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Est-etica di un trasloco, di Annachiara Mezzanini

Dalla finestra aperta entrò un sottile alito di vento che, timidamente, si mosse  nella stanza vuota, in avanscoperta. Toccò le pile di libri ai lati del tavolo, i fogli sparsi con annotazioni e bozze di ritratti rosso sanguigna. Si posò sul vaso in ceramica bianca e celeste, regalo di qualche zia, che conteneva gonfie peonie color porpora. Girò attorno alla mobilia che riempiva la stanza, un vortice leggero mosse le pagine aperte di Gita al faro, per ricadere poi a terra, stanco dalla visita appena fatta, lieto di non esser stato risucchiato dentro al corpo di nessuno.
Quando entrai in soggiorno, avvertii lo strascico di quella corrente d’aria toccarmi la pelle, che istintivamente si accapponò dietro la nuca. Chiusi la finestra e mi guardai attorno, nelle mani il primo scatolone vuoto da formare e riempire. Da dove si inizia a lasciare una casa? Gli antichi tappeti turchi e persiani ricoprivano quasi interamente le assi del pavimento che, pallido e consunto, era appena visibile fra i bordi vuoti che formavano un disegno astratto e geometrico, creatosi fra le frange bianche dei tappeti. Nessuno se ne curava più, anche se quel quadro contemporaneo di arte domestica e fili intrecciati, incorniciava alla perfezione quella stanza mangiata dalla luce di maggio. Leoni con in bocca prede sanguinanti, cammelli, masse informi di colori, serpi e spirali, arabeschi privi d’autore, ma apprezzati come i migliori prodotti dell’industria tessile del Medio Oriente. Ormai quei figli orfani, nati dalle mani di artigiani dimenticati, giacevano inermi a pancia in su, costretti ad osservare per sempre – o almeno così si immagina – il soffitto bianco e paradossalmente spoglio che li sovrastava.
Silenziosi, venivano calpestati e coperti da mobili e oggetti, che spesso lasciavano su di essi piccoli vuoti concentrici, simili a cicatrici d’infanzia, che ricordano alla vista vecchie cadute mai del tutto dimenticate. La vita degli oggetti passa così, inosservata, come se questi possedessero un’essenza immutabile. Nessuno si interroga sul vissuto di un tappeto spiaggiato sotto al divano o di un vaso sbeccato lasciato a riposare sopra la credenza in cucina. Noi passiamo, la nostra vista periferica li tocca per un istante, giusto per misurare quanta distanza intercorre tra noi e loro, per evitare spiacevoli scontri e incidenti e, poi, scorre via, pronta a misurare lo spazio che ci separa da altre suppellettili.
Io, però, il rumore impercettibile dei miei piedi scalzi su quei tappeti lo conosco a memoria. Conosco e riconosco ogni singolo spazio di quella casa. Chiudo gli occhi e ne misuro a mente i volumi, ripercorro le disposizioni dei mobili, riconosco gli odori degli infissi come quando, da piccola, aprivo le finestre a vasistas e ci infilavo dentro il naso. Respiravo forte, socchiudendo un occhio solo, in modo tale da poter guardare oltre al vetro sporco, e inspiravo tutta l’aria che i miei polmoni erano in grado di trattenere. Quelle molecole così impercettibili mi si aggrappavano al naso e io mi sentivo al sicuro, un piccolo tassello di uno schema più grande. Respiravo e osservavo e mi sembrava di essere un tutt’uno con quella casa tanto alta e tanto lontana dal resto del mondo. Io e la casa sapevamo respirare all’unisono e, allo stesso modo, siamo cresciute assieme in mezzo al caos di una piccola città. Io diventavo una donna e imparavo a riconoscere il mio volto più allungato e stanco allo specchio, mentre lei si riempiva di caldo in estate e di crepe in inverno.
In sole due occasioni avevo visto quegli spazi completamente vuoti e non pieni zeppi di cianfrusaglie: quando entrai per la prima volta, avevo pochi anni ma già una buona memoria, e quando la casa fu venduta. Dopo vent’anni vissuti insieme scostai gli armadi, le sedie, i letti, le poltrone blu del salotto e mi accorsi che per tutti quegli anni la casa aveva respirato e preso il sole con me. Semplicemente. I bordi frastagliati dei tappeti avevano lasciato il solco sul pavimento in legno, così come i mobili più pesanti avevano tenuto nascosto il colore chiaro delle assi. Il tempo che trascorsi lì dentro era stato misurato attraverso l’abbronzatura del parquet, spigolosa e irregolare come chi aveva abitato quelle stanze fino al giorno prima.

La vita delle case va ben oltre la nostra, si aggira per sempre tra le mattonelle azzurre del bagno e i sogni confusi delle generazioni di bambini che vi sono cresciuti dentro. Noi restiamo per qualche anno di compagnia domestica, ma che nell’effettivo è un attimo fugace, per poi ritornare sotto forma di pulviscolo leggero, che penetra l’aria e si deposita silenzioso da qualche parte. Se abbiamo fortuna, veniamo colpiti da un raggio di sole e diventiamo momentanea espressione di stupore per qualcuno che, distratto, ci osserva di sbieco. Le case invece restano, anche quando le abbandoni, le bruci o abbatti sotto ai missili. Come ogni cosa, noi passiamo e lasciamo tracce. Ci dimentichiamo lieti delle brutte cadute e delle cattive abitudini, memori soltanto del retrogusto che quelle esperienze ci hanno lasciato. Ci dimentichiamo di quanto siamo stati bene nella nostra camera d’infanzia e delle storie che ci raccontavamo osservando la vita degli altri dall’alto, quando nascosti dietro agli oleandri in vaso, spiavamo i condominii limitrofi, in cerca di qualche tapparella alzata. Agitati come se stessimo rubando gli attimi di vita dei malcapitati vicini, passavamo in rassegna ogni finestra e ogni balcone, in cerca del più piccolo dettaglio nascosto: qualcuno aveva dimenticato il rubinetto aperto del terrazzo e l’acqua stava cominciando a straboccare ai lati del piccolo annaffiatoio di plastica verde; più giù, un uomo era entrato in bagno per fumare alla finestra e si era messo a ridere guardando le nuvole rosee del tramonto; al primo piano, delle mani si agitavano sole sulla scena, mentre sfogliavano una rivista o tagliavano del pane.Tutti questi frammenti componevano la giornata di qualcuno altro da noi, invisibili e unici spettatori di quella pomeridiana improvvisata.

Sul finire dell’estate, misi piede per l’ultima volta dentro la vecchia casa. Era buio e io non avrei dovuto essere lì. Spiai nell’androne del palazzo, prima di salire, e constatata l’assenza di persone di passaggio, decisi di usare per l’ultima volta quel mazzo di chiavi, che da anni mi portavo appresso. Infilai la piccola chiave argento nella serratura in ottone dorato e con uno scatto secco il portone si aprì. Decisi di farmi tutti i piani a piedi, volevo salutare gli zerbini uno alla volta, rendere omaggio a ogni campanello. Arrivata in cima, superai il vano ascensori e mi fermai difronte al vuoto sbiadito dove prima era stata appiccicata la targa con i nomi dei miei genitori. I miei nomi. Entrai e il solito odore che mi aveva sempre accolta di rientro a casa, quella sera, era svanito. Sull’appendi abiti non c’erano più i nostri cappotti e sulla mensola non trovai il porta oggetti per le chiavi. Il quadro con i marinai era stato tolto, così come il crocifisso sopra la porta del corridoio. La nostra presenza era stata spazzata via dentro agli scatoloni e di noi restavano solo le briciole del nostro passaggio. La casa aveva respirato con me un’ultima volta, mi aveva lasciata curiosare tra le sue stanze silenziosamente e, abbassando le luci, mi aveva condotta nel buio verso l’uscita. Annusai per l’ultima volta l’odore degli infissi, reso quasi del tutto irriconoscibile dal passare degli anni, e mi accorsi che avrei potuto trovarlo altrove. Uscita da lì, sentii il fruscio dei tigli che stavano per lasciar cadere a terra le loro foglie e nel vento riconobbi casa. Per tutti quegli anni ero stata inebriata dall’immagine del mio naso spinto a forza tra le viscere di quell’appartamento, della mia mano di bambina che lieve cercava di carpire tutte le informazioni vitali di un sistema fatto di calcinacci e mattoni e che io, nella mia ostinata fantasia, avevo tramutato in organi deperibili. Volevo mangiare con lo sguardo tutto quello che c’era, tutto quello che quegli spazi avevano significato per me.
Come Ulisse che invece di ritornare a Itaca la lascia per sempre alle spalle, ho osservato la casa che si allontanava, fotografando con un battito di ciglia una cartolina da spedirmi tutte le volte che avrei provato nostalgia.
Dopo quella sera, entrai numerose volte con la mia mente in quelle stanze, le quali sarebbero state per me immutate ancora e ancora. La bellezza di quelle immagini odorose, nella sua durata di un’intera esistenza, era stata temporanea e fragile come un fiore di sabbia, di quelli che puoi trovare la sera sulla spiaggia deserta, frutto della tecnica artistica di qualche essere – umano o marino – o della bassa marea. Qualcuno avrebbe potuto pensare che fossero veri, ma nel tentativo di raccoglierli, si sarebbe presto accorto della loro immaterialità. La sabbia umida si sarebbe sgretolata tra i polpastrelli stretti, che un lembo di mare avrebbe ripulito in uno spasmo lento, originato dal ventre degli abissi e arrivato mollemente a noi sulla riva. Come sono strane le cose che ci circondano e come siamo strani noi: percepiamo la concretezza di una cosa solo perché è esistente ai nostri occhi, ma una volta che ci allunghiamo per afferrarla, scopriamo tutta la sua ineluttabilità. Sono le immagini che proiettiamo dentro la nostra testa, quelle che popolano i pensieri, che animano i ricordi, ma che – quando più ne avremmo bisogno – non siamo in grado di trasfigurare fuori da noi, rendendole presenze concrete.
Qualcuno sostiene che quei fiori così strani non esistano nemmeno, ma nella mia sempre ostinata fantasia saranno immagine e profumo della mia vecchia casa.

 

Di Annachiara Mezzanini


In copertina: La mia sala da pranzo, Vasilij Kandinskij


 

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