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Vagando tra gli abissi del Tenderloin: William T. Vollmann, Puttane per Gloria (di Mauro Massari)

Durante le ricerche per Whores for Gloria, William T. Vollmann ha riunito alcune prostitute chiedendo loro di immaginare come sarebbe stata the Queen of the Whores, la Regina delle Puttane. Sì, l’ha fatto davvero. Ed è solo uno dei tanti aneddoti che gravitano attorno la figura di Vollmann, alcuni dei quali rasentano il kafkiano. Uno dei più ambiziosi scrittori americani contemporanei che definire poeta underground suonerebbe melenso e retorico quanto quella frutta conservata in barattolo immersa nel miele. Meglio lo vestono i panni del vagabondo postmoderno che scrivendo restituisce un senso di rassegnata impotenza nel tentativo identificare il reale. Libri, i suoi, che sono una partita al rialzo costante, spinta estrema al limite del credibile. E lo stesso può dirsi della sua biografia. Infiltrato come reporter tra i mujaheddin afghani, vincitore del National Book Award, frequentatore incallito dei quartieri malfamati, raggiunge forse l’apice della sua stessa leggenda quando viene indagato segretamente dall’FBI che cercava di dare un volto a Unabomber, sospettato di essere il bombarolo che quarant’anni fa terrorizzò gli States.
Minimum Fax riporta in libreria l’autore di Santa Monica con Puttane per Gloria, nella traduzione di Antonio Scurati. 

 

 

Jimmy è un reduce del Vietnam, un alcolista, un tossico. Un sociopatico che vaga le insegne luminose del Tenderloin, tra le strade fumose di una San Francisco anni Novanta. Jimmy riceve un’esigua pensione: ci paga l’affitto, la birra e le puttane. Jimmy, quando non è stravaccato su un materasso lercio nello squallido motel dove vive, lo si trova seduto al Black Rose, un bar illuminato da una calda luce rossa, frequentato da squillo, travestiti, papponi e avventori del buio. Jimmy è alla ricerca di quello che ha perso, Gloria. Gloria, la puttana perfetta, la Donna per eccellenza, la fantasia maschile con «un seno diabolicamente bello». Già dalle prime pagine però, mentre Jimmy le parla con voce bassa e gentile del bambino che avranno presto, e piange, con la cornetta di un telefono pubblico rotto da settimane tra le mani, ci si chiede se Gloria esista davvero. Inizia quindi l’odissea urbana, fradicia di solitudine, di un uomo in cerca di amore e redenzione tra la disperazione e acuti di auto distruzione. Jimmy ha un solo modo per ricreare l’immagine di questa Beatrice dantesca della notte, una sola possibilità per placare i suoi tormenti: andare a puttane. 

E non gli bastano i rapporti carnali incendiari di terrori ipocondriaci («chissà se mi ha attaccato qualcosa, si chiede Jimmy. Non riusciva a smettere di pensarci. Aveva una pustola nera sul pene e le palle gli prudevano.») no, Jimmy ha bisogno di storie e feticci. Ciocche di capelli, mutandine usate e tutti i racconti, felici e tristi (quelli tristi, sono tristi per davvero) che riesce a raccattare nel giro di questo carosello infernale e delirante.

Ma è proprio nei ritratti delle prostitute che risiede la forza di questo romanzo, nel romanticismo funesto, afflitto, dietro tutti questi spaccati di umanità. C’è Nicole con l’AIDS «consumata come una gomma da cancellare» e Phyllis, una vecchia squillo transessuale «Hai mai guardato la mano di una vecchia puttana di strada? Grinze sporche e screpolate, profonde come tagli, polpastrelli callosi e sbucciati, il pollice d’un colore fra il grigio e il nerastro, ma tutta la mano è così pallida sotto lo strato di lerciume, così magra e stanca, come il polso da cui parte una fila di lividi ed ecchimosi… Quella mano ha lavorato duro per dare l’amore a sconosciuti, o per dar loro ciò che quegli sconosciuti chiamano amore».

E poi Cynthia, Corea, Candy, e tutte le altre che se ne stanno sdraiate sui cofani delle auto parcheggiate, con le minigonne alzate sulle cosce e i sorrisi ammiccanti, con un bisogno cieco di dollari per bucarsi.
E ancora Dinah e Jack che stanno insieme e vivono avvolti da un sudario di miseria tanto profonda e reale da apparire viva tra le pagine, come avesse odore e materia. «Il momento più triste era quando Dinah rideva o faceva un gran sorriso mentre se ne stava sul letto a gambe spalancate, come se si potesse veramente essere felici in quella stanza piena di sporcizia e di vapore, con il termosifone che fischiava e sferragliava. Il letto era costituito da tre materassi buttati a terra, il cassettone mancava di un cassetto ed era coperto da un pidocchioso cencio di stoffa, le pareti erano spoglie. Seduto sul letto, Jack si sparò in vena una miscela di eroina e cocaina, Dinah sbadigliò e si grattò la fica che le prudeva».

Superficialmente, si potrebbe avere a un certo punto della lettura l’impressione di trovarsi in una vecchia cantina malmessa tra cianfrusaglie âgée che al presente danno poco altro, se non l’ingombro e il fastidio di doversene liberare. Eppure Jimmy, con le sue ossessioni private, alla ricerca inconcludente della propria identità, non potrebbe essere più attuale. Un ectoplasma metropolitano che si chiude alle spalle «porte mezze marce», un invisibile, è l’uomo malconcio che ti siede accanto in metro con una bottiglia mezza vuota di whisky a buon mercato che spunta dallo zaino, è in fila alla posta, con lo sguardo assente e i vestiti sgualciti, un numero prima del tuo.

Il linguaggio del romanzo è schietto e provocatorio, scorretto al limite del concesso, ma nel contesto, se così non fosse, sarebbe come ritrovarsi a mangiare escargot senza una buona Borgogna, qualcosa sulla tavola mancherebbe. Un po’ Ultima uscita per Brooklyn di Hubert Selby Jr, un po’ una ballata di Lou Reed, con lampi e tuoni Bukowskiani (del buon vecchio Charles, nelle sue giornate peggiori) senza la pioggia.
Vollmann ha trasformato quelle che sembrano voci di fantasmi uscite da un vecchio registratore portatile a cassette in una poesia lirica di strada recitata con straziante intensità.

 

Di Mauro Massari

 


In copertina: Le signore si divertono, Enrico Robusti


 

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