A cura di Valentina Avanzini
Amórgo è l’isola più orientale dell’arcipelago delle Cicladi. Prima di tutto: un’indicazione geografica, un situarsi. È la stessa isola a dare il nome all’opera prima di Daphne Grieco, uscita quest’anno per Bertoni. Dalla prima dichiarazione di forma (o meglio della sua assenza: A-mórgo, a-morfo/amalgama lontano1) è chiaro che l’esplorazione geografica ne attraverserà una o molte altre: un abbandonarsi che è perdere forma e – insieme – perdere lingua.
Daphne Grieco, scrittrice coltissima, filologa poliglotta, perde e fa perdere le tracce di sé nelle sezioni che scandiscono la raccolta come un’epopea minuta, come se, viaggiando, potessimo effettivamente incontrare popolazioni (tutte interiori) che parlano lingua diverse: l’ungherese, lingua emotiva e mai studiata, gli idiomi voluti e coltivati: l’inglese, il francese, l’italiano, il latino e il greco, e la lingua desiderata, imparata nell’adolescenza per porosità epidermica: il dialetto napoletano.
A questo punto, l’esplorazione geografica della (mancanza di) forma sembra trasformarsi in una constante, un filo rosso da seguire per riuscire, prima o poi, a uscire dal labirinto e imparare a parlare. O, ancora meglio: a dire.
Nel suo L’ordine simbolico della madre, Luisa Muraro riconnette con decisione il dono della parola2 alla madre. Una connessione, questa, che risuona nelle parole delle mie madri 3 (sempre plurale) di Daphne Grieco, una tana-nascondiglio, ma anche un contro-utero da cui perpetuamente rinascere (non a caso, Muraro rintraccia la manifestazione psicosomatica di questa riconnessione con la parola materna nella figura dell’isterica, il cui inarcamento è il contrario della postura raccolta del feto 4).
La conversazione che segue non si pone l’obiettivo, come d’altronde non lo fa Amórgo, di sciogliere questi nodi, ma piuttosto di attraversarne le dimensioni, nella forma marittima e mitologica di una navigazione.
VA: Vorrei partire dalla questione della lingua, che in questa tua opera prima ha un valore ritmico fondamentale, che accompagna tutte le sezioni. Scrivi in tutte le lingue in cui sai esprimerti: italiano, ungherese, dialetto napoletano, inglese, francese, latino, anche contemporaneamente. La lingua delle tue madri, l’ungherese, è l’unica tra queste che non è stata imparata intenzionalmente né è passata per un’educazione scolastica: e questa sua natura radicale, profondamente affettiva passa attraverso i versi. Se dovessi cercare di rendere l’idea, direi che è più vicina all’olfatto che alla vista. Riconoscibile, eppure ancestrale. Vorrei che mi parlassi della natura idiomatica dei tuoi testi, della differenza che fa scrivere in una lingua che hai deciso di imparare e in una che invece ti appartiene e basta.
DG: La lingua è di per sé un fatto di carne, indichiamo con la stessa parola il muscolo e il suono: così è in italiano (e in alcune lingue romanze – perché così è in latino), ma anche in alcune espressioni inglesi (mothertongue); infine, in una lingua non indoeuropea come l’ungherese (nyelv). La parola fa parte del corpo, il corpo fa da tramite col mondo: lingue diverse formano e in-formano i mondi, li partoriscono. La scrittura translingue è qualcosa di molto vicino a un disturbo dissociativo di personalità: si risolve solo quando la mente può assemblare le lingue liberamente, comporre frasi mischiandole tutte, creare un sovra-linguaggio – e farlo senza sforzo di pensiero, unicamente per rapimento, un ballo in maschera in cui danzano tutti. L’ungherese è la lingua dell’infanzia, dell’amore senza troppi fronzoli, dei segreti sussurrati a bassa voce, delle ninnenanne: è una lingua di cura e franchezza, estremamente materica nella sua gravità agglutinante, agli altri suona come un incantesimo. Non so pregare in ungherese, mia nonna non ha avuto il tempo di insegnarmelo: ma sto imparando. Ho il sospetto che dio più che in ebraico si esprima magyarul. E se la poesia, quella onesta, altro non è che preghiera, bisogna di praticarla scegliendo la lingua giusta.

VA: Amórgo si presenta inizialmente come una raccolta profondamente legata al mare. Eppure, più si prosegue nella lettura più il mare sembra prosciugarsi, asciugarsi, lasciando scie amare, minerali di sale che ora dà vita, ora diventa simbolo della sua fine, e ci ritroviamo corpi asciutti, radicati a terra. In questa dicotomia mi sembra risuonare la natura doppia della tua natura mediterranea e ungherese: che peso hanno le tue geografie nella tua scrittura?
DG: L’acqua marina si distingue per il sale: tiene a galla più facilmente, è un elemento necessario al corpo, ma è un’acqua che non possiamo bere. Aringhe e merluzzi sono messi sotto sale per essere conservati, da morti. La steppa ungherese, la puszta – per meglio dire, l’áföld – assomiglia molto a un mare: un orizzonte piatto e infinito, non più azzurro ma verde. Anche qui, la salinità è importante, concentrata in specifiche zone (szikföld). Come nel mare, quando ci sei nel mezzo, c’è la vertigine di essere circondato dall’elemento, connessi con tutto, persi ma liberi di andare dove si vuole. L’intera sezione Katapola (nome del porto turistico e ‘cosmopolita’ dell’isola) è dedicata all’esplorazione di luoghi più o meno reali e più o meno interiori: molti titoli corrispondono all’indirizzo di case dove ho abitato in questi anni. Come con le lingue, un solo torace non basta, serve un’espansione, una geografia intima, dove in bicicletta si possa raggiungere l’Usine Hollander di Choisy-le-Rois nella banlieu parigina e da lì, in pochi minuti di metro, Napoli o magari Budapest. Tutte le cose misurabili sono problematiche per me: il tempo, le distanze.
VA: Amórgo titolo della tua raccolta e nome dell’isola più orientale dell’arcipelago delle Cicladi, risuona proprio in incipit come una dichiarazione di non-forma: “A-morgo, a-morfo/amalgama lontano/risposta all’inquisitio dell’animo/nello sterno incavato/non-essere, in tutte le cose esistere/informe, forma stessa del creato 5”. Mi ha colpito immediatamente questa dichiarazione di intenti che dialoga con la tua scelta di inserire una serie di immagini (di forme, di istantanee) tra le pagine. Da dove nasce questa esigenza?
DG: Visitai Amórgo nell’estate del 2021: mi turbò subito il suo essere spoglia ma al contempo feroce, uno scoglio tenace ferito dal Meltemi. Tutti i fatti umani e naturali, su questo set scarno, tutte le lotte di cielo e di terra, di roccia e di mare, sono terribilmente evidenti. L’etimo di Amorgós è incerto, probabilmente pre-ellenico: direi non a caso. Se si perde il nome, si è condannati all’indiscriminato. Le fotografie aiutano senz’altro a connettere, sono ponti tra la parola e l’isola, tra l’interno e l’esterno. Perché Amorgós non esiste solo dentro di me. Alcune foto hanno co-creato il testo: scatti che hanno preceduto di pochi minuti le prime stesure (penso a Ossa su ossa); altri sono il risultato di appunti visivi, perfetta corrispondenza di quelli scritti a mano negli stessi giorni. Va detto però che l’idea di inserire queste mie fotografie (scattate in analogico, poi tagliate, incollate e scannerizzate, grazie anche all’aiuto di Nicola Fumo) nacque in realtà da un’intuizione di Ivano Bove, titolare della libreria Dispaccio di Napoli.
VA: Seguendo le tue parole attraverso le sezioni di questo libro, ho avuto l’impressione di percorrere una specie di epopea eroica, un’Odissea intima, in cui la dichiarazione di non-forma incipitaria è una specie di invocazione alle muse, e il resto delle poesie sembrano trasportare questo io narrante in una peregrinazione alla scoperta di sé: “Guardo allo specchio mi chiedo/chi sei […] Mi guardi, ricambio. Provo a chiamare/ il mio nome, rispondi/ con l’altro 6” o ancora “Per strada indugio in specchi rotti/ sui cigli, orfani. Non mi piace/vedermi intera, nella figura / tutta compormi, arrischiarmi per poi/ sola scoprire cosa io sia 7 -”. Ma anche una fuga per non farsi trovare, o meglio comprendere: “Per questo scrivo così/ (con la lingua delle mie madri) /affinché tu apposta non capisca 8”, “giorno dopo giorno mi dimentico come parlare / alle volte dissimulo / sai? La trovata dicono è interessantissima, dimmi di più”. Come se le tue lingue altre fossero un’isola di Calipso in cui nascondersi o – se l’obiettivo è proprio quello di perdere i contorni, non trovarli – l’Itaca che stavamo cercando. C’è un viaggio in Amórgo? E se sì, dove porta?
DG: Odissea intima è una definizione che mi piace. Amórgo è decisamente un viaggio. Ulisse gira il Mediterraneo e gira su sé stesso, si nasconde, (si) scopre e riposa; ma anche Penelope tesse e disfa, si disfa ogni notte, si distende da sola nel letto: poi ricomincia. Tendenze centrifughe e centripete, un conflitto necessario. Nell’impossibilità dello stare a metà tra le cose l’unica soluzione è forse accogliere tutto, anche a costo del balbettio. A volte si perde qualcosa, e la si deve proprio perdere, almeno per un po’. Bisogna fare spazio a tutto il resto. È una corsa a perdifiato, un acchiapparello: provate a prendermi, provate a prendervi – vorrei dire. Altre volte è più simile a un nascondino: perché serve il giusto tempo, e l’invito diventa provate a perdervi. Ma come in ogni gioco, non si gioca da soli, ci si salva solo con l’altro (attenzione: non attraverso, ma con). Se si corre troppo lontano, o ci si nasconde troppo bene, salta tutto. I giochi hanno pure un inizio e una fine, e così i viaggi interiori ed esteriori, ché poi si va a fare merenda. Dopotutto, anche Odisseo ritorna, anche Penelope si decide alla messa in discussione totale: solo allora può davvero avvenire l’incontro, la grazia, la salvezza delle e nelle cose.
VA: C’è nelle tue poesie una forte presenza animale – i ragni, i pesci, le capre. Corporea, ma mai morbosa. Ricordano un po’ personaggi del mito – fantastici e concreti allo stesso tempo. Ma eviti sempre la violenza dell’astrazione: se compaiono, compaiono come corpi, non come metafore o simboli di altro. Conoscendo anche la tua particolare sensibilità al tema, vorrei che mi parlassi di più della presenza animale nel tuo scrivere: le sue forme, i suoi significati.
DG: La mia carne e la carne degli altri viventi non conoscono interruzioni di sostanza. Anche per questo non me ne nutro, se non con gli occhi. La poesia risiede tutta nello sguardo: non credo che serva ricorrere all’invenzione davanti a quanto si rivela continuamente alla vista. Le parole sono solo un tramite, un vascello, è davvero già tutto scritto nelle cose. Gli animali lo sanno, ci osservano, ci vedono meglio di noi: hanno mille pupille diverse. Sono di gran lunga più vicini al dio, sentinelle dell’esistere. Sono i poeti migliori del mondo, perché conoscono e tacciono. La parola migliore è sempre quella che manca.
Note
1 “Amórgo” in Daphne Grieco, Amórgo, Bertoni Editore, San Giuliano Milanese 2025
2 Luisa Muraro, L’ordine simbolico della madre, Editori Riuniti 2022 (ed. originale 1991)
3 Daphne Grieco, Amórgo, Bertoni Editore, San Giuliano Milanese 2025, pag 55
4 Luisa Muraro, L’ordine simbolico della madre, Editori Riuniti 2022 pag 60
5 Vedi nota 1
6 “Sine nomine (in saecula saeculorum)” in Daphne Grieco, Amórgo, Bertoni Editore, San Giuliano Milanese 2025, pag 45
7 “II cerchio”, ibi pag 47
8 Ibi pag 55
9 Penitenziagite, ibi pag 44
Daphne Grieco (1995), di origini italo-ungheresi, è assegnista di ricerca in paleografia latina presso la Scuola Superiore Meridionale di Napoli, dove si occupa della tradizione manoscritta di testi bassomedievali (Divina Commedia, Rerum vulgarium fragmenta). Suoi testi poetici sono comparsi in numerose antologie e riviste. Amórgo (Bertoni 2025) è la sua opera prima.
In copertina: artwork by Gerard van Spaenddonck

