Una rubrica a cura di Giulia Bocchio
Domanda e risposta: due entità complementari, eppure l’una genera l’altra, in un interscambio potenzialmente infinito, mai esausto, mai uguale a se stesso. La sintesi dell’incontro, il binomio preferito della conoscenza. E della curiosità.
“Intervista” è solo il nome che ne racchiude l’atto e l’intenzione ma, in questa rubrica, protagonista sarà il dialogo – l’incontro – lo scambio.
Esseri umani che hanno una visione e che si sono imbattuti nel proprio labirinto personale. Perdersi significa anche attraversarlo. E magari raccontarlo.
Creatività, arte, progetti, riflessioni, esperienze e uno sguardo rivolto al futuro, in quell’orizzonte magnetico che è la parola.

Il dialogo di oggi vede protagonista Giuseppe Zucco che, a partire dal suo ultimo romanzo, Il signore delle acque (Nutrimenti), ci accompagna in un percorso letterario che sonda il sottile confine fra paura e meraviglia, fra catastrofe e rivelazione, perché è questo il mondo che si apre davanti a noi fin dalle prime pagine del libro: un mondo stravolto. Un’immensa cappa d’acqua ha invaso il cielo, gravando su ogni essere vivente come una minaccia senza nome, e tingendo la terra di un blu malinconico, ambiguo e vibrante. Quando è così, non resta che la parola: quella di Giuseppe Zucco, che si trasforma in scrittura e quella del bambino protagonista, che si trasforma in canto e resistenza.
Abitare l’infanzia come spazio creativo e letterario è in fondo accettare di mettersi in ascolto di forze selvagge, lasciarsi condurre in territori di spaesamento, abbracciando il rischio di non capire, ma di sentire. Ecco perché il romanzo stesso diventa anche una riflessione luminosa e struggente sull’arte stessa della narrazione.

Giuseppe, bentrovato. Il tuo ultimo romanzo, Il signore delle acque, si apre con un’immagine tanto inquietante quanto visivamente potente: una pesante e immensa cappa d’acqua ha invaso il cielo. È uno spaventoso ammasso liquido, che ha tutta l’aria di una catastrofe immane e imminente, aleggia sui palazzi, si appropria di uno spazio non suo, si accumula e progressivamente scende. È uno spettro che alita sul collo di chi vive sulla terra. Qual è l’origine di questa visione?
Nei giorni della pandemia, poco prima che ci chiudessimo in casa, difendendoci così da un male inspiegabile, mi è piovuta in testa questa immagine. Il cielo allagato da un immenso mare d’acqua. Era un’immagine così potente. Dentro di me si è espansa come un piccolo nido da cui spiccavano il volo milioni di uccellini, uccellini che andavano e venivano, disegnando nell’aria tenere e spaventose figure.
All’inizio pensavo che questa immagine contenesse un racconto. Quando mi sono messo a scrivere, con le pagine che montavano velocemente, mi sono ritrovato nel fitto di un romanzo, un romanzo di cui non ne sapevo nulla, e che ho conquistato una frase per volta, abbandonandomi al suo flusso, vedendo su quali rive mi avrebbe portato. È strano da spiegare, ma tutti i miei libri si sono originati così. Qualcosa – un’immagine, una frase, una melodia – da un momento all’altro mi pervade e mi possiede. E questo qualcosa attiva un’energia. Un’energia pericolosa e smisurata. L’energia che attraversa gli animali selvatici a caccia nei boschi e gli innamorati. Un’energia che riapre il mondo, lo spalanca, lo riconsegna ai nostri sensi come un luogo misterioso, carico di segrete corrispondenze, in cui perdersi e fare avventura. Ecco, parte del mio lavoro è stato proprio questo. Meritare la forza sprigionata dalla prima immagine, e darle forma, stando bene attento a non chiudere questa energia, ma a moltiplicarla.
Poi, se devo essere sincero, io non so esattamente cosa significhi questa immagine. La letteratura ha più a che fare con il sentire che con il capire. Il capire restringe il mondo, poiché rinchiude il mondo in poche caselle, assegnando alle cose definizioni e significati, e questo a scapito di una complessità mille volte maggiore e sempre sfuggente. Il sentire amplifica il mondo, perché ne intercetta le forze segrete e le fa risuonare. Sentendo, noi piccola particella del mondo vibriamo al vibrare del mondo vastissimo e diramato. Tutto è intrecciato e risuona. È come se ogni cosa fosse costituita di minuscoli campanellini d’argento. In questo sono fedele a quanto scrive Giorgio Manganelli in Centuria, «Dove non si capisce si è prossimi al centro, dove si capisce si è all’estrema periferia, si è fuori».
Eppure, anche così, sono consapevole che questa immagine ha a che fare con quei momenti della vita in cui qualcosa di inspiegabile si avvera e comincia a premere su di noi. Una pressione che ha insieme qualcosa di collettivo, che riguarda l’intera specie (una pandemia, una carestia, una guerra, i cambiamenti climatici, etc.), e qualcosa di strettamente individuale (una malattia, una depressione, la fine di un amore, la perdita di una persona cara, etc.). Qualcosa di inspiegabile, e ingovernabile, accade, e bisogna farci i conti.
Ecco, forse per questo, sotto l’immane pressione di questo mare nel cielo, tutto sulla terra si tinge di blu. Il blu è il colore della melancolia e della tristezza. Però è anche il colore dei fondali in cui si celano gli scrigni del tesoro. È il colore delle apocalissi in cui dalle crepe aperte dalla catastrofe gorgogliano continue rivelazioni. È il colore di un’atmosfera dolce e avvolgente in cui chiunque, entrando, proprio come è successo a me scrivendo questo libro, può avvertire la vita schiumare, vorticare, ribollire. La vita mai doma, mai data. La vita ambigua, instabile, scatenata.

Il protagonista è un bambino: pagina dopo pagina lo seguiamo nei meandri del suo diretto sentire, delle sue paure e delle sue personali ribellioni. Deve fare i conti con una situazione che ha sconvolto la razionalità di tutti, specie quella degli adulti. Il mondo è paralizzato, sull’orlo del baratro, abitato da isteria e violenza: eppure, nei suoi traumi, c’è qualcosa di carezzevolmente dolce e tragico al tempo stesso. Scrivere e abbracciare quell’abisso che chiamiamo infanzia: quanto è stato complesso emotivamente?
Così come ho ricevuto la prima immagine del romanzo, allo stesso modo ho ricevuto la sua voce. Era come se la voce fosse annidata nell’immagine. Proprio così, la voce di un bambino. Subito ho sentito che questa voce mi avrebbe spinto dentro un territorio sconosciuto, e che quel bambino sarebbe stata la mia guida.
Fa ridere, no? Una delle cose che più temiamo nella vita è sentire le voci. Io da questa voce sono stato abitato per un anno e mezzo – il tempo di scrittura del romanzo – e l’ho accolta dentro di me come un dono. E questa voce si è levata come una fiaccola nel buio. E mi ha permesso di esplorare un mondo sull’orlo dell’abisso, un mondo in cui succedono cose spaventose, senza che tutto ciò mi atterrisse al punto da paralizzarmi. Strano potere delle voci. Di queste voci che si amplificano, incantano il tempo, si elevano a canto. Le voci che diventano canto.
In questi giorni mi sono chiesto da dove venisse il potere di questo canto, e così mi è tornata in mente Emily Dickinson, la nostra maestra più grande e più austera. In una lettera del 1862 scrive «Mi è presa una paura terribile – da settembre a questa parte – non potevo parlarne con nessuno – così canto, come il Ragazzino quando passa vicino al cimitero – perché ho paura». Ecco, nel momento di maggiore spavento Emily Dickinson canta come un bambino, e così contando si fa coraggio. Forse la letteratura è anche questo. Cantare nei luoghi più oscuri, cantare per farsi coraggio e non arretrare davanti a nulla. La cosa che mi commuove di questa lettera è che nel momento in cui inizia a cantare Emily Dickinson diventa un bambino. Come se canto e infanzia fossero intrecciati. Come se questo canto permettesse ai bambini di fugare le paure più grandi e riuscire a osservare il mondo che si dispiega intorno. Forse non è un caso se il protagonista del mio romanzo è un bambino. Perché questo bambino canta tutto il tempo, non arretra davanti a nulla, e possiede questi occhi nuovi, spogli, privi di pregiudizi, che gli permettono di cogliere la forza dolce e terribile della vita che accade.
In un’altra lettera del 1863, Emily Dickinson scrive «Non è una “Rivelazione” – questa – che ci attende, / Ma soltanto i nostri occhi spogli». È un’indicazione preziosa. Ci sta dicendo che anche nel mezzo di un’apocalisse, proprio lì dove le cose si rivelano, non c’è modo di cogliere nulla se non abbiamo occhi nuovi, spogli, privi di pregiudizi.
In definitiva, è un invito a modificare il nostro sguardo. È un invito a tornare bambini. È un invito a fare della nostra infanzia non un passato, ma un futuro. A sentire l’infanzia come un destino, come qualcosa che deve ancora compiersi. Solo così, riacquistando questi occhi nuovi, spogli, privi di pregiudizi, il mondo può rivelarsi per ciò che è. Un mondo infiammato dalla sorpresa, dalla meraviglia, dall’avventura. Un mondo traboccante di abissi e di misteri. Un mondo che non è dato una volta per tutte, ma che si rinnova costantemente. Un mondo fitto di tenebre in cui rilucono sempre le monetine di un qualche tesoro.
Se in alcune storie appartenenti al filone apocalittico-distopico la fine del mondo è accompagnata da un caos improvviso e violento, qui l’ultimo giorno del mondo sembra essere un evento sospeso, una minaccia che si fa attendere, il tempo si dilata generando così un’angoscia quasi più intensa della distruzione stessa.
Ecco perché un aspetto che mi ha particolarmente colpita è la narrazione del rapporto che il bambino ha con i suoi genitori, due figure angoscianti, disfunzionali, amorevolmente grottesche se vogliamo, ma comunque prigioniere degli eventi. Se nell’infanzia anche un’attesa del genere può diventare una fucina di avventure, l’età adulta è appiattita dall’incubo. Come hai lavorato alla costruzione del loro sgretolamento psicologico?
Non sono sicuro di aver lavorato in termini strettamente psicologici. Se non in superficie. Perché, sì, è vero, sotto la grande pressione di questo mare nel cielo i genitori del bambino compiono una serie di azioni riconducibili all’avvento di un’apocalisse. Tremano, piangono, urlano, si abbracciano, si chiudono in casa per stare sempre vicini. Però sviluppano presto altre azioni assurde se non paradossali. È come se una gioiosa follia li stringe al laccio, senza possibilità di sfuggirle. Che cosa succede quando i genitori decidono di dare alla luce un figlio nuovo, e proprio nel momento in cui l’alito della morte soffia più forte sui loro corpi?
Mi torna in mente una cosa che scrive Kafka in una lettera a Felice. «Basta con la psicologia!». Come tutte le cose di Kafka, anche questa viene a noi come una lezione difficile. Cosa ci sta dicendo Kafka in modo così categorico? Che la vita è una forza selvaggia, irriducibile, contraddittoria, che va oltre la ragione e la coscienza, e che non c’è modo di afferrare questa vita se si continua a pensarla in termini di logica, di economia, di razionalità, di causa-effetto.
In fondo, è quanto sostiene anche Freud, quando da qualche parte scrive che «L’inconscio è il cerchio maggiore, che racchiude in sé quello minore del conscio». Ecco, per avere a che fare con la vita nella sua terribile e luminosa interezza, bisogna tuffarsi dentro questo cerchio maggiore, perdendo per qualche tempo di vista le sponde di questa isoletta, dall’aspetto così concreto, eppure così evanescente, che è la coscienza, il cerchio minore.
Del resto, non ne facciamo esperienza ogni giorno? Noi pensiamo di possedere la nostra vita, pensiamo di possedere i nostri desideri e i nostri sentimenti, addirittura pensiamo di possedere il nostro corpo, e invece ne siamo continuamente posseduti, e sentiamo costantemente questa strana forza spingerci via, sbatacchiandoci qua e là, piegando le nostre azioni e i nostri discorsi in modi sempre imprevedibili, portandoci perfino dentro luoghi oscuri, che mai avremmo voluto visitare.
Messa così, non c’è grande differenza tra grandi e piccoli. In qualsiasi punto della vita ti trovi, con questa forza puoi solo misurarti e farci i conti, cavandosela per come si può, cercando ciascuno la propria strada e il proprio posto nel mondo. In fondo, seguendo Peter Pan, cosa siamo su questa terra se non tanti «bambini perduti» che cercano la propria strada e il proprio posto nel mondo? È una cosa che risale addirittura all’Odissea. Nel pozzo nero della sua cecità Omero aveva già visto tutto. «Così hanno decretato gli dei. Che, nel perdersi, ciascuno trovi se stesso».
Anche Kafka era un bambino perduto. E con la sua opera ci insegna che così come il realismo non esaurisce il reale, allo stesso modo la psicologia non esaurisce la vita. C’è sempre molto altro, c’è sempre il cerchio maggiore, c’è sempre qualcosa di non previsto che ci appartiene, ci sfugge e ci condiziona – e allora la letteratura può essere anche questo, un retino bucherellato che per qualche attimo trattiene tutti questi sciami di farfalle impreviste, la forza della vita che accade. Alla fine, cosa sono le fiabe, i miti classici, le tragedie greche, certi strani libri per l’infanzia come Pinocchio o Alice nel Paese delle Meraviglie, e tutte le molteplici invenzioni della letteratura, se non piccoli retini bucherellati dal manico d’oro che ogni volta, in modi sempre diversi, cercano di catturare queste strane farfalle?
Eppure, per tornare alla tua domanda, hai ragione. Bambini e adulti rispondono in modo diverso alla vita, e il modo in cui il piccolo protagonista del mio romanzo e i suoi genitori reagiscono all’avvento di un’apocalisse ne è prova ed esempio. Verrebbe da chiedersi perché, e per andare rapidi potremmo rievocare qui Carmelo Bene, lui diceva che ci sono due modi in cui si dà l’umano. Lo scherzo e il gioco. Lo scherzo ha qualcosa di torbido, di meschino, rivela sempre una malcelata aggressività, una strana voglia di sopraffazione. Il gioco invece è una cosa serissima, poiché fonda le regole di una realtà e dà modo di attraversare il mondo. Ecco, per Carmelo Bene lo scherzo è adulto, il gioco è bambino.
E i bambini, sempre, ovunque si trovino, hanno dalla loro la possibilità di ricorrere al gioco e ai suoi poteri. Il gioco è un modo per incantare il mondo, è un modo per ingannare l’attesa, è un modo per fare dell’attesa un luogo misterioso, carico di avventure, in cui nulla finisce, ma tutto è sempre da vivere e da conquistare.
Forse non è un caso se anche gli adulti, nei momenti più dolorosi, perfino a propria insaputa, usino il gioco per riaprire la gabbietta della propria vita. Non so se esiste in altre lingue, ma in italiano abbiamo un’espressione meravigliosa. Giocarsi la vita. Ecco cosa i bambini insegnano costantemente agli adulti. Che niente è dato una volta per tutte. Che ci si può giocare il mondo, che ci si può giocare la vita, che anche nei momenti più estremi il gioco non ci abbandona e un tesoro brilla da qualche parte per noi.
Il tuo è uno di quei romanzi che io chiamo ‘a imbuto’: dalla seconda metà in poi tutto diventa più claustrofobico, più blu, più incerto, più asfittico, più sudato. Ed è nel momento in cui quest’ossigeno emotivo comincia a scarseggiare che fa il suo ingresso un personaggio che non è meno potente e commovente del bambino protagonista: il signore delle acque. È un pesce in una boccia. Gli animali, con la loro semplicità (che ricorda l’infanzia) sanno sempre dare conforto…
Infanzia e animali sono un motivo ricorrente nei miei libri. La mia prima raccolta di racconti si chiama Tutti bambini, che già la dice lunga, lì c’è una nidiata di bambini che si avventurano dentro le storie più strane. Nel mio primo romanzo, Il cuore è un cane senza nome, una lunga e struggente storia d’amore è esplorata attraverso gli occhi di un cane. Nella mia seconda raccolta di racconti, I poteri forti, ci sono pappagallini parlanti, topolini parlanti, cani inferociti che si lanciano dai ponti.
In questo ultimo romanzo, Il signore delle acque, tutto è raccontato dalla viva voce di un bambino, e a un tratto fa la sua comparsa un pesciolino, di cui so parlare poco, ma che da subito, con la sua sola presenza, rende più luminoso il blu metallico e finale di un’apocalisse.
Cos’è tutta questa infanzia, cosa sono questi animali? Gilles Deleuze lo dice chiaramente. Infanzia e animali sono una parte costitutiva del nostro stare al mondo. Dentro ciascuno di noi è presente una molteplicità di possibilità, una molteplicità di divenire – e così il piccolo buio che ci portiamo dentro è popolato da un divenire uomo, da un divenire donna, da un divenire bambino, da un divenire animale, da un divenire pianta, da un divenire minerale. Se ti sembra di sentire l’eco di Ovidio, non sbagli. La vita si dà sempre per trasformazioni e metamorfosi. Noi non incarniamo un essere, qualcosa di stabile e definitivo, ma un divenire, una molteplicità di divenire, un processo in atto. Tra l’altro, come scrive Nietzsche, «tutto ciò che è definitivo è indizio di patologia». E la letteratura è anche questo, un’incubatrice e un acceleratore di divenire. Cadi in un libro, diventi di volta in volta Raskol’nikov, il capitano Achab, la signora Ramsay, il cane Argo, Hänsel e Gretel, Mowgli, Lady Macbeth, Julien Sorel, Jane Eyre, Archiloco, Medea, Lucignolo, Zanna bianca, e la tua identità assume una forma sconosciuta, consegnandoti a qualche strana scoperta.
Ma cosa comporta in particolare divenire bambini, divenire animali? E in che modo questi divenire sono profondamente intrecciati? Gli adulti guardano il mondo attraverso nomi, categorie, etichette, nozioni, definizioni. Anche davanti al mondo, non guardano il mondo, ma guardano ciò che già sanno del mondo. In questo modo, gli adulti sono figure della distanza. Tra loro e il mondo c’è sempre una distanza, una frattura, una faglia. E questa distanza è causata dal linguaggio. È come se tra loro e il mondo c’è sempre qualcosa di mezzo, e questo qualcosa di mezzo è la pellicola o la crosta del linguaggio depositata sulle cose. Così che, più che vivere nella foresta del mondo, qui si vive nella foresta dei segni del mondo, che è diverso. Certo, il linguaggio è una risorsa, perché permette di accedere al mondo e di conoscerlo, ma allo stesso modo ha una controindicazione, ha un effetto collaterale, e questo effetto è la separazione tra noi e il mondo.
Divenendo bambini, divenendo animali, tutto cambia. La pellicola del linguaggio si dissolve. Non ci sono nomi, categorie, etichette, nozioni, definizioni di mezzo. Il mondo è esperito direttamente, e tutto passa e vibra attraverso il corpo, la carne, i sensi. Così che bambini e animali sono figure della prossimità. Non c’è grado di separazione tra loro e il mondo. Sfrecciando nel mondo, scoprono di essere piccola parte misteriosa di un mondo ancora più vasto e misterioso. Così che il mondo davanti ai loro occhi non si divarica più tra soggetti e oggetti, soggetti che cercano di conquistare oggetti. Dove prima c’era separazione, ora c’è fusione. E questo ha una ricaduta particolare.
La vita dominata dal linguaggio è una vita affetta dalla malinconia, poiché il linguaggio produce sempre una separazione dal mondo, e questa separazione ha a che fare con l’idea che qualcosa sia andata perduta, magari per sempre. Mentre la vita segnata dal divenire bambino o animale, è una vita affetta dalla gioia, una gioia inarrestabile, perché in qualsiasi punto del mondo si arrivi, non c’è grado di separazione con il mondo, c’è sempre fusione. Il mondo si scioglie in te, tu ti sciogli nel mondo – e ciò inaugura un inarrestabile e persistente scambio di energia. È qui che appare la vita in pienezza. Una vita che trabocca da se stessa. Una vita come una ghirlanda vorticante di intrecci e connessioni. Una vita in cui si avverte che «La forza che nella verde miccia spinge il fiore / Spinge i miei verdi anni», direbbe Dylan Thomas.
(Mi rendo conto di aver semplificato troppo. La stilizzazione delle forme produce guai. Per amore di complessità bisognerebbe immaginare tutti questi divenire come un processo sempre in atto, e non solo in qualunque punto della vita, ma anche in qualunque punto del linguaggio, garantendo sempre un passaggio dalla distanza alla prossimità, dalla separazione alla fusione, dalla malinconia alla gioia. In fondo, ragionandoci su, che cosa sono l’amore o l’immaginazione se non le vie segrete per accedere a questo passaggio?) .
Ora, io non so se bambini e animali producano conforto, come accennavi tu. Può essere. Ma di certo sono una porticina aperta sulla gioia, una gioia stordente, la gioia di una vita vissuta in pienezza. Così che, come strategia vitale, bisognerebbe costantemente imparare a essere piccoli – una piccola cosa del mondo – per arrivare a questa gioia, a questa pienezza, a questa comunione con le cose del mondo. Proprio come scrive Nietzsche, «Saper essere piccoli. Come i bambini, che sono alla stessa altezza, si deve ancora essere vicini ai fiori, alle erbe e alle farfalle. Noi adulti, invece, siamo cresciuti molto più alti di loro e dobbiamo abbassarci fino a essi: quando dichiariamo il nostro amore per le erbe, esse di rimando ci odiano. Chi vuol prendere parte a ogni buona cosa, in certe ore, deve anche sapere essere piccolo».
Ti faccio una domanda che nel tempo è diventata un rituale all’interno di questa rubrica: immaginiamo un futuro che non vivremo e che non sappiamo se accadrà, immaginiamo mille anni di distanza. Non so chi o cosa esisterà, e in quale forma, ma se dovesse permanere ancora una traccia di ciò che oggi chiamiamo arte o letteratura, cosa racconterebbe di umano?
La letteratura, come la fisica quantistica, ci insegna che il tempo è un’illusione. Ne facciamo esperienza leggendo. Ci immergiamo nei grandi libri, libri che furono scritti nel segreto e nell’incoscienza, libri che furono scritti nell’indigenza e nella prostrazione, libri che furono scritti nel furore e nell’ebbrezza, libri che furono scritti in separazione dal mondo e in fusione col mondo, e improvvisamente abbiamo la sensazione che questi libri stiano parlando di noi, proprio di noi, noi con questa faccia, questi occhi, queste mani, schiarendo un poco l’oscurità che ci portiamo dentro.
La rivelazione è tale che, a volte, leggendo, battendo i denti dal terrore e dalla meraviglia, le risa affiorano alle labbra, le lacrime sgorgano dagli occhi, e una serie intermittente di fitte intercostali ci restituiscono l’idea che i nostri nervi tesi allo spasimo siano dei fili telegrafici che propagano un strano messaggio, un messaggio che viene da lontano, da luoghi ed epoche sconosciute. Come facevano tutti questi scrittori e poeti a sapere qualcosa di noi?
Come facevano a prefigurare la nostra esistenza, le nostre esitazioni, i nostri entusiasmi, le nostre cadute, i nostri tormenti? Forse che i grandi libri, più che in un passato, sono stati scritti in un futuro ancora da venire? Forse che scrittori e poeti, esplorando le proprie oscurità, hanno imboccato una rete di strani cunicoli, cunicoli che li hanno spinti proprio qui, sulla soglia della nostra vita? Forse che il buio che ci portiamo dentro, e che questi grandi libri riescono a rischiarare, è una caverna misteriosa, provvista di cunicoli sotterranei, a loro volta intrecciati a un fitto e vastissimo dedalo di cunicoli diramati, che ci collega ad altre caverne misteriose, cioè a tutti coloro che hanno già vissuto, che stanno vivendo o che vivranno?
Forse che la letteratura è una strana mappa, per metà bianca, ancora da segnare, che ci permette di esplorare questa oscurità, facendoci muovere su e giù nei cunicoli del tempo, facendoci entrare nella vita di chiunque, consentendoci con poche mosse di passare dalle grotte di Lascaux, tutte graffiate dalle figure di animali preistorici, a grotte ancora più sofisticate ma pur sempre grotte, la pancia di stormi di navicelle spaziali, piene di bottoncini colorati, lanciate nell’infinita oscurità del cosmo, mentre l’umanità, aggiornando la sua odissea, sta cercando nuovi pianeti in cui far sbocciare il sangue di nuovi bambini e le foglie di nuovi alberi da cui penderanno i frutti di antichissime e nuovissime conoscenze?
E se è così, se il tempo è un’illusione, se la morte è un’illusione, se è sempre tutto vivo, se tutto ciò che accadde nel passato continua a toccarci, se tutto ciò che accade nel futuro continua a toccarci, se scrivere e leggere ne sono prova e rilancio, cos’altro è la vita se non una forza prodigiosa, un’energia prodigiosa, che si propaga incessantemente, come una ghirlanda che non finisce di espandersi, intrecciarsi e vorticare?
Scrive Matteo nel Vangelo, «Non preoccupatevi dunque del domani, perché il domani si preoccuperà di se stesso». Ed è così. Finché ci saranno donne, uomini, bambini e bambine niente di tutto ciò sarà perduto, e continueremo a scrivere, e continueremo a leggere, e continueremo ad esplorare le nostre e le altrui caverne misteriose, e forse, chissà dove e chissà quando, imboccando questi strani cunicoli, io, te, e tutti coloro che vissero, che vivono e che vivranno ci incontreremo, ci riconosceremo, ci prenderemo per mano, e così intrecciati, senza esitazioni né paure, facendo del nostro amore e della nostra immaginazione una pista da inventare e da percorrere, continueremo a camminare, senza fermarci, nel buio più profondo e interstellare.
Infinite Quest, una rubrica di Giulia Bocchio
In copertina: Johan Thomas Lundbye, Nuvole piene di pioggia sopra Flyvesandsbakkerne e il lago Arresø, 1838


Una replica a “Infinite Quest: Il signore delle acque – Dialogo con Giuseppe Zucco”
[…] salita. Ha un libro gemello – o forse non proprio gemello, ma sicuramente affine – Il signore delle acque, di Giuseppe Zucco. Ancora acqua, ancora una volta la fine, ancora quella sensazione di sospensione […]
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