, ,

Odalische: come lo sguardo maschile ha descritto il corpo della donna tra Oriente e Occidente

Di Annachiara Mezzanini

 

 

C’è un particolare sguardo che ha attraversato il modo di assorbire e di indagare il corpo femminile all’interno della rappresentazione artistica, ed è quello maschile.
La storia ci fornisce però virtuosi esempi di presa di coscienza e di autodeterminazione da parte di chi, quell’insistenza dello sguardo che fa della persona l’oggetto più che il soggetto, lo ha subito ed esperito sotto forma di sopruso, sottomissione ed esclusione.
A partire dagli anni Sessanta del XX secolo, gruppi di artiste o singole esponenti si sono unite per trasformare il grido di protesta in una eco in grado di espandersi e rimodellare alcuni aspetti sociali e politici.
In un viaggio che dall’arte eurocentrica, legata a un modello patriarcale, e che approda nei territori tra il Medio Oriente e l’Asia meridionale, l’obiettivo è quello di indagare il corpo femminile partendo da un immaginario comune di stampo orientalistico e giungendo alla realtà concreta di donne artiste, attiviste e rappresentanti della quotidiana lotta per diritti che dovrebbero essere di ognuno: la libertà d’espressione e l’educazione.
Lo sguardo maschile sopracitato, a partire dall’ambito accademico dell’arte occidentale di inizio Ottocento, ha prevalso sulla figura femminile, specie nella scelta di come il corpo della donna dovesse essere ritratto e, di conseguenza, sull’impostazione di come tale corpo potesse entrare nelle istituzioni culturali e accademiche: nudo.
La donna poteva far parte del mondo dell’arte solo sotto forma di morbida e candida presenza, ritratta con pennello o scalpellino faceva poca differenza, l’importante è che fosse spoglia e silente. Una macchia rosea che impreziosiva la scena, un’Odalisca di schiena, che alimentasse il desiderio del già citato male gaze. Siamo di fronte a una visione eurocentrica e patriarcale dell’arte, che affonda le sue radici in ambiti e contesti non solo inerenti ai canoni estetici e artistici, ma anche istituzionali.
Da questo silenzio imposto, i primi gemiti di rabbia si sono sollevati attraverso il lavoro di artisti e critici, i quali – a partire dalla seconda metà del XX secolo – hanno militato soprattutto in gruppi contrari a determinati sistemi museali e culturali, granitici nella loro forma e struttura. La Critica Istituzionale, ad esempio, ha voluto mostrare dall’interno delle istituzioni stesse, come il linguaggio, le narrazioni e le rappresentazioni fossero intrise di finzione. Parte di questo lavoro, è stato quello di mettere sotto i riflettori proprio il ruolo della donna nell’arte, come sostiene il collettivo newyorkese Guerrilla Girls, che dal 1985 si è fatto conoscere attraverso azioni performative e slogan di protesta politico-sociale. Assai celebre è il loro poster, che dichiara attraverso le percentuali statistiche del Metropolitan Museum of Art di New York del 1989, come meno del 5% degli artisti esposti fossero donne, ma ben l’89% dei quadri rappresentassero nudi femminili.
Provocatoria è la domanda che emerge a caratteri cubitali: “Do Woman have to be naked to get into the Met. Museum?”.
La letteratura, però, è piena di esempi e testimonianze provenienti dal mondo occidentale. Poca attenzione è ancora riservata a porzioni di mondo che, ad oggi, sono considerate ai margini di un dibattito sociale, politico e culturale che, invece, è urgente far emergere dalla superficie. Negli stessi anni in cui le piazze d’Europa e d’America si incendiavano e il mondo dell’arte veniva minato dal suo interno, in paesi come il Pakistan la coscienza delle artiste – e più in generale delle donne tutte – veniva scossa da riforme e governi, che limitavano ulteriormente la loro libertà d’essere e di espressione. Mentre l’arte delle femministe occidentali si opponeva al ruolo riservato da secoli al corpo della donna nei musei, il governo pakistano rivendicava all’uomo l’appartenenza e l’apparenza del corpo femminile, coperto e immobile. Per molte donne lo Chador divenne un simbolo di costrizione e ostruzione e, attraverso l’arte, cercarono di liberarsene. Il nudo femminile è disapprovato in una società di stampo mussulmano come quella Pakistana, ma è ugualmente ammesso come forma d’arte prettamente maschile, come oggetto del desiderio. Il corpo femminile nudo, dunque, è soggetto allo stesso sguardo maschile, che tocca ogni donna, da est a ovest del mondo. Le artiste donne scelgono di andare oltre questo stereotipo e di raffigurare il loro corpo nudo come forma di protesta politica e sociale contro un comune oppressore.
Ancora una volta, si palesa di fronte ai nostri occhi uno scenario dominato da un unico punto di vista e da un unico soggetto-oggetto posto al centro della tela, inerme e spoglio.
Artiste come Nilofar Akmut, si impongono sulla scena artistica pakistana e internazionale, fornendo al proprio pubblico una chiave di lettura autentica sulla situazione femminile. Alla costante ricerca della verità storica, Akmut parte dalla pittura per approdare alla performance, in un vortice emotivo e personale di riscoperta della propria terra natale.
Affascinata dal lavoro delle femministe occidentali e disturbata dalla violenza degli avvenimenti storici che hanno caratterizzato il Pakistan, in particolar modo dalla separazione dal subcontinente indiano avvenuta nel 1947 e le restrizioni all’apprendimento femminile dello stesso anno, Akmut denuncia attraverso l’arte tematiche sì di genere, ma universali.
Esemplare è la sua performance del 2005, intitolata Of Oranges and Apples, avvenuta a Lahore, una cittadina situata a nord del paese, nella regione del Punjab. L’artista chiama a testimoniare quattro uomini a favore di una donna accusata di adulterio, ma invece vittima di stupro. Con questo lavoro, Nilofar Akmut vuole denunciare gli innumerevoli atti di violenza fisica, psicologica e domestica che ogni donna è costretta a subire da troppo tempo. Nel caso pakistano, l’artista punta il dito contro la Legge Hudood, promulgata nel 1979 dal regime militare di Zia ul Haq e protratta fino ai giorni nostri, con l’unica differenza che dal 2006 le ordinanze non sono più al di sotto del potere della legge islamica, ma rientrano nel codice penale.
Altra artista pakistana, figlia della diaspora verso ovest, è Sylvat Aziz, esponente dell’arte oltre i confini e delle problematicità che questo comporta. Andando contro l’arte maschile e gli stereotipi su quella femminile, rilegata soprattutto alla sfera domestica e ornamentale, Sylvat Aziz è una tra le molte donne che si esprimono attraverso la pittura e il collage di immagini, spesso estrapolate dal contesto tradizionale, intimo e colorato della vita di tutti i giorni. Legata alla cittadina di Lahore, fulcro delle nuove e vecchie istituzioni culturali ed artistiche per le donne del Pakistan, Aziz la ritrae spesso attraverso il filtro dei suoi occhi lontani, ma sempre presenti.
Il corpo della donna è di nuovo centrale: mescolato con la storia nazionale, la tradizione artistica della miniatura e della calligrafia e la concezione orientalistica, tipica dello sguardo occidentale verso quelle terre. Questi elementi sono ben visibili in una delle opere presenti nel portfolio online dell’artista e facente parte dei suoi collage “Still Lahore”, in cui è possibile osservare, al centro, una riproduzione speculare che richiama alla memoria la Grande Odalisca di Ingres del 1814, attorniata da immagini e simboli tipici della cultura di provenienza dell’artista. In un insieme decorativo che appare soave e leggero per forma e soggetto, si cela la profondità di una realtà spezzata a metà, che ha un suo lato noto e osservato da occhi indiscreti, spesso giudicanti e ammaliati dall’alone esotico delle immagini stesse; e un lato autentico, spesso celato ai più e connotato da diverse storie e tradizioni alle quali dare voce, forma e spazio.

 


Di Annachiara Mezzanini

 


In copertina: artwork by Sylvat Aziz


 

Lascia un commento

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.