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La religione del poeta è l’illusionismo – Sull’opera omnia di Antonio Bux

Di Giammarco di Biase

 

È rara la monumentale opera omnia – ben 888 pagine complessive – Poesie (Marco Saya Edizioni, 2024) di Antonio Bux, poeta pugliese che si è fatto conoscere negli anni per la sua sterminata produzione – oltre trenta libri in dodici anni, a partire da Trilogia dello zero, suo potente esordio pubblicato nel 2012 sempre per i tipi di Marco Saya, Bux ha pubblicato, tra gli altri, Naturario (Di Felice, 2016), Sasso, carta e forbici (Avagliano, 2018), La diga ombra (Nottetempo, 2020), Diario dell’intruso (Marco Saya, 2021), Gemello falso (Avagliano, 2022) e Mappe senza una terra (RPLibri, 2023), con i quali è risultato selezionato e finalista in vari premi, tra questi il Viareggio, il Carducci, lo Strega Poesia, il Camaiore, il Città di Como, il Lorenzo Montano, il Luciana Notari e il Prestigiacomo  (vincitore sezione under 40), senza disdegnare incursioni con sillogi scritte in dialetto foggiano e spagnolo – qui definitivamente antologizzata e cristallizzata anzitempo.

 

 

Dicevamo poc’anzi dunque di opera “rara” perché “esistere, è un andarsene in due” (pag. 803) e per leggere un libro così magniloquente c’è bisogno di una vera e propria “forza lavoro” da parte del lettore. Bisogna andarsene, sì, senza “nostos”, senza tornare. O, se proprio si vuole un ritorno a casa, bisogna che in questo viaggio si navighi in due: poeta/demiurgo e lettore/assolutore. Bisogna accusare l’ordine e il tempo di un linguaggio e allora aderire ad una “sommatoria”, erigere un pensiero. Pensiero che, per imponenza dell’evento poetico (aggiungerei picaresco), deve osservare una certa filosofia, lambire un’ermeneutica. E in effetti inizia così, l’opera di Antonio Bux, da un testo primigenio, ossia riconducibile ad una primitività ideale sfuggita al controllo del versificare stesso:


Incipit 

Ero piccolo e vedevo gli alberi
parlare alle persone
nessuno rispondeva ma c’era
un bambino, si illuminava
in mezzo ai cespugli
credo fosse armato di cielo
era molto distante
a un certo punto smise di far luce
nel buio calpestato ricordo
gli alberi
cominciarono a dirmi. 

(pag. 11) 


Nel kairos degli alberi un bambino acquisisce il “verbo”. Si apre una crepa nello spazio-tempo: gli alberi tornano ritti come colonnati, la parola diventa un tempio investito da una fede. L’incipit dell’opera è sicuramente un inganno programmatico: Bux fa parte di quei poeti “politeisti”, ovvero corrotti (aggiungo, per fortuna) da una spirale di esplosioni e implosioni.
La religione del poeta è l’illusionismo, potremmo dire, dove la parola si fa riflesso dell’uomo neolitico ma che gioca anche a nascondino con la stessa preistoria, con i connotati, con il viso, con il gioco delle parti: lo sguardo di chi guarda e la natura dell’immagine che è guardata. Ecco qui dividersi la poesia, il suo bastimento: credenza ingannevole che scompone e ricompone lo sguardo di chi è sedotto. In Antonio Bux c’è quindi, per natura, la lussuria di un credo, l’assenteismo del precetto come anche la presenza stessa del simbolo. Per dirla in maniera più semplice, nessuno gioca con la parola più di Bux e nessuno la rispetta così tanto: la parola è sacra ed ecologica anche se siamo nei pressi dell’inferno, come si può vedere in questo testo estratto dalla terza sezione (in totale ne sono sette) Gemello falso, dove l’autore indaga il fenomeno, da lui stesso più volte esperito, dei disturbi alimentari:


Perfino aprile è crudele, la penso
come Eliot. Il mondo ricomincia di nuovo
mentre io disegno il mio carcere.
L’esilio dentro una stanza, con un’ora d’aria
all’alba oppure alle quindici.
I pranzi e le cene, tutto nel calcolo
preciso di somigliare a un’istanza.
Ma l’interferenza è un demonio
c’è del cattivo anche pregando:
le nuvole mi chiedono di rientrare
e la sera pochi amici di uscire.
Ma non rispondo, proseguo il fantasma
ascolto musica distante o guardo
film senza l’audio. E ho sempre sonno
ma non dormo mai, il pensiero presente
mi fa tornare a ieri, all’equinozio che ho avuto
quando ho smesso di bere. Spesso leggo il Libro dei Padri
il loro deserto vicino. Così mi commuovo e cerco
risposte migliori, la congiunzione del corpo
al corpo che nello specchio mi cambia.
Anche aprile ha il suo bello, il diagramma
sbagliato di una stagione che mi vuole futuro.
Maggio sarà più crudele. 

(pag. 217) 


Il sentimento della miseria umana conferisce a tale racconto in versi un accento di semplicità che è tratto tipico del genio buxiano oltre che il centro della tragedia intrinseca in Poesie. L’eco di alcune parole lambisce da vicino quello dell’epopea. Come non ripensare al giovane troiano inviato, suo malgrado, nell’Ade quando Cristo dice a Pietro:  “Un altro ti cingerà la veste e ti condurrà dove tu non vuoi”.
Questo accento non è separabile dal pensiero che ispira i Vangeli; poiché “il sentimento della miseria umana è una condizione della giustizia e dell’amore. La diversità degli affanni che pesano sugli uomini genera l’illusione che ci siano fra di essi specie distinte incapaci di comunicare reciprocamente” (Simone Weil, Il libro del potere, Chiare Lettere).

 

Antonio Bux (Foto di Claudia Di Pierro)

 

Ecco che allora il Bux poeta, divide in “specie” e “sottospecie” la sua poesia, con un fare darwiniano che si collega ad una logica distintiva e d’estinzione: ogni poesia è lambita da un suo spazio. Tramite parametri congeniali all’autore si divide in capitoli e sotto-capitoli di un lessico e di un pensiero multiforme. Come a dire che si ha la parola giusta per ogni diverso patimento umano e di razza. È così che nasce questa sorta di matrioska intellettuale ancor prima che d’insieme: il libro è corredato da sezioni che parlano la lingua e il pigmento delle differenze. “A te che leggi, ti voglio bene”: com’è possibile sbagliare l’interpretazione dell’opera con un esergo del genere?  

“Ma, a mio avviso, c’è grandezza solo nella dolcezza” (Simone Weil). Io direi piuttosto: non c’è nulla d’estremo se non nella dolcezza. La follia per eccesso di dolcezza, la dolce follia. Pensare, cancellarsi: il disastro della dolcezza. (Maurice Blanchot, La scrittura del disastro, Il Saggiatore). 


Qui, dietro di me
vivono leoni
nelle gabbie
del risveglio
i volti, sereni
di chi mi sbrana. 

(pag. 648)


E se il mestiere del poeta, come ci suggerisce la poesia buxiana, fosse un mestiere di infinita dolcezza? O, ancora meglio, se la sua poesia evidenziasse “differenze” di verso posto nello sguardo dei propri simili? 

Se fosse, infine, quella del poeta, una condizione di potere per evitare il disunirsi delle miserie umane una volta posta la “diversità” e il censo? In definitiva la poesia di Antonio Bux è tutto questo e molto altro: una poesia fedele non solo alla pietas ma anche al contagio dell’essere eletti come diversi. 

Presso certi “selvaggi” (società senza Stato), il capo deve provare il suo dominio sulle parole: nessun silenzio. Nello stesso tempo, la parola del capo non è proferita per essere ascoltata. Nessuno presta attenzione alla parola del capo, o meglio si finge disattenzione; e il capo, infatti, non dice nulla, poiché ripete la celebrazione delle norme di vita tradizionali. Il capo deve muoversi nell’elemento della parola, ossia all’opposto della violenza. Il dovere di parola del capo, questo flusso continuo di parola vuota (non vuota, nel senso tradizionale, di trasmissione) che egli deve alla tribù, è il debito infinito, la garanzia che interdice all’uomo di parola di diventare uomo di potere.
(Maurice Blanchot)

 


Antonio Bux  è poeta, editor e traduttore. Ha pubblicato, tra gli altri, Trilogia dello zero (Marco Saya 2012), Naturario (Di Felice 2016), Sasso, carta e forbici (Avagliano 2018), La diga ombra (Nottetempo 2020) e Gemello falso (Avagliano 2022). In spagnolo ha pubblicato 23 – fragmentos de alguien (Buenos Aires 2014), El hombre comido (Buenos Aires 2015), Saga familiar de un lobo estepario (Toledo 2018) e in dialetto foggiano le sillogi Lattessànghe (2018) e Ki uarde e nun uarde (2022).
Come traduttore ha curato vari volumi, tra i quali Finestre su nessuna parte di Javier Vicedo Alós, Bernat Metge di Lucas Margarit e Contro la Spagna e altri poemi non d’amore di Leopoldo María Panero. Redattore della rivista «Avamposto», ha fondato e dirige il blog «Disgrafie» e collabora con alcune case editrici.
Nel 2023 pubblica per RP Libri Mappe senza una terra, libro entrato nella dozzina finalista del Premio Strega Poesia 2024.

 


In copertina: Artwork by Agostino Arrivabene

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