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Nella polpa della perdita: Invernale, Dario Voltolini (di Giulia Bocchio)

Il dito si salva dal bisturi e continua con il corpo di cui ha sempre fatto parte,
ma la sua capacità di articolarsi non esiste quasi più.
Lui non essendo un pianista, torna al lavoro.

 

 

Invernale (La Nave di Teseo), di Dario Voltolini, è un romanzo scritto attraverso un utilizzo non chirurgico di un assortimento di lame tutte diverse fra loro e non per ferire, ma per tratteggiare un perimetro esistenziale apparentemente imprendibile: quello di un genitore e, nello specifico, di un padre. Che muore d’estate. L’estate è fatta così, ti sottrae sempre qualcosa.

Racconta una perdita, Voltolini, senza mai cadere nel lutto, perché perdita e lutto sono due correlati solo apparentemente inseparabili. Il secondo è l’abito che abbiamo dato alla prima e non solo in senso figurato. È la perdita ad aprire quel varco che chiamiamo non esistenza, non il lutto, il lutto di solito è pieno di gente viva.
Anche il mercato in cui lavora Gino Voltolini è pieno di gente che deve accaparrarsi il miglior taglio di carne per il pranzo della domenica. E il banco è una vetrina di pezzi assortiti di animali morti che una volta cotti creeranno convivialità e pance gonfie, stimoleranno la lingua in una danza atta a liberare un frammento di carne dagli spazi interdentali, non orrore.
Le ossa di questi cadaveri appesi in fila sono dure, schegge compatte, ma i loro corpi ancora (quasi) interi non hanno la rigidità dei morti, sono polpa lucida, sono materia da trasformare e lo si fa solo con i coltelli giusti, con i movimenti giusti, con la conoscenza giusta, dettata dall’esperienza, dal metodo, dalla ripetizione, che è la stessa da decenni. Ma anche la mano più esperta, per un movimento distratto, per una frazione di secondo, può deviare traiettoria ed ecco che la lama taglia anche la tua di carne.
La ferita di Gino è profonda, pulsa, per un certo tempo il dentro comunica con il fuori, il perimetro di quel padre diviene frastagliato; anche se il sangue di una persona viva non si mescola davvero a quello di un animale morto, quello è primo contatto fra esistenza e non-esistenza.

Dario, il figlio, racconta l’inesorabile come un osservatore attento e il suo sguardo si trasforma in una soglia, quella che precede un attraversamento senza possibilità di ritorno. Ma c’è ancora tempo, ovvero una latenza che è riempita da un senso di stanchezza che è una nebbia apparente, c’è, ma è ancora possibile vedere attraverso di essa, e c’è ancora il lavoro con i suoi orari, che rimangono gli stessi. E poi c’è la città, Torino, i suoi palazzi, le sue strade, i suoi semafori, cominciano a emanare una luce diversa, a rivelare qualcosa di non notato prima, una porosità nuova si insinua fra l’interiorità di Gino e il mondo esterno. L’affaticamento misterioso ha un’azione carsica ma è difficile da rintracciare, c’è qualche asterisco sui referti, ma tutto è di difficile interpretazione, servono approfondimenti, confronti, dati da sovrapporre e  incrociare. E quando è così difficilmente le notizie sono buone.

 

Francisco Goya, Il banco di un macellaio, Museo del Louvre

Di fronte a malattie che hanno nomi impronunciabili sul momento, ma che diventano indimenticabili nella memoria umana di chi le incontra, anche la famiglia di Gino dovrà fare i conti con un’anatomia che si scopre esistere solo quando qualcosa si inceppa, e degenera. Bisogna fare qualcosa, il vuoto che genera la notizia lascia spazio allo smarrimento, un sentimento strettamente correlato alla ricerca di un appiglio: bisogna trovare una cura, tentarla almeno, affidarsi a un buon istituto, ovvero il più aggiornato. In effetti uno c’è. Si trova a Parigi.
Cominciano per Gino e la sua famiglia lunghi viaggi in una capitale che non vedranno mai davvero, treni e metropolitane piene di gente apparentemente uguale a loro, ognuno con i propri intestini, chilometri di vene e arterie che non sai dove porteranno, quali scorie trasportano, quali cellule impazzite stanno invadendo spazi non consoni, non prestabiliti dall’armonia biologica che dovrebbe abitarci. Sarebbe un’avventura, se solo questo padre non fosse malato. Sarebbe interessante il Louvre se solo le facce contorte di certe tele barocche non rimandassero alla figura di lui invaso dalla vincristina. Che funziona per un certo breve periodo, poi gli effetti superano i benefici e la scienza dà il braccio alla metafora nella mente di Dario, che immagina una battaglia serrata fra farmaci e cellule, una trincea che finisce nel sangue. Non vince nessuno a Villejuif.

Ma in tutto questo Gino rimane una figura imprendibile, conosciamo di lui una delle condizioni più intime e private dell’esistere e di com’è andata a finire, ma non è un Père Goriot, non è questo il tipo di racconto, c’è in Dario Voltolini una sorta di sospensione, un modo di scrivere che sembra dire: “Facciamo piano, che non si accorga di noi che lo stiamo osservando”, ed è un sentimento fortissimo, complesso, sussurrato. Il dolore della scrittura è composto, non cede per un solo attimo alla morbosità del dettaglio che ci vuole lì a vedere cosa succede, come si contorce, quali espressioni assume, che tipo di pelle ha adesso, quale aspetto, quanto profonde le occhiaie, quanto gonfi i piedi, il ventre, le mani, il volto. Nulla di tutto questo, che è profano, grottesco, inutilmente voyeuristico, una maschera della malattia; Dario Voltolini sfiora l’attesa, prova a cadenzarne le fasi, a comprenderne il processo e c’è sempre lui in filigrana, suo padre, la sua vita passata, il calcio in tv, gli oggetti che tocca, la sua stanza da letto, il suo banco al mercato, Torino, la sua auto, Salvatore. E poi l’epilogo, cinquant’anni e cinquantadue giorni dopo essere nato, in uno spazio in movimento, finito fra gli apparentemente infiniti chilometri di strada che separano la Francia dall’Italia. Un altro viaggio senza ritorno.

Vedere una persona che ami morta e non vederla morire, qual è la vera differenza? Esiste, una differenza? Cosa lascia l’una e non l’altra, e viceversa, nell’intimo di un figlio? La risposta di Gino, quella letterale, e quella di Dario, letteraria e umanissima, sono racchiuse nelle ultime, potentissime, pagine di questo romanzo.
E lì riposano.

 

 

Di Giulia Bocchio

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