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Infinite quest – I social e la disgregazione dell’io: Instagram, che cosa ci hai fatto? Dialogo con Claudia Grande (una rubrica a cura di Giulia Bocchio)

Domanda e risposta: due entità complementari, eppure l’una genera l’altra, in un interscambio potenzialmente infinito, mai esausto, mai uguale a se stesso. La sintesi dell’incontro, il binomio preferito della conoscenza. E della curiosità. “Intervista” è solo il nome che ne racchiude l’atto e l’intenzione ma, in questa rubrica, protagonista sarà il dialogo – l’incontro – lo scambio.  Esseri umani che hanno una visione e che si sono imbattuti nel proprio labirinto personale. Perdersi significa anche attraversarlo. E magari raccontarlo.
Creatività, arte, progetti, riflessioni, esperienze e uno sguardo rivolto al futuro, in quell’orizzonte  magnetico che è la parola.

Giulia Bocchio

 


Venti o venticinque non cambia niente, per me;
dai venti ai trent’anni tutti i giovani si assomigliano, sono infelici allo stesso modo,
assetati di attenzioni che non bastano mai.

È per questo che fanno cose strane per poi spiattellarle sui social.
Mendicano sguardi e approvazione estatica,
scariche di endorfina per distrarsi dalla solita abulia.

 


Leggete questo mio dialogo con Claudia Grande e dentro ci troverete delle immagini: per esempio la risata di  Bakunin, una terrificante giostra dipinta da Enrico Robusti, pappagalli al potere, DFW, un Uomo in affitto che è ancora là fuori, da qualche parte, e un buco nero che ogni giorno risucchia gran parte della nostra attenzione: i social. Non capirò mai che fine fa il tempo che quotidianamente baratto in nome dello scrolling infinito, ma ho letto giusto ieri un articolo che diceva che, loro, i social stanno benissimo, quelli morti (di noia) siamo noi. Credo che in parte sia vero, eppure c’è qualcosa di convulso in tutto questo gorgo di profili che scorrono, di content senza contenuti, e tutto sembra una lunghissima inserzione pubblicitaria pronta a ricordarci che ci mancherà sempre qualcosa. Ma che cosa? Questa risposta credo non sia in vendita. Niente codici sconto qui.
Parte di tutto questo sta diventando letteratura, perché c’è la necessità ancestrale di raccontare senza troppi filtri il nostro presente che è un’accozzaglia di controversie e novità, e così, in un flusso che genera se stesso, troviamo pagine ancora di carta che somigliano a una giornata trascorsa su Instagram. E questo fa riflettere e un po’ commuovere.  E un po’ paura.
È difficile liberarsi dall’ansia ma scrivere, scavare nella ferita, leccarla un po’, e poi leggere, leggere e ancora leggere potrebbe, non dico salvarci, ma riconnetterci con il vero, anche se non è detto che sia reale.
Provate con BBBK.


 

Claudia, bentrovata. In qualche strano modo Bim Bum Bam Ketamina, che è il tuo primo romanzo, mi ha ricordato certi quadri di Enrico Robusti perché dentro c’è l’eccesso e tutta la gamma di odori, umori e schifezze che caratterizzano l’essere umano quando nessuno lo vede (o crede di non essere visto). I personaggi che compaiono fra le pagine sono gli unti spettri di una società e una generazione al collasso: la nostra. Com’è nata l’idea di scrivere BBBK?

Intanto ti ringrazio per avermi ospitata sulla vostra rivista (bellissima!), e ancor di più per l’accostamento con Robusti: non potevi saperlo, ma è uno dei miei pittori preferiti. Rappresenta la volgarità e la grettezza umana con colori sgargianti che ne accentuano l’orrore. Davanti ai suoi quadri ci si sente a disagio, ma si prova anche una sorta di amara tenerezza per il fatto che i personaggi siano messi a nudo fin nei recessi più crudi e intimi e veri del loro essere dall’occhio impietoso dell’artista. Nel mio piccolo, volevo fare la stessa cosa: mescolare bellezza e terrore, per dirla con le parole di Rilke.  BBBK è nata come una raccolta di racconti. I personaggi mi si sono presentati uno per volta, prendendomi per mano e facendomi roteare sopra una giostra delirante come quella dipinta in Buco nero – Black hole, il mio quadro preferito di Robusti. Ero angosciata e al tempo stesso esaltata da quello che le loro voci mi stavano gridando all’orecchio, proprio come la donna del quadro, che sembra atterrita ed eccitata dal grottesco giro di giostra a cui è stata invitata a prendere parte.  Quando qualcosa mi angoscia, so per certo che ha senso scriverne. Scrivere è un sacrificio di sangue, parafrasando Céline; se non c’è una ferita suppurante di dolore, non c’è arte. Guardare il sangue ci spaventa – ci angoscia, per l’appunto; ma l’angoscia, l’inquietudine, ci spingono al movimento. Il movimento è vita, arte; la staticità è morte – lo dice anche (mutatis mutandis) lo Stalker di Tarkovskij. Cosa c’entra la bellezza in tutto questo? I miei personaggi sono abietti, ma anche innocenti. La violenza in cui esplodono è una reazione che simboleggia la loro manifesta impotenza, come gli animali selvatici che mordono le sbarre della gabbia in cui sono stati rinchiusi. Quando ho presentato il manoscritto alla mia casa editrice, gli ottimi professionisti del Saggiatore si sono accorti che i racconti erano accomunati dallo stesso nucleo di senso. Ecco perché mi hanno suggerito di cercare un espediente narrativo che potesse unirli, come un filo rosso che tracciasse un sentiero attraverso i territori inesplorati di una mappa. Il mio filo rosso è Roberto, l’Uomo in Affitto. Un tuttofare che svende sé stesso agli altri facendo qualsiasi lavoro, anche il più folle o il peggio pagato. Sarebbe lui stesso un personaggio di Robusti: l’uomo in mutande, spelacchiato e sciatto, le gambe magre e l’addome prominente, che vediamo nel quadro C’era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones. Roberto ha quasi quarant’anni. Vive a casa dei suoi genitori. Non ha amici. Non ha una compagna. Invidia tutti in segreto e di tutti in segreto s’innamora (cit. Osip Ėmil’evič Mandel’štam): i suoi datori di lavoro sono i suoi aguzzini, ma anche modelli distorti di successo capitalistico che Roberto desidera incarnare, a dispetto dell’odio che prova. Insomma: a furia di ascoltare la voce di Roberto, la mia raccolta di racconti si è trasformata in un romanzo di racconti. Roberto è il protagonista tecnico: si muove attraverso le vite degli altri per poterle svelare al lettore. Roberto è, prima di tutto, una persona vera: ho trovato i suoi volantini per le vie di Torino e a lui mi sono ispirata per creare il filo rosso che avrebbe legato le storie di BBBK. Non lo conosco, purtroppo; ma i ringraziamenti del romanzo sono tutti per lui, per Torino, per i volantini raccolti per strada.

 

 

Hai definito Roberto, la voce che ci accompagna, un moderno Virgilio. In effetti è come se ogni personaggio del romanzo vivesse in un proprio girone personale, substrato labirintico delle sue stesse nevrosi. Sono surreali, sfiniti, iperconnessi, gonfi di droghe, inaffidabili: eppure alludono sempre a qualcosa di vero…

Anche qui prendo a prestito l’arte di Robusti per formulare una risposta: i suoi personaggi sono estremi, esagerati, grotteschi, caricaturali; Robusti usa la tecnica del fisheye (ben nota in fotografia) per distorcere non solo i loro volti e la loro corporatura, ma anche gli spazi in cui si trovano a muoversi. Nel mio piccolo, provo a fare lo stesso: distorco quello che vedo per restituire al lettore una versione più autentica della realtà.  Mi spiego meglio: viviamo in un’epoca di catastrofi di portata globale (es. guerre, pandemia, crisi economica, crisi climatica) che rendono impossibile ponderare il futuro, difficile decifrare il presente. All’incertezza data da ciò che accade intorno a noi, si aggiunge quella generata dalla tecnologia: mi riferisco, giusto per fare qualche esempio, al proliferare di fake news sul web, alle AI capaci di creare contenuti falsi, alla narrazione straniante e straniata dei social, alla falsa verità messa in scena dai reality.  In un momento storico come questo, il confine tra realtà e finzione è sempre meno evidente: ecco perché credo che siano il surreale, il grottesco, lo straniante, il fantastico i generi più adatti a restituirci il vero oltre il vero, il volto autentico della realtà dietro le mille maschere che la vediamo indossare.

Comunque Instagram (e altre app subordinate) ha completamente cambiato la percezione che abbiamo del mondo e delle persone. Perché ci ha risucchiato a tal punto? Una dipendenza che, in alcuni casi, sta diventano letteratura. Chissà cosa scriverebbe oggi David Foster Wallace…

Parto dicendo che, nel mio caso, i social hanno guidato alcune scelte cardine del romanzo: in un presente in cui siamo iperstimolati da una bulimia di contenuti e informazioni, il modo migliore per raccontare il presente mi sembrava quello di adottare una struttura frammentata, non lineare, come è quella del romanzo di racconti. In un certo senso, l’effetto che volevo dare è proprio quello del feed di Instagram: è come se Roberto stesse scrollando il suo feed e passasse da un profilo all’altro, da una pagina all’altra, da una vita ad un’altra, cambiando profilo/personaggio non appena gli viene a noia.  Instagram, tutti i social ci attraggono perché riempiono: colmano gli spazi di tempo libero, facile ostaggio della succitata noia; gratificano il nostro ego, bisognoso di continue conferme; tappano la bocca al vuoto interiore che grida dentro di noi, consapevoli o meno del suo urlo muto. La nausea sartriana, il non-senso, l’abulia sono sempre in agguato; ma ecco che posso tirare fuori il mio cellulare dalla tasca e ridere di un meme, spiare la mia crush, caricare un video e vedere se agli altri piace. Posso colmare il vuoto, seppure con un espediente ad efficacia limitata e ad alto tasso di dipendenza. Come la droga. Ho molta familiarità sia con i social che con le droghe, non voglio fare la morale a nessuno. Quello che voglio dire è: il meccanismo è lo stesso. Riempire il vuoto con un’effimera scarica di endorfine. Quando finisce, è naturale volerne ancora. È umano volersi sottrarre all’orrore del non-senso esistenziale – scegliendo, piuttosto, il piacere. I social ci hanno portato vicini a una pericolosa disgregazione dell’io. Con queste app ci presentiamo al nostro pubblico nella versione che riteniamo più accattivante. Questo “avatar internauta” apparentemente ci mette in contatto con gli altri, ma in verità rischia di allontanarci dalla nostra parte più autentica, rendendoci più soli. Siamo monadi pirandelliane iperconnesse in una dimensione di solitudine digitale. Credo che possa essere pericoloso perdere il controllo di questa rifrazione illimitata dell’io, e della corrispondente illimitatezza della nostra intima, consustanziale solitudine. Chiudo citando David Foster Wallace (il mio scrittore preferito e il mio più grande “padre ispiratore”), che aveva già intuito la direzione verso cui stiamo andando, e come la letteratura possa aiutarci a limitare i danni: “Nel mondo reale tutti soffriamo da soli; la vera empatia è impossibile. Ma se un’opera letteraria ci permette, grazie all’immaginazione, di identificarci con il dolore dei personaggi, allora forse ci verrà più facile pensare che altri possano identificarsi con il nostro. Questo è un pensiero che nutre, che redime: ci fa sentire meno soli dentro”.

 

Enrico Robusti, Buco nero – Blacke hole

 

Analizziamo questa triade: sesso-social-meme. Insieme funzionano perché danno vita a qualcosa di hardcore che genera quella satira isterica e necessaria a sopravvivere, a dimenticare, almeno per la durata di un post, la stramaledetta ansia…

A Michail Aleksandrovič Bakunin, pensatore anarchico che, personalmente, adoro, è stata attribuita la frase: “Sarà una risata che vi seppellirà”. David Foster Wallace era all’incirca dello stesso avviso: diceva che, se si ride (istericamente, come facevi notare tu) di tutto, si toglie importanza a tutto. Non sono d’accordo, mi perdonino i miei maestri e punti di riferimento filosofico-letterari. Per me il problema non è la risata, per quanto isterica o forzata possa essere. Per me il problema, come provavo ad argomentare prima, possono diventare i social.
I social colmano il vuoto con una scarica di endorfine che può derivare dalla risata strappata da un meme, dall’eccitazione scatenata da un bel culo, dai like e i cuori collezionati dopo aver postato la foto del nostro godereccio aperitivo. Sono un palliativo, un cibo che manda in visibilio le papille gustative ma non sfama, non nutre veramente. Il riempimento è momentaneo; poi tornano la voracità insaziabile, l’abulia, l’ansia di postare ancora e ancora per ingozzarsi di gioia fittizia.
Mi rendo perfettamente conto di essere parte di questo meccanismo: gestisco diverse pagine Instagram/Facebook e, se descrivo i social con parole così taglienti, è proprio perché sento sulla mia pelle che cosa sono in grado di fare. Come dicevo prima, i rischi maggiori sono la disgregazione dell’io, lo scollamento dalla realtà, la solitudine; ma, se si riescono a gestire nel modo giusto, i social possono essere un ottimo mezzo per recuperare quell’empatia che per Wallace è vitale. Come? Tramite i social ho conosciuto molte persone con cui ho instaurato legami di valore nella vita reale. Ho trovato una piattaforma con cui parlare di letteratura confrontandomi con un pubblico sempre più ampio. Ho potuto raccontare in modo divertente il mio libro. Ho incontrato realtà culturali molto interessanti, come la vostra rivista. Ho partecipato a eventi, iniziative, festival in cui ho fatto amicizia con persone magnifiche. Ho iniziato a memare e, intorno, ai miei meme, si è creata un’affezionata community online con cui scambio idee, opinioni, pareri, sentimenti, emozioni.  La bellezza è possibile, anche sui social: se si tiene presente che dietro a quell’universo così perfetto, erotico, sfavillante, c’è ancora (per fortuna) la meravigliosa imperfezione dell’umano, allora queste app possono trasformarsi in uno strumento privilegiato per connetterci tutti, a un livello più intimo.

Genera una profezia: che ne sarà di noi fra mille anni? 

Ho letto da qualche parte che Alexa è in grado di comunicare con i pappagalli, dando loro istruzioni e ordini. Tra mille anni saremo sottoposti alla tirannia dei pappagalli di Alexa, che ci costringeranno a mangiare becchime, incollarci penne colorate sul culo e ripetere le stesse cose all’infinito finché non perderanno di senso. Ma non temete: giungerà un misterioso eroe a salvarci… no spoiler. Potrebbe essere la trama del mio prossimo romanzo. 

 

 

Infinite quest,
una rubrica a cura di Giulia Bocchio

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