrano indicarci Ciprì e Maresco accanendosi su dei malcapitati, su di noi, sul loro stesso film, ci accorgiamo di tutto il ridicolo della diretta registrata, l’assurdo della realtà filmata che è il cinema. Ci rendiamo conto che l’immagine, evidentemente, è sempre (citazione colta) un puttanaio.
[A scrivere di immagini non si finisce di creare altre immagini, a scrivere dello schermo si frappone sempre il presente di ciò che scorre attraverso e al di fuori e che il presente dello schermo blocca, mi blocca frapponendosi, ed è già un’altra immagine. Fine pena, mai].
A questo punto, fatte le debite de-composte genealogie, intraviste le fosse comuni, alla fine: di cosa parla questo Benedetto film?
Un film fatto per Bene (2025), del solo Franco Maresco – ormai da un decennio separatosi da Daniele Ciprì – vorrebbe narrare la vita di San Giuseppe da Copertino (1603-1663). Non sorprenda, dopo tutto il planare in siffatto paesaggio, che l’intenzione iniziale fosse quella della biografia di un Santo. C’è di mezzo sempre un’immagine.
Soprannominato Voccaperta, “bocca aperta”, per la plateale, trogloditica stupidità, Giuseppe Desa aveva particolarmente a cuore una Vergine dipinta nel conventino suo della Grottella, al punto da disconoscere la propria madre, urlando: “Tu no sei! Quella è la mamma mia!” Ginocchioni di fronte a quell’immagine, iniziò a levitare. “A chi è inetto e claudicante non resta che volare6″. Il povero Giuseppe iniziò dunque tutta una serie di documentati e sconvolgenti voli che lo lasciavano di volta in volta stupendamente addormito sul cornicione di una chiesa o sopra un albero, e non c’era forza al mondo capace di destarlo.

Dopo essere stato inquisito e trovato innocente – qui a Napoli, nel 1638, ed è un’altra micro-frattura nel presente in cui non scrivo – , fu trasferito a piedi a Osimo, nelle Marche, dove per anni chiese ardentemente di rivedere quella famosa amata immagine della mamma sua abbandonata in quel di Copertino. Quando la grazia, inspiegabilmente, dopo anni gli fu finalmente concessa, la sua reazione fu Non la voglio più.
Non per capriccio. Voccaperta aveva finalmente smascherato l’autore di quella sua Madonna: “Malatasca (così nomava il diavolo). Il demonio è l’immagine, dunque. Peccato di preghiera” 7.
Una tale smorfia sdentata d’altrove non poteva mancare nella galleria di Ciprì-Maresco, anzi: non manca, c’è sempre stata – e dunque non c’era davvero il bisogno di metterla di nuovo in scena.
A questo punto bisogna osservare che il primo a pensare di realizzare un film sul personaggio sia stato Carmelo Bene, che ha lasciato una sceneggiatura – anzi “qualcosa in più d’una sceneggiatura, e perciò mai filmata” – intitolata A boccaperta.

Il film di Maresco parte da un progetto mai realizzato da Carmelo Bene per mettere in scena la mancata rappresentazione del proprio progetto (Giuseppe Desa, fuor di metafora, cade dalla gru che avrebbe dovuto sollevarlo), di cui possiamo vedere, ovviamente, gli infiniti ciak falliti, e allo stesso tempo seguiamo, nel presente (quale?) in cui il film è dato per morto, la ricerca del regista (mortalmente deluso) da parte di un collaboratore che si mette sulle sue tracce (e qui c’è Orson Welles, ancora il grande cinema classico americano alto e lontano: ma Ciprì e Maresco avevano già fatto il loro deriso(rio) Quarto Potere, con Il ritorno di Cagliostro… – piccola nota di pura ostentazione).
Nel frattempo, in un terzo tempo compresente, assistiamo a una specie di triviale e poco trimalchionica cena delle beffe in cui Carmelo Bene è messo in scena da una macchietta che dialoga con il maestro delle elementari che lo avrebbe iniziato alla storia del santo. Questa scena, oltre ad essere un evidente accanimento contro gli spettatori, è puro accanimento sugli attori. A questo punto, il gioco è scoperto: noi di tutto questo non vediamo che il fallimento, l’infinito fallire, il puntuale e costante fallire che si ripete a ogni ciak. Lo sappiamo già. Ed è lo stesso film che a un certo punto insinua il dubbio per nulla nascosto che in realtà Maresco non voleva farlo e non aveva bisogno di farlo, – perché, aggiungiamo noi, lo aveva già non-fatto, o lo aveva già dis-fatto.
Insomma: il cinema di Ciprì e Maresco nei decenni è stato così straordinario, così rigoroso nell’accanirsi su se stesso, sulla sua magnifica, asfittica bellezza, da essere rimasto senza fiato – a boccaperta?
Tutto ciò che conta non accade nel detto, nel visto, è questa la grande lezione se ce n’è una, ma sempre e ancora nel dire, nel vedere – non conta l’avere amato…8
Ci sono quasi e non ci sono ancora. Ci sono quasi. Però non ci sono ancora.
“Tutta la comunicazione è pubblicità, se non è amore”, scriveva Enrico Ghezzi. Dov’è l’amore in tutto questo cinema?
Che importanza ha quanti amanti hai se nessuno di loro può darti l’universo? 9
C’è davvero derisione, in questi scarti, in questa galleria dell’osceno? Una volontà di sbattere in faccia la verità rimossa, libera da cartolinesche rappresentazioni e sciacallaggi mediatici, il vero Sud del Sud dei Santi? O addirittura una sottile forma d’amore? Una specie d’amore per l’osceno lo smarginato, lo scomunicato, il defraudato, il diseredato, l’ossesso, il patologico, il lascivo, lo squallido? Ciò che nasce storto e vile, ciò che non rimane, ciò che fa ridere proprio per l’abnormità del suo anacronismo. Ciò che è pleonasticamente condannato a essere superato distrutto spazzato e proprio per questo, ancora più meritevole di essere celebrato, raccolto, spigolato (e non parliamo solo di soggetti umani, ma anche del loro parlare, degli scarti del loro parlare – Cinico TV venne definita, da Bene, un calcio in culo al linguaggio. Maresco sente il bisogno di ricordare allo spettatore la citazione, durante il film). Una forma finalmente coerente, e coerente proprio perché lacerata, perché non può esistere bello che non contenga in sé, vertiginosamente, anche tutto il brutto, tutta la radice degli scarti. Perché, tornando ai Santi che stramazzano a terra, il cammino del peccato va compiuto fino in fondo10, lordandosi di tutte le sozzure e le bassezze, per potere poi, in un abissale rovesciamento, riavvicinarsi al divino.
Tutto allora è già sublime, tutto è santo – o anche, a questo punto, tutto è Bene -: anche inculare gli asini11 .
Pietro Giordano, in mutande, seduto su un carro funebre che si allontana, ci urla: Fate schifo! Fate schifo! Fate schifo!
Perché dopo essersi accaniti contro tutto, e avere fatto piazza pulita, rimaniamo noi. E siamo noi, le immagini.
(Ora ci sono)
Ritorno. Ho scritto facendomi trascinare, e ora non mi convince: non mi convince questa assurdità di un fine, di un mettere le cose in prospettiva. Non ci deve essere un rovesciamento a venire, no: e allora?
No, il rovesciamento è davanti ai nostri occhi e avviene continuamente senza posa senza forma – è l’informe – manifestandosi e chiudendosi e riaprendosi di fronte allo specchio frantume senza direzione dell’occhio, perennemente wide shut12, e l’immagine continua a rinascere da se stessa, a rimarginare per rismarginarsi, e ancora: è il cinema. È per il cinema, il grande amore.
Il sogno, il volo, le nuvole: non c’è compostezza da cinico (TV) che tenga, con quella lunga barba e lo sguardo stanco, non c’è proclama di morte urlato da una comparsa con la diarrea, o qualche carmelobene mauriziocostanzasticamente riportato in vita da una macchietta (anzi: a partire dal titolo così palesemente, ridicolmente antifrastico, come calcio in culo a tutti i vaneggiamenti degli pseudo carmelobeniani). Franco Maresco in Un film fatto per Bene fa i conti con le rimanenze, le restanze di tutta una vita di immagini, le riguarda e le carezza per allontanarsene, in volo. Tolto tutto, rimane solo l’amore. Di cui, eventualmente, si potrà morire.
Tutto è Bene quello che non finisce mai.
Note
1 Vogliamo i colonnelli, di Monicelli (1973)
2 E’ il titolo dell’ultimo, bellissimo film di Guy Debord (1978)
3 Già trasmutati ne I migliori nani della nostra vita, serie televisiva del 2006 firmata Ciprì-Maresco.
4 Antonin Artaud, Le momo, Ci-git.
5 Dall’Abiura della trilogia della vita, Lettere Luterane, 1976.
6 Carmelo Bene, Giuseppe Desa da Copertino, Introduzione, Opere.
7 Ibid
8 “Solo l’amare, solo il conoscere
conta, non l’aver amato,
non l’aver conosciuto. Dà angoscia
il vivere di un consumato
amore”
Pier Paolo Pasolini, Il pianto d’una scavatrice, in Le ceneri di Gramsci
9 Jacques Lacan
10 Martin Lutero, liberamente citato.
11 Una delle scene iniziali de Lo zio di Brooklyn (1996), genialmente riproposta, vista in un cinema, anche in Totò che visse due volte (1998)
12 Stanley Kubrick, l’inarrivabile.
In copertina: Gustave Courbet, L’asino

