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La giovinezza non basta: Ore perse – Vivere a sedici anni, Caterina Saviane (di Annachiara Atzei)

Ci sono volumi che ti chiamano dagli scaffali della libreria. Sarà per la copertina, che li separa in piccole cellule e li rende unici, o per il risvolto, quelle poche righe che non sono nient’altro che una “lettera a uno sconosciuto”, come le definiva Roberto Calasso. È successo così per Ore perse – Vivere a sedici anni, di Caterina Saviane, testo che Rina Edizioni ha riproposto nel 2023 recuperandolo dopo oltre quarant’anni di oblio (uscì, infatti, nel 1978 per la collana Franchi Narratori di Feltrinelli) e che per chissà quali circostanze – non certo casuali – in questo periodo mi sono ritrovata finalmente a leggere. “Una storia di fantasmi e di cani” la definisce Luciano Funetta, che ne cura la prefazione. Una storia di infinita tenerezza, aggiungerei io, perché qui Saviane mostra tutta la fragilità dei suoi sedici anni così come quella di un’intera generazione di ragazzi. I due punti di vista sembrano inconciliabili, eppure è così che capita per i buoni libri: sono prismatici e indefinibili perché contengono all’interno le molteplici proiezioni del reale che – come nel caso di Ore perse – si dissolvono in dialoghi, riflessioni, sfoghi e descrizioni di luoghi e avvenimenti che sono più che altro le fedeli riproduzioni degli stati d’animo della scrittrice. Come questa: “Sprazzi di luce indicano vita al di là dei campi arati. Il vento fischia fra le querce, fra le fronde dell’albero di ciliegie carico di rami scheggiati dalla nostra voracità, fischia solo per quelli che hanno la pazienza di ascoltarlo e comprenderlo, fischia come fischia il cane quando è triste. Ed è qualcosa di vivo questa mattina che si agita e si divincola come una lucertola nelle mani, con i suoi colori decisi e questa rara felicità di essere al mondo”.

 

Cosa si dibatte nell’animo di Saviane? Due cose, almeno: il dolore dovuto alla coscienza del proprio limite e lo sforzo ripetuto di trattenere i ricordi. Tutto ciò che la rende umana – e che, del resto, rende umano ciascuno di noi – cioè il senso di inadeguatezza e la memoria, è per lei motivo di perenne conflitto sia con sé stessa che con una società pigra e indolente: “A che cosa servono le nostre labbra, i nostri piedi, se poi stiamo zitti e immobili?”, si chiede Saviane. Così facendo, fissi in una comoda inattività, le ore e gli anni si consumano in una perdurante attesa e aprono un vuoto difficile da riempire: non bastano gli amici, il gruppo, il partito, il femminismo, i viaggi, le belle serate luminose, la giovinezza. Ogni giorno è rinuncia, ogni giorno è un rogo.
L’unico antidoto contro la sensazione di essere inutile, contro la certezza di non combinare nulla di concreto e contro il timore di perdere o aver perso tutto è proprio il ricordo, un ricordo almeno sperato perché impossibile da fermare. Nello stesso momento in cui si riesce a godere del presente, il presente si sfascia e l’armonia si spezza. È l’inconfessabile attaccamento alla vita che fa tremare Saviane. Essere incastrata tra l’amore e la perdita la trascina talvolta nella malinconia, talvolta nella tristezza, talvolta addirittura nella disperazione e rare sembrano essere le ragioni di una gioia duratura. E cos’è questo se non il naturale tentativo di riconoscersi di una donna di sedici anni? Con lei, anche il lettore si immerge – o si reimmerge – nei dubbi dell’adolescenza, continua a porsi domande, si giudica e forse, alla fine, riesce a essere indulgente con sé stesso.
Per mettere in atto il controllo di questo saliscendi emotivo, Saviane si aggrappa alla macchina da scrivere: stonata, insulsa, ma necessaria. La scrittura è il dispositivo per l’elaborazione di fatti – dal matrimonio dell’amica Monica, alla morte di Pasolini – ma anche di sentimenti: “Non mi basta neppure essere egoista, ricercare unicamente il mio bene: tutto crolla davanti all’infelicità del mondo intero”. Idealista e lucida, così ci appare.
Le ultime pagine sono una dichiarazione d’amore alla poesia, sostanza di per sé vitale, senza inizio né fine, così come nessun inizio o fine ha il mondo. Le stesse parole di Saviane sono poesia: crudeli e dure ma, allo stesso tempo, evocative, in grado anch’esse di toccare i fondali dell’esistere. “Ma a chi serve la mia storia?” scrive l’autrice, incapace di darsi una risposta forse oggi possibile. La poeticità di Saviane è indispensabile per guarire da silenzi incolmabili, è tempo e spazio ulteriore della narrazione e prodigioso ponte tra chi scrive e chi legge.
“La poesia è l’altra voce” scrive Octavio Paz in un breve saggio del 1989, “è la voce delle passioni e delle visioni, è la voce dell’altro mondo e di questo mondo, è la voce di ieri di oggi: di un passato privo di date”. Grazie alla sua prosa suggestiva, in Ore perse, il tempo e il mondo di Caterina Saviane si congiungono al nostro. I giorni che lei ha vissuto si mescolano e si intrecciano a quelli presenti per darci una lezione di sensibilità e consapevolezza che non sono mai fini a sé stesse, ma presupposto e frutto di una introspezione personale sofferta, dalla quale la protagonista uscirà spezzata ma, di certo, indimenticata.

 

Di Annachiara Atzei

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