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Rileggere Memorie di Adriano – di Giulia Bocchio

Tu non mi ami molto.
Tu rifiuti in me una saggezza opposta a quella che t’insegnano i tuoi maestri, e nel mio abbandono ai sensi, un metodo di vita in antitesi alla severità del tuo, e che pur tuttavia gli è parallelo.
Non importa: non è necessario che tu mi comprenda.
Vi è più d’una saggezza e sono tutte necessarie al mondo:
non è male che esse si alternino.

 

 

Nella personale storia di ogni lettore e di ogni lettrice ci sono libri-pilastro. È un’immagine che apparentemente rimanda a qualcosa di simile alla stabilità ma, questi libri, generano anche una contraddizione: certe pagine non provocano altro che un effetto domino interiore e questo moto interiore, e non troppo astratto, è un fantasma che permane. La scrittura è latenza. Le migliori storie restano latenti. Così è per me, almeno. E quando penso a questa latenza (giuro è l’ultima volta che scrivo latenza) penso a Marguerite Yourcenar, penso a Memorie di Adriano.
L’ho riletto di recente, a distanza di quasi dieci anni dalla prima volta.

 

 

Comincia con il corpo, questo romanzo che trascende la concezione stessa di romanzo,  è una lunga lettera indirizzata a un giovanissimo Marco Aurelio ma la perfezione della scrittura di Yourcenar, che è millimetrica qui, un polimero organico che lega a sé a doppia catena la storia di un impero e quella della donna stessa che la ricostruisce e la fa sembrare una confessione diretta a te soltanto. Fa di te un testimone, fa di te un successore, consegnandoti l’intimità di un uomo malato di fronte a un medico. Quel corpo ormai vicino alla finitudine è l’imperatore Adriano, ma chi davvero siamo in certe circostanze? Cos’è un titolo, cos’è stata davvero la tua esistenza, quando sei nudo, le gambe cominciano a divenire livide e gonfie e qualcuno osserva i tuoi umori, il tuo sangue, il tuo piscio addirittura. Vale da secoli. È già accanto a te quello spettro, lo senti vicino. Sei alle spalle di Ermogene, come si fa in casa, quando viene chiamato il dottore e si rimane sempre un passo indietro a lui, in silenzio, in agonica attesa.

Da quel Mio caro Marco in poi, quando l’ho letto la prima volta, ho voluto metterci un po’ per finirlo. Non volevo arrivare all’epilogo del racconto, anche se sai che chi ti parla sta morendo,  è il motivo per cui ognuno racconta. Ogni pagina è un respiro in meno, ma una traccia in più.

Per Adriano il corpo è stato un mezzo, un compagno fedele, è l’esistenza corporea ad avergli procurato piacere, dolore e virtù, ad avergli permesso di sopportare i compromessi di Roma e di edificare una concezione di immortalità molto personale, strettamente correlata al potere, ma in una maniera non asfittica, perché l’esito di una conquista è solo l’edificazione di un monumento con la tua faccia e il tuo petto, e lui lo sapeva, «Ogni nuovo ampliamento territoriale dell’Impero sembrava un’escrescenza ripugnante, uno schifoso tumore od un gonfiore dovuto all’idropisia…».
Questo monumentale, ambizioso e tormentato capolavoro di Yourcenar, che ha accompagnato e impegnato l’intera vita della scrittrice, ha un profondo valore filosofico perché dentro ci sono quegli imperativi categorici che caratterizzano l’esistenza e la morale, fra le due non c’è solo l’inesausta ricerca di un precario equilibrio – quel costrutto impossibile, inversamente proporzionale alla stabilità di un busto – c’è l’ombra della morte, che nelle memorie non è meno centrale di Adriano, oso dire che non sia davvero lui, in fondo, il protagonista di queste pagine, o meglio, per Yourcenar l’imperatore che succedette a Traiano, è un totem narrativo, la proiezione solida di una storia più labirintica di Roma, Adriano è il mezzo per raccontare uno scenario più ampio: quello dell’esistenza umana. Carnale e mortale, superstiziosa, ancorata all’effimero, alle frane del caso, tormentata dal sesso, dalla conquista, incurvata dall’insuccesso, scissa fra la grandezza delle potenzialità del pensiero e la mollezza dell’inazione. Sono aspetti che non hanno epoca.
Il lungo flusso di immagini, momenti e persone che l’imperatore morente evoca attraverso un riavvolgimento mnemonico lucido, continuo e diretto, non ha nulla a che vedere con le possibilità perdute, perché non so dire dove si collochi la malinconia fra queste pagine, che non ne sono esenti, ma c’è qualcosa, nella personalità che Yourcenar tratteggia, che addirittura la trascende.
È una via difficile quella che sceglie Adriano, spaccata fra l’accogliere e il restituire, ma a lui affine e necessaria: lei, la pace, che è negoziabile, e che ha come complice un pugnale alle volte. È questo che l’uomo, nella veste di imperatore, ricerca, la dicotomia fra saggezza e desiderio, fra piacere e studio.
Mentre nei confini più remoti dell’impero qualcuno lo considerava un dio, Adriano rifuggiva Roma, nutriva per lei un sentimento ermetico e fuligginoso, tanto da lasciarla continuamente: le memorie sono anche memorie di viaggi, di visite e di popoli. Anni trascorsi nelle province greche e orientali, come Atene, sua patria spirituale, deciso a ellenizzarsi il più possibile, facendosi iniziare a Eleusi, studiando il moto degli astri, arrivando a far costruire un osservatorio personale a Villa Adriana, a Tivoli (trionfo architettonico della sua stessa personalità), nel vano tentativo di interpretarne i misteri, di cavare da quell’orbita celeste il profilo di un qualche dio da (d)eludere.
Il perenne andare di Adriano è l’ombra letteraria di quello della scrittrice: Marguerite Yourcenar viaggiò moltissimo, prima per ragioni politiche, nel ’39 dovette trasferirsi negli Stati Uniti a causa dello scoppio del secondo conflitto mondiale, e poi per ragioni umane, sempre insieme all’insegnante e traduttrice di lingua inglese Grace Frick, l’amata compagna di vita, per permetterle di vedere, pur nella malattia, ancora una porzione di spazio, di mondo, di esistenza possibile. Nei suoi taccuini di appunti le iniziali di Grace sono l’unica epigrafe possibile, è dedicato a lei Memorie di Adriano, anche se vorrebbe solo cancellare se stessa, impossibile dedicare quelle pagine a qualcuno, afferma qualche riga dopo, un gioco speculare in cui la sua presenza è più che pulsante. Con un piede nell’erudizione e l’altro nella magia, la scrittura si intreccia alla vita di Yourcenar, impossibile pensare l’autrice separata dall’imperatore, che nelle notti più gelide del 1950, nel silenzio dell’Isola dei Monti Deserti tenta di descrivere e trasfigurare un arido giorno luglio a Baia, nel 138. È ormai qualcosa che ha a che fare col sangue, a prescindere dalla pubblicazione del libro.
Alla morte prematura di Grace, Marguerite Yourcenar ne amerà il ricordo, ma non il simulacro. Quest’ultimo è riservato solo al giovane Antinoo, l’uomo che Adriano amò più dell’impero, giunto nella sua vita tardi, come tutto il resto. «La morte di Antinoo è un problema per me solo. Può darsi che questa sciagura sia stata inseparabile da un eccesso di gioia, da un sovrappiù d’esperienza, di cui non avrei consentito a privarmi, né a privare il mio compagno di pericolo. I miei rimorsi, a poco a poco, sono divenuti anch’essi un aspetto di amaro possesso».
Acerbo e tragico, bellissimo e timido, indolente e fedele, la sua morte conserva qualcosa di ancestrale, di strappato a una profezia postuma, il fanciullo è l’apoteosi del dolore, dell’insensatezza del vuoto emotivo, degli anni che svuotano il vigore delle guance, il vessillo dell’inesorabile sorte e se averne amato il corpo è il fardello del presente, che diventi un culto per il futuro: è così che Adriano lo celebra, divinizzandolo, inventandosi una ritualità plasmata sulle sue spoglie e fondando una città legata indissolubilmente al perimetro del suo nome e al luogo in cui il suo corpo fu ritrovato esanime, Antinopoli. Ma nulla ne avocherà davvero l’essenza, e ogni colpo per piegare il marmo all’esatta altezza delle labbra ne deformerà la memoria, sino ad annebbiarla, relegandola a un sogno antico, di cui si ricordano solo pochi dettagli visivi e tutte le sensazioni.

Ed eccoci di nuovo alle spalle del medico, Ermogene, concentrati in pochi inutili esercizi di saggezza, nello scrutare il colore di un arto, contagiati dal silenzio, dall’affanno che proviene dal profondo delle arterie, in una stanza dove tutto è diventato pura percezione, ricerca serrata di quel dettaglio che possa finalmente svelarci l’attimo esatto in cui l’ultimo sospiro abbandona un corpo.
Chi siamo davvero di fronte alla morte?

 

Di Giulia Bocchio

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