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Ritorno a Primo Levi: I sommersi e i salvati, oggi (di Omar Suboh)

«Per mia fortuna, sono stato deportato ad Auschwitz solo nel 1944», scrive Primo Levi nella prima pagina del suo ultimo libro, I sommersi e i salvati, pubblicato nel 1986: la conclusione di una ideale trilogia dedicata all’inferno dei campi di concentramento nazisti, inaugurata con Se questo è un uomo, del 1947, e proseguita con il romanzo La tregua, uscito nel ’63. La citazione è tratta dalla prefazione inclusa nel suo primo romanzo, una attestazione di amara verità, perché conseguenza di una realtà compresa a posteriori: la sospensione temporanea dell’uccisione arbitraria dei singoli e, per mancanza di manodopera, l’allungamento della vita media dei prigionieri a partire da quell’anno. La consapevolezza che, per una differenza di pochi mesi, la sua testimonianza, la sua opera di scrittore autentico – distinzione a cui ha sempre tenuto, affinché il valore artistico dei suoi libri, non si esaurisse nelle maglie troppo strette della categoria di testimone –, avrebbe potuto non vedere mai la luce.

Chi sono i salvati? Sono i sopravvissuti ai Lager nazisti: «il massimo crimine nella storia dell’umanità»; chi sono i sommersi? Gli unici testimoni integrali. Un fenomeno eminentemente politico, come quello della pianificazione dello sterminio, si manifesta anche quando la verità su quello che sta accadendo in un paese non viene diffusa. In Germania c’era chi sapeva, perché chi possedeva uno sfondo culturale forte aveva tutti i mezzi a sua disposizione per interpretare i fatti a cui stava assistendo. Primo Levi, dalle prime pagine, riflette su questo punto per approfondire la più ampia questione del senso di colpa collettivo del popolo tedesco: i «non so», i «non sapevo», per continuare a porsi la domanda di fondo, quella più importante di tutte: «Quanto del mondo concentrazionario è morto e non ritornerà più? Quanto è tornato o sta tornando? Che cosa può fare ognuno di noi, perché in questo mondo gravido di minacce, almeno questa minaccia venga vanificata?».

 

 

Mentre scrive, scorrono le immagini atroci della guerra in Vietnam, degli scomparsi in Argentina, dell’invasione del Libano da parte di Israele – basterebbe rileggere il suo appello contro la politica di Menachem Begin, o l’intervista concessa a «la Repubblica», quando alla domanda se fosse possibile paragonare la condizione dei palestinesi alle persecuzioni ebraiche, Levi afferma chiaramente le analogie già presenti all’epoca (siamo negli anni Ottanta), e ne denunciava con forza, e sgomento al contempo, la direzione sempre più orientata verso una vocazione nazionalista e militarista dello Stato israeliano; motivo per cui, Primo Levi, non si dichiarò mai sionista, riconoscendo l’anima del suo popolo, lo spirito più essenziale, nella Diaspora, e non nella fissità di una patria dai contorni definiti –.
Il primo capitolo si inaugura con una questione tra le più importanti, quella della memoria.
Come (ri)trovare il proprio posto nel mondo dopo quello che si è vissuto? «Chi è stato torturato rimane torturato», scrive il filosofo austriaco Hans Mayer, in arte Jean Améry, torturato dalla Gestapo e deportato come Levi ad Auschwitz: «Chi ha subito il tormento non potrà più ambientarsi nel mondo, l’abominio dell’annullamento non si estingue mai. La fiducia nell’umanità, già incrinata dal primo schiaffo sul viso, demolita poi dalla tortura, non si riacquista più». Riecheggiano ancora le parole del generale Adolf Eichmann durante il processo raccontato da Hannah Arendt, «eseguivo gli ordini», ed è proprio questo il punto da cui vuole incominciare la sua analisi, cioè su come si fabbrica una realtà di comodo per ridimensionare l’accaduto, per continuare a convivere con sé stessi nonostante tutto.
Più ci si allontana dagli eventi raccontati nel tempo, e più si accresce e si perfeziona la costruzione della verità, con tutto il correlato che ne consegue: falsificazione di dati, la negazione parossistica dei fatti, dei morti, della deportazione obbligata – Levi riporta il caso di Luis Darquier, giornalista e politico francese, negazionista degli eventi in corso mentre operava –. Ci si interroga su chi, per vivere in pace, arriva a mentire anche in privato.  

Quali sono le armi del consenso, in uno Stato totalitario? La propaganda diretta, o camuffata da educazione di un popolo – come non pensare al film del regista israeliano Yoav Shamir, dal titolo Hashmatsa  (reso in Europa con Defamation), dove seguiamo i processi di condizionamento dalla scuola fino all’età adulta in Israele, il senso di persecuzione radicale che viene introiettato dalla nascita genera un profondo senso di insicurezza che si instilla nelle giovane menti, condizionandoli dal principio –; lo sbarramento opposto al pluralismo delle informazioni; il terrore – come non pensare al caso della giovane donna ebrea obiettrice di coscienza, Sofia Orr, che, arrivata al centro di reclutamento dell’esercito vicino a Tel Aviv, si è rifiutata di prendere parte al servizio militare (obbligatorio in Israele), contro l’attuale guerra in corso a Gaza, e per questo arrestata nel carcere militare di Neve Tzedek (ma non è di certo l’unica dall’inizio della occupazione militare della Striscia di Gaza e della Cisgiordania, come mostra il film Objector di Molly Stuart, per citarne uno, che segue da vicino le vicende di Atalya, determinata a non prendere parte alla leva e, per questo, incarcerata).

L’intera storia del breve Reich millenario è quella di una guerra intrapresa contro la memoria, la sua «falsificazione orwelliana».
In questa direzione Levi si sofferma su uno dei temi più delicati, quella che chiama la «zona grigia», per riaffermare la necessità di impedire di ridurre la storia in una contrapposizione manichea che divide i «buoni» dai «cattivi», «noi» contro «loro», pur riconoscendone una irriducibile presenza nella condizione umana, da sempre, legata sia alla storia popolare di una nazione sia alla scuola. Per farlo, si serve di una analogia efficace: il desiderio di giustificazione della semplificazione dei programmi scolastici, o dei proclami governativi, sono come le partite sportive, quando l’unico risultato che conta è averla vinta sul proprio avversario per portare a casa il risultato.

In questo modo viene bandita la complessità, non c’è più posto per le sfumature, ma il mondo dei Lager rimane indecifrabile. Un esempio in questo senso è la distinzione che avveniva nei campi tra prigionieri semplici e privilegiati: il nuovo arrivato – Zugang, che rimanda al significato di «ingresso» – era sottoposto a scherzi degni di una caserma, scrive Levi: la vita, e i suoi comportamenti, regredivano a quelli di atti primitivi. I prigionieri funzionari, che prendevano il nome di Sonderkommandos – le Squadre speciali –, dovevano «estrarre dalle camere i cadaveri; smistare e classificare gli abiti, le scarpe, il contenuto dei bagagli; trasportare i corpi ai crematori e sovrintendere al funzionamento dei forni; estrarre ed eliminare le ceneri», e di estrarre i denti d’oro dalle mascelle. La «zona grigia» si manifesta qui: perché a farlo erano sopratutto ebrei stessi, per la maggior parte: questa doveva essere la dimostrazione più evidente che, essendo sotto–uomini, si sarebbero piegati ad ogni umiliazione possibile.
Ma porre l’accento su questo non equivale a confondere i carnefici con le vittime, a renderli interscambiabili – in particolare, Levi si scaglia contro il film della regista Liliana Cavani che, ne Il portiere di notte, ricorre all’inconscio e alla psicanalisi per confondere le acque, più per un vezzo estetistico che per reale convinzione –: confondere i ruoli significherebbe mistificare la Storia.

«Non è facile né gradevole scandagliare questo abisso di malvagità, eppure io penso che lo si debba fare, perché ciò che è stato possibile perpetrare ieri potrà essere nuovamente tentato domani, potrà coinvolgere noi stessi o i nostri figli. Si prova la tentazione di torcere il viso e distogliere la mente: è una tentazione a cui ci si deve opporre», scrive Levi, provando a rispondere alla domanda che egli stesso si pone: cioè se l’estensione del dolore da cui la pietà è suscitata, e quella provata che ne consegue, siano misurabili: «se dovessimo e potessimo soffrire la sofferenza di tutti, non potremo vivere».
La febbre della civiltà occidentale, la sua follia, è sempre la stessa che fa piangere gli angeli mentre gioca a fare la guerra, sotto il cielo, mentre si scorda che siamo tutti dentro al ghetto, ogni giorno rinsaldiamo il nostro recinto venendo a patti con il potere, ma fuori di esso stanno i signori della morte, mentre aspettiamo il treno.

Cosa rimane, radicato nel profondo, dopo una esperienza così feroce?, un sentimento di vergogna per quello che si è vissuto, una angoscia metafisica che tutto pervade, la stessa che ha portato molti, a distanza di anni, a compiere un gesto estremo, scegliendo – finalmente liberi di farlo – il suicidio, come lo stesso Levi farà nella sua Torino. «Avevamo dimenticato non solo il nostro paese e la nostra cultura, ma la famiglia, il passato, il futuro che ci eravamo rappresentato, perché, come animali, eravamo ristretti al momento presente. Da questo appiattimento eravamo usciti solo a rari intervalli», scrive, perché all’interno dei Lager non c’era scelta, nemmeno quella deliberata di togliersi la vita, perché quando si muore si ha ben altro a cui pensare che alla morte, aggiunge citando Italo Svevo ne La coscienza di Zeno. Il sentimento di sentirsi come un eletto, un testimone, non allevia dalla condizione in cui ci si trova, nemmeno con la quiete, ma l’angoscia, e la vergogna, perseguita le sue vittime ancora – Levi evoca l’immagine biblica della tòhu vavòhu, un deserto senza forma con il vuoto intorno –.

Qual è la volontà che anima l’autore nella scrittura di questo libro?, quella di non ripetere più le atrocità dei Lager, in prima istanza. Ma consapevole, al contempo, che il dolore è la sola forza che si crea dal nulla, senza spesa né fatica, basta non vedere, non ascoltare, non fare nulla. Per impedire che l’incubo della Storia ritorni, sono necessarie tutte le facoltà umane migliori, tra cui quella della comunicazione. In particolare, Levi si scaglia contro una certa tendenza, molto in voga, in quegli anni, che afferma l’incomunicabilità come cifra portante della condizione umana – in particolare, pensa ad alcune sequenze del Deserto Rosso, ma in generale a tutta la tetralogia di Michelangelo Antonioni dedicata al tema – : è un mostro linguistico, il valore della testimonianza, e quindi della parola, non esisterebbe senza la possibilità di comunicare, di interagire con gli altri. La teoria della monadologia di Leibniz è un errore a cui non bisogna cadere, per preservare il patrimonio lessicale che consente l’apertura verso mondo nuovi.

Le pagine dedicate alla violenza sono tra le più cruenti dell’opera. In particolare Levi si sofferma su quella che chiama una inutile crudeltà: tra gli esempi a cui ricorre, come testimone, c’era quella dei trasporti ferroviari nazionalsocialisti, organizzati appositamente per «autosaccheggiare» gli stessi ebrei che, costretti, trascinavano con sé i loro beni che poi sarebbero stati trasferiti al Reich; con nessuna provvigione a loro disposizione, stipati nei vagoni, con una unica «gamella» dove si svolgevano i bisogni corporali e si mangiava dalla stessa. La deliberata creazione di un dolore fine a sé stesso, la stessa che sembra animare le immagini che accompagnano l’arrivo di aiuti umanitari nella Striscia di Gaza, con i suoi abitanti costretti a sgomitare per ottenere qualcosa, tutti accalcati – come nei vagoni di cui ci racconta Levi –, e i bombardamenti che sono seguiti al loro arrivo, con morti feroci, spesso, o quasi sempre, a danno di donne e bambini. Primo Levi è il primo a parlare di una diffusione della disumanità come paradigma, a dimostrazione che il monito che grida Restiamo umani non è una invenzione recente.

Per un nazista ortodosso doveva essere ovvio, chiaro e limpido, che tutti gli ebrei dovessero essere uccisi. Era un dogma inconfutabile, un postulato. Anche i bambini, specialmente le donne incinte, affinché non nascessero futuri nemici dalle loro pance… La massima afflizione non doveva risparmiare nessuno, nemmeno le novantenni moribonde, come testimonia nel libro, la stessa afflizione metodicamente indotta che travaglia il processo creativo dell’inventore delle camere a gas: Rudolf Höss. Il lavoro non retribuito, l’eliminazione degli avversari politici, lo sterminio delle cosiddette razze inferiori – Rom e Sint, omosessuali e disabili ecc. –, una indistinta materia bruta di cui i resti umani sono un lontano ricordo. Come non pensare al recente film di Jonathan Glazer La zona di interesse, tratto dal libro di Martin Amis, in particolare alla sequenza che proietta lo spettatore nel museo di Auschwitz, nella contemporaneità, mentre assistiamo alla pulizia dei suoi corridoi e delle sue vetrine, e intanto vengono lucidate le vetrine che contengono quei resti di materia bruta: scarpe, indumenti, resti che continuano a mormorare al visitatore la loro accusa silenziosa.
Guidato da una prosa chirurgica, mossa sempre nella più piena Luzidität, Levi è scrittore immenso in queste pagine che sembrano scritte oggi, come quando ragiona sulla possibilità di vivere senza una identità, la cui assenza coincide con la scomparsa della dignità – sembra di leggere le parole del poeta di un’altra diaspora, quella palestinese, Mahmoud Darwish del Diario di ordinaria tristezza o di Memoria per l’oblio –, per tutti, quando questa viene negata con la violenza, i soprusi, il razzismo di Stato – come non ricordare le pagine dello Stürmer, quando gli ebrei erano rappresentati come parassiti pelosi, grassi, con le gambe storte, il naso a becco e le orecchie a sventola –. Chi fa a pugni con il mondo intero ritrova la sua dignità, ma la paga a caro prezzo. 

Il ruolo dell’intellettuale, in questa direzione, è fondamentale. Perché gli «incolti» sono quelli che si adattano prima alle circostanze, accettando il corso degli eventi come un dato incontrovertibile, non cercano di capire né si sforzano in alcun modo di farlo. Lo stesso rifiuto della realtà che accompagnava molti deportati, e, al contempo, l’eccesso di comprensione che conduceva alla disperazione gli altri. Ma non tutti gli intellettuali, come ben sappiamo – e sapeva anche Levi, citando vari esempi nel libro –, si sono opposti storicamente allo stato di cose, anzi!, in generale l’intellettuale tende a essere hegeliano: giustificazionista della realtà, come fossero un dato naturale le società umane, perché tutto ciò che è reale è razionale. Ma come scrive Edward Said, intellettuale palestinese professore alla Columbia di New York, in Dire la verità (Feltrinelli, 2014), l’intellettuale ha la possibilità di schierarsi, mentre è diviso tra due poli estremi: contrapposti alle norme imperanti in un dato momento storico, oppure svolgere la funzione di assicurare l’ordine e favorirne la continuità. «È mia convinzione che soltanto la prima di queste due possibilità confermi l’intellettuale moderno nel suo autentico ruolo (di contrastare le norme dominanti), proprio perché tali norme oggi sono intrinsecamente connesse con la nazione (in quanto imposte dai suoi vertici) e la nazione è sempre trionfalistica, sempre in posizione autoritaria, esige sempre lealtà e sudditanza e non la ricerca intellettuale, l’indagine continua di cui parlano Virginia Woolf e Walter Benjamin», scrive Said.
La difesa della propria comunità non può mai essere offuscata dalla fedeltà al suo popolo, perché ciò che ne consegue è l’intorpidimento del senso critico: «L’intellettuale che rappresenta le sofferenze del suo popolo, e forse di sé stesso, non per questo può sottrarsi all’obbligo di denunciare i crimini che quel popolo commette a danno delle sue vittime», aggiunge, allo stesso modo in cui Primo Levi, come Said, riteneva fosse suo compito trasformare la propria voce in enunciazione collettiva, patrimonio comune che ha ottenuto il consenso generale, per citare Gilles Deleuze, per ristabilire la necessità di stabilire i legami esistenti tra orrori subiti e i tormenti degli altri, per non dimenticare in futuro. 

Esiste un gap, un abisso ontologico, tra la rappresentazione delle cose e il loro svolgimento effettivo, una tendenza allo slittamento verso la semplificazione e lo stereotipo. Levi invitava i suoi lettori alla costruzione di argini culturali contro queste pericolose derive. Liberarsi dagli stereotipi è necessario per evitare di non accorgersi, quando è già troppo tardi, dello stato delle cose. Nonostante le minacce ci appaiano evidenti, oggi più che mai, al tempo dei Lager essere erano come velate da una incredulità voluta, dalla rimozione, per accogliere verità consolatorie. Eppure, oggi come ieri, le preoccupazioni sembrano sempre le stesse: «Quanto sicuri viviamo noi, uomini della fine del secolo e del millennio? E, più in particolare, noi europei? Ci è stato detto, e non c’è motivo di dubitarne, che per ogni essere umano del pianeta è accantonata una quantità di esplosivo nucleare pari a tre o quattro tonnellate di tritolo».
La domanda rimane: come sopravvivere alla nuova configurazione del mondo? Oggi, assillati dagli stessi problemi di ieri, è sempre più utile tornare a queste pagine, perché il monito di Levi è più vivo che mai. Ciò che è già successo può riaccadere, proprio perché è già successo. In questo consiste il significato più profondo dell’opera. La violenza dilaga, la percezione del valore della vita sembra sempre più basso, ai minimi storici – almeno per certi paesi, in particolare a Gaza –, la voluttà di potere, il fanatismo politico e religioso, gli attriti razziali: tutto sembra ripetersi nel ciclo dell’eterno corso e ricorso della Storia.

Forti della consapevolezza che «dalla violenza non nasce che violenza, in una pendolarità che si esalta nel tempo invece di smorzarsi», la scomparsa del «timor di dio», che ancora sembrava conservarsi all’inizio del XX secolo, investe l’oscurità del nostro tempo, da così tanto che sembriamo ormai muoverci al buio, annaspanti in un oceano di incertezze.
Tornare a Primo Levi, (ri)leggerlo ancora, significa forgiarsi contro tutte le guerre attuali e future, contro la tendenza latente che rimuove la sua follia suicida, e ci consegna nelle mani dei falsi profeti, e degli incantatori.

 

Di Omar Suboh

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