Di Serena Votano
Alcune storie di famiglia nessuno le racconta mai, sono ricordi avvolti nel silenzio per la vergogna o per l’incapacità di parlare al passato. Altre storie invece si spettinano di generazione in generazione: un anno diventa due, i motivi si dissolvono nella nebbia e appellarsi ai legami di sangue non basta per recuperare la verità. Nessuna Mitologia Familiare – come affettuosamente Nadia Terranova, in libreria con il romanzo Quello che so di te (Guanda, 2025), definisce la sua famiglia allargata – può custodire ricordi senza ritoccarli.
L’autrice e protagonista di questo libro non si accontenta delle parole tramandate, ha bisogno di vedere da vicino cosa è successo alla bisnonna Venera, internata per un certo periodo in manicomio. Nadia Terranova sente l’esigenza di parlarne perché a sua volta è diventata madre di una bambina: «Capisco cosa non potrò mai più permettermi di fare. Impazzire».
Venera, la bisnonna messinese, bussa nei sogni di Nadia, s’incarna nel suo corpo come quella macchia sullo zigomo che da un po’ di tempo non riesce a celare.
Non si tratta di una biografia ma di una sospensione da sé, tra il desiderio di trovare un nuovo habitat in questa dimensione di scrittrice e madre e il bisogno di restituire la vita alla bisnonna.
Questo viaggio a ritroso nel passato costringe chi scrive a un’immobilità psico-fisica: le giornate di Nadia sembrano un susseguirsi lente tra casa, asilo, brevi visioni di Roma e fughe nella calda Messina. La dimensione della memoria è una seconda vita parallela che pietrifica il corpo e libera l’immaginazione.

Di lei si è sempre saputo poco e niente, la madre non le ha mai parlato, ma Venera il suo mussu cuciuto (dal dialetto muso cucito, bocca chiusa), è rimasta «impigliata nello stato irregolare di realtà delle eredità familiari». Nadia segue il filo matrilineare della sua famiglia che porta fino a Venera. Vuole scoprire per quale motivo viene reclusa “al Mandalari”, ex ospedale psichiatrico situato a Messina e che prende il nome dal suo fondatore, decide di tornare nella sua città natale per consultare gli archivi. Secondo la Mitologia Familiare la donna, a causa di una brutta caduta, ha perso la bimba di cui era incinta e ne è rimasta sconvolta, al punto di crollare per la disperazione. Il marito di Venera, ex granatiere, per ristabilire la pace in casa la accompagna in manicomio dove viene internata con una diagnosi di isteria. O meglio: psicosi istero-nevrastenica. Un termine ormai scomparso dai manuali di psicologia, ma che ancora riverbera nel linguaggio comune come un insulto unicamente al femminile che l’autrice traduce nel suo dialetto messinese: scantàta, scattiàta, strèusa. Spaventata, agitata, strana.
La storia di Venera solleva una domanda cruciale: quante donne sono state internate e sottoposte a trattamenti invasivi, quando invece avrebbero potuto ricevere cure diverse, più umane, protette dall’affetto e dalla presenza della propria famiglia? Essere madre comporta un’enorme responsabilità, da portare avanti senza mostrare – a infermieri, medici, parenti, amici – le proprie insicurezze, ansie, fragilità.
Un altro tema che poi affronta questo romanzo è appunto la caduta come fallimento. La Mitologia Familiare, in generale come la Storia, restituisce un’immagine degli uomini perfettamente integra, senza lacune o timori. Diventare genitori non fornisce agli esseri umani il segreto per diventare persone giuste, universalmente corrette, infallibili. Nadia, invece, sceglie di far luce sul suo bisnonno: un uomo che, alla soglia della prima guerra mondiale, sceglie di fuggire per non essere arruolato, che anzi viene spinto dalla madre a raggiungere il fratello in America e poi, al suo ritorno, a sposarsi. Si tratta di una figura che deve rimanere integra di fronte al crollo della moglie, la scrittura di questo romanzo serve proprio per riconoscere che non esistono debolezze, non esiste maschilità tossica, per ammettere che non esiste genere di fronte alla fragilità.
Lasciateci sperimentare il fallimento, lasciate che ci concentriamo sull’unica cosa che importa: non cadere, o cadere senza uccidere chi amiamo. Lasciateci ovunque fallire in pace.
In Quello che so di te l’autrice racconta, inoltre, il rapporto che la figlia ha con il padre e con il con il nonno, secondo marito della madre di Nadia, dunque affronta il macigno del padre morto nel 1989 per Aids (tema già approfondito ne Gli anni al contrario).
Scriveva Natalia Ginzburg: […] ho conosciuto moltissime donne, donne tranquille e donne non tranquille, ma nel pozzo ci cascano anche le donne tranquille: tutte cascano nel pozzo ogni tanto.
Ma, a differenza degli uomini, le donne traggono nuova linfa dalla caduta. A modo suo Nadia spezza la tragedia familiare che per molte generazioni – dal terzogenito di Venera alla zia materna, morti troppo presto, oltre al padre – perseguita la sua famiglia attraverso la scrittura: «Scrivere è spezzare un incantesimo: se lo scrivo, non accade più».
Quello che so di te (candidato alla cinquina del Premio Strega 2025) non è un romanzo biografico, ma universale: quante persone si sono sentite come Nadia, come Venera? In quanti hanno sentito o sentono il bisogno di ripercorrere le proprie radici familiari per comprendersi meglio?.
L’autrice segue le orme dello stile di scrittura di Annie Ernaux ma trae certamente ispirazione da Lessico famigliare di Natalia Ginzburg, distorcendo ogni certezza sulla differenza tra storia reale e verità.
Il romanzo di Nadia Terranova è un lento dialogo con l’invisibile, in cui la memoria risignifica il presente e accetta di muoversi finalmente verso il futuro. Un libro che mostra – tra silenzi e fantasmi – quanto poco sappiamo di noi stessi, degli altri, del mondo.
In copertina: Odilon Redon, La follia, 1883, grafite su carta, Museo del Louvre, Parigi

