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Giorgio Vasta: “Cerco l’autoritratto di una voce” – Intervista a cura di Giulia Oglialoro

Per Marina Cvetaeva esistevano due specie di poeti: i poeti-fiume, che scrivono seguendo un corso e uno sviluppo, e i poeti-lago, le cui opere scaturiscono attorno a un’unica ossessione. Il lago di Giorgio Vasta è Palermo, o meglio, il senso di profondo spaesamento che gli procura Palermo, l’incapacità di coincidere del tutto con la città che gli ha dato i natali e in cui è tornato a vivere. Il capoluogo siciliano, e la complessità dei sentimenti che risveglia, sono le costanti di tutte le opere di Vasta, sin dal suo esordio con Il tempo materiale (Minimum Fax, 2008). Quando lo incontro, di Palermo resta la luce vigorosa che inonda il suo studio: nell’intermittenza della conversazione virtuale, la figura di Vasta a tratti si sgretola, insieme alla parete di libri sullo sfondo, ma la voce che risuona è la stessa dei suoi libri – senza intoppi, esatta e sorprendente.

 

Artwork by Croce Taravella

 


Vorrei cominciare proprio da un’intervista, ossia quella che hai fatto tu al sindaco di Palermo Leoluca Orlando, poi raccolta in Come in un sogno (Glifo Edizioni, 2023, a cura di Marco Marino). A dispetto dell’intervista che fece a Orlando Michele Perriera nel 1988, anch’essa pubblicata in questo libro, la tua scrittura smargina del tutto dai canoni del giornalismo più o meno letterario, tanto che non ti focalizzi su quel che dice Orlando, ma sul come lo dice. Insisti sul suo linguaggio, le sue strutture retoriche, ritraendolo come un corpo-voce che nelle sue (non) risposte tergiversa, procrastina, apre di continuo nuovi spazi, addirittura «incanta». Mi sembra lo stesso movimento della tua scrittura, qualcosa che tu stesso definisci «un impulso alla dissipazione». Parlare con Orlando è stato un altro modo per parlare di letteratura? 

Da qualche tempo ho l’impressione che tutte le volte in cui presumo di raccontare qualcosa che sta al di fuori, in realtà sto sempre raccontando qualcosa che sta dentro di me. Vedi, molti intervistatori, sia italiani che stranieri, hanno sempre colto il carattere donchisciottesco, visionario, comunque spiccatamente letterario di Orlando: soltanto che dentro il racconto giornalistico lo fai diventare un connotato tra gli altri, quasi una stravaganza, una bizzarria, un esubero di personalità. Come se ci fosse qualcosa che resta dentro una misura, e che trovi più o meno in quasi tutti gli amministratori, e che poi invece in Orlando tracima per un suo modo specifico di manifestare la presenza. Io invece volevo che il linguaggio fosse proprio l’elemento saliente. La sensazione è che questa mia ricerca personale diventerà sempre più radicale, sempre più perentoria. Come se mi interessasse usare una sponda, ciò che sta fuori, per provare a dire qualcosa che appartiene pienamente al mio sguardo, in un modo che ormai è compromesso. Compromesso nel senso che è qualcosa da cui non evado, da cui non vengo più fuori. Aggiungo però che l’autoritratto che mi interessa non è un autoritratto della mia persona, che considero qualcosa di fisiologicamente irrilevante, completamente priva di valore. Mi interessa cercare l’autoritratto di una specifica voce, di un modo di manifestarsi della voce. In Las Meninas Velásquez incastona all’interno della composizione un frammento di specchio, in cui si riflettono i due regnanti, forse i veri protagonisti del dipinto: come in un’eco lontana di quel quadro, io cerco di incastonare dentro la scrittura, dentro il racconto, l’autoritratto di un modo di far esistere il linguaggio.

Mi sembra che in Come in un sogno la tua ricerca sul linguaggio emerga nitidamente, tanto che a un certo punto dichiari che non è affidabile quanto stai raccontando, proprio per il senso di estraneità che sperimenti a Palermo. Ti definisci come «qualcuno che nel cratere di questa città si muove frantumato e all’erta, un organismo sempre in guardia – il respiro trattenuto, lo sguardo in tensione – oppure nulla: insignificanza, inesistenza». Più avanti ti paragoni a Hiroo Onoda, il soldato fantasma giapponese che non sa che la guerra è finita e se ne sta acquattato nella vegetazione, «sottraendosi a tutto». La mia impressione è che il sottrarsi a tutto sia il filo comune dei tuoi libri, e che la tua scrittura muova proprio dal paradosso di descrivere, con precisione implacabile, la tua tendenza a scomparire.

Non ci avevo mai riflettuto in questi termini, e attraverso questo specifico verbo, «sottrarsi». Mi verrebbe da dire che questo processo comincia già dal mio primo libro, Il tempo materiale, perché c’è qualcosa nel sottrarsi che evidentemente mi affascina e perseguita, e credo si manifesti più nella forma dell’ossessione che della passione. Sulla passione eserciti un controllo, un governo, mentre l’ossessione ce l’hai addosso alla schiena, sulla nuca, ti orienta, ma non ti accorgi che c’è. Il tempo materiale alla fine è un racconto che si potrebbe sintetizzare nei termini del sottrarsi a un’azione che pure puoi compiere: il protagonista di quel romanzo, soprattutto quando arriva alla fine della sua storia, nell’ultimo capitolo, potrebbe dire ciò che considera indispensabile, ciò che devi avere il tempo materiale di dire, e in realtà si ostina all’interno di un codice di gesti incomprensibile dalla persona che ha davanti. È come se tutto il libro fosse una peregrinazione attraverso una città nella quale non entri mai davvero, resti sempre al di qua di una soglia. Che poi è il mio modo di stare a Palermo da quando ci sono tornato, ma tutto sommato era così anche quando ci abitavo prima di andare via per una ventina d’anni, come se la città stesse dentro un susseguirsi di teche di vetro e fosse un’occasione di conoscenza, di osservazione. Io non stabilisco mai un rapporto profondo, tanto meno complice con la città. Non lo stabilisco perché non ne sono in grado. Mi piacerebbe ogni tanto essere capace di sciogliermi nella città, non sentirmi condizionato dal bisogno di evitarla, però questo non accade sempre. Mi sottraggo, vale a dire che a me piace perdermi le cose, più che prenderle, anzi mi sembra di prenderle nel momento esatto in cui le perdo. Per esempio, nonostante la mania della puntualità capita che arrivi in ritardo in aeroporto, nella maggior parte dei casi non per colpa mia, ma perché c’è uno sciopero improvviso, e allora perdo il volo. Da un lato penso a tutte le conseguenze: sto andando via per un impegno di lavoro, devo fare telefonate, devo avvisare, devo cercare il volo successivo. Però la parte più profonda e autentica vive un senso di sollievo, quasi di risarcimento. 

A questo proposito, in Come in un sogno dici che l’unico modo per raccontare Palermo «è mancarla. Non centrarla, non coglierla, ma anzi sentirne la mancanza». Il libro in apparenza più lontano da Palermo è Absolutely Nothing (Humboldt, 2016), la tua personale esplorazione dei deserti americani insieme al fotografo Ramak Fazel: dico in apparenza, perché parlando del deserto mi sembra tu sia riuscito a mettere a fuoco questo tuo sentimento ricorrente di mancanza, di rarefazione, che forse a Palermo non saresti riuscito a raccontare così dichiaratamente. Ho pensato al Marco Polo delle Città invisibili, che nei resoconti delle sue esplorazioni non nomina mai Venezia, ma poi ammette di non aver parlato altro che di Venezia. 

Sì, è senz’altro così. All’inizio pensavo che almeno in quell’occasione avrei potuto fare a meno di Palermo, e che fosse del tutto strutturale farne a meno, perché si trattava di un’incursione in un luogo non solo lontano, ma proprio irraggiungibile dalle forme nelle quali Palermo si manifesta. Poi durante il viaggio, e ancora di più scrivendo, mi sono accorto di non poter prescindere dalla provincialità, quella che ti porta a descrivere i luoghi nei quali ti trovi attraverso i tuoi punti di riferimento locali. E quindi un pezzo di Las Vegas o un frammento di deserto dell’Arizona lo leggi attraverso un quartiere di Palermo o la spiaggia di Mondello e così via. Non volevo fingere nel racconto un cosmopolitismo che non mi appartiene, una capacità di stare nei luoghi senza portarmi dietro, appunto, tutti i residui, i cascami, le zavorre del mio sguardo, della mia origine. La mia idea è che l’origine non resti mai davvero alle spalle, sia sempre come un alone che ti sporca lo sguardo. Gli occhi te li puoi stropicciare quanto vuoi, ma continuerai a vedere le cose attraverso questo alone. In quel racconto c’era il bisogno di rivendicare il provincialismo come metodo, come strategia per osservare le cose. 

In tutti i tuoi libri ricorre una grande attenzione alla luce, che compare come un personaggio, con un corpo e un carattere. In Palermo. Un’autobiografia della luce (Humboldt, 2022) la scrittura si fa addirittura sinestetica: parli di «luce psicotica», «luce che sbriciolava e cadeva in un rumore di vetro», descrivi persino il cinema come un «giacimento di luce» – definizione tutt’altro che scontata, in un’epoca in cui parliamo di cinema esclusivamente in termini di trama, dimenticandoci che il prodigio di quest’arte è stato proprio quello di domare la luce. Trovo molto poetico il finale di questo tuo racconto, in cui il tuo ritorno a casa – in senso interiore – coincida con il recupero di una bobina Super8 girata da tuo padre, che ti ritrae neonato. Che valore hanno il cinema e la luce nel tuo immaginario?

Come dicevi tu, per me la luce non ha a che fare con una condizione di illuminazione ideale. Non è agli antipodi della cecità. La luce che ho in mente è quella che non crea le condizioni perfette per il visivo, anzi, ospitando al proprio interno zone d’ombra, di crepuscolo, crea semmai le condizioni per la visione, non per il visivo, che sono proprio due ordini differenti. Il visivo ha a che fare con le evidenze, con le constatazioni, con il ribadire ciò che c’è, mentre la visione è qualcosa che risponde al desiderio di farla finita con le evidenze, con la superstizione per cui la realtà sia qualcosa di certo. Mi piace che nei suoi libri Thomas Bernhard faccia quasi sempre precedere la parola realtà dalla parola cosiddetta: la cosiddetta realtà. La nomina, ma dubitando, quasi mettendola tra virgolette, come a chiedere a ogni lettore di esitare un po’, di non credere davvero che la realtà sia un luogo composto di evidenze, piuttosto un nodo di fantasmi. Influenzato anche dal modo di fotografare di Fazel, rifletto sul fatto che possiamo rinvenire un’origine del nostro sguardo, come in un lavoro di archeologia. Chiaramente è un’invenzione, un processo che non ha l’oggettività della scoperta scientifica. Io decido che il mio modo di guardare proviene da quell’occasione, dall’essere stato un bagliore fuori fuoco dentro una cinepresa che un uomo che si improvvisava padre a 27 anni teneva in mano in un giorno d’estate del 1970. E per me questo ha profondamente a che fare con il cinema. Non ho nulla contro la trama, ma penso che la trama abbia un senso se parte dallo specifico sguardo di un autore. Aggiungo che per tanto tempo andare al cinema mi ha dato un senso di vertigine. Sentivo la consistenza del percorso da casa fino alla sala cinematografica, sentivo non nel senso che lo capivo, che ne avevo un’intelligenza, era proprio un fatto sensoriale. La messa vera per me era lì, non in chiesa: una messa crepuscolare, dove hai la luce e il buio insieme, e ti viene chiesto di avere fiducia nei confronti di una durata – novanta, cento, centottanta minuti – e poi nei confronti di quello sta accadendo lì fuori, un fuori che poi diventa un dentro. Ecco, forse il cinema è il luogo in cui il visivo e il visionario si fanno indistinguibili.  

Sei anche sceneggiatore: insieme alla regista Emma Dante hai scritto i film via Castellana bandiera, le sorelle Macaluso e il recente Misericordia. Tutti e tre sono film molto siciliani, per ambientazioni, immaginario e tematiche, e anche molto teatrali, poiché i cambi di scena sono ridotti al minimo, e tutto si regge sulle interazioni fra i personaggi (il teatro è del resto il luogo d’elezione di Emma Dante). Come coniughi allora la tua ricerca molto personale su Palermo e sulla scrittura, con la ricerca, altrettanto forte e personale, della regista?

Si suppone che la scrittura per il cinema debba essere sostanzialmente diversa da quella narrativa, ed è una giusta supposizione. Come notava Pasolini, una sceneggiatura è scrittura che vuole essere altra scrittura, sempre in tensione verso altri mezzi espressivi che sono appunto l’immagine e il suono. Eppure io credo che la scrittura per il cinema non va intesa come uno spazio chiuso, all’interno del quale vivi una continua frustrazione nei confronti di tutto quello che non puoi fare. Puoi fare le stesse cose, in un modo leggermente e a volte profondamente diverso, ma non c’è ragione di pensare che nella scrittura per il cinema si debba perdere la complessità che pensi sia centrale all’interno della scrittura letteraria. Questo significa che non scriverai la descrizione di una scena attraverso un periodo lunghissimo, perché non vuoi essere odiato dalla produzione, dai reparti fotografia, audio, scenografia e costumi che andranno a leggere quella descrizione. Però hai comunque modo, nella scelta degli aggettivi e degli avverbi, nella loro collocazione, la possibilità di suggerire sfumature. Io ho la fortuna di aver lavorato fin qui sempre a stretto contatto con la regia: non scrivo una sceneggiatura che poi andrà in mano a qualcuno che non conosco e che non mi conosce. C’è un continuo dialogo, quindi, e allo stesso tempo il totale rispetto delle peculiarità di un regista che sul set magari decide di girare la scena in un altro modo rispetto a come è stata scritta. Il montaggio è un’altra fase meravigliosa, un’ulteriore scrittura. Ed è davvero bellissimo quando una minuscola nuance, che ti sembrava imprendibile mentre stavi scrivendo, compare nel film terminato, e diventa visione.

 

A cura di Giulia Oglialoro

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