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A posteriori è sempre facile trovare gli indizi giusti: Giaime Alonge, Un certo bisogno di socialismo (di Maria Oppo)

I libri, la lettura, non portano certezze, ma dubbi sostiene il giornalista e critico Piero Dorfles.
Sta proprio nel dubbio la chiave di un’esperienza di lettura vitale e costruttiva; questo dovrebbe portarci a diffidare dei libri troppo concilianti. Lo scopo principale dell’arte, infatti, è suscitare reazioni, colpire, e si sa che il bersaglio più interessante si trova proprio lì, nel fragile luogo dove riposano intonse le sicurezze, i nostri personali dati di fatto. Il ventre molle del pensiero.
Sulle responsabilità della Germania rispetto all’ascesa e all’opera di Adolf Hitler si è scritto e detto tanto. Il tema rappresenta un campo di discussione sfaccettato e non facile, che non sembra presentare margini di oggettività. Negli ultimi decenni i vertici della classe politica tedesca, da Adenauer fino ad Angela Merkel, non hanno mai smesso di fare mea culpa, sottolineando una forte distanza da quelle dottrine e forme di pensiero che a suo tempo condussero al genocidio più tristemente noto del mondo occidentale. Una tendenza all’autocolpevolizzazione che convive con fenomeni quali la pubblicazione postuma, nel 2017, del controverso saggio Finis Germania, nel quale lo storico Sieferle critica aspramente la cultura postbellica della memoria dell’Olocausto, attribuendo a questa la responsabilità di un indebolimento dell’identità tedesca. Fanno seguito le recenti dichiarazioni dei leader di estrema destra Alexander Gauland e Björn Höcke, che rifiutano energicamente qualsiasi forma di torto o mancanza del popolo tedesco rispetto ai fatti del secondo conflitto mondiale.
Si può ben capire quanto la questione sia complessa. La Germania, dopo la disfatta, si ritrova con un gigantesco trauma da elaborare e deve farlo con tutte le ambivalenze e le regressioni che spesso caratterizzano i percorsi di terapia. Come la si inquadra, dunque, come vittima o come carnefice? Si tratta pur sempre del popolo che ha legalmente eletto il partito di Adolf Hitler, il quale non aveva mai fatto mistero del proprio progetto di sterminio. Eppure, quanto è lecito accusare milioni di elettori di non avere immaginato l’inimmaginabile? O ancora, rovesciando la prospettiva: i tedeschi stessi, ai tempi, come riuscirono a fare i conti con il peccato originale, con una simile forma di atroce complicità?

Di “quello”, di ciò che era successo agli ebrei, non si parlava quasi mai. (…) Dopo il 1945, il genocidio degli ebrei era stato chiuso in una scatola, insieme a tutti gli altri orrori che la guerra aveva portato con sé, e messo in soffitta, come un paio di scarpe fuori moda. C’era un accordo tacito, cui Carlotta partecipava insieme a milioni di suoi concittadini.

 

Se un’abbondante quantità di inchiostro è già stata versata sulle colpe della nazione nel determinare l’ascesa del Führer, non si può infatti dire lo stesso delle implicazioni psico-antropologiche che la sconfitta ha avuto sui cittadini. Il romanzo Un certo bisogno di socialismo (Fandango), dell’attore e professore associato di Storia del Cinema Giaime Alonge, prova a colmare questo vuoto. E lo fa offrendo un punto di vista insolito sulla Berlino del dopoguerra; soffermandosi sugli aspetti più quotidiani, sui sentimenti e sulle vicende della gente comune. Il libro, ambientato tra il 1961 e il 1970, parla al lettore con la semplicità di una narrazione fluida, da prodotto cinematografico – come del resto si addice al percorso professionale del suo autore –.
Come diceva Stalin, gli Adolf Hitler vanno e vengono, mentre il popolo tedesco resta.
Come stavano, dunque, i berlinesi negli anni Sessanta del Novecento? Risposta breve: non così male, almeno all’inizio. Il libro ci restituisce il volto di una città calata in una sonnolenta normalità, lontanissima da quella che per consuetudine ci si immagina. Alonge sovverte infatti il cliché della Germania post-bellica sopraffatta e rancorosa, puntando la lente sulle persone, sui loro interrogativi, sulle loro manifestazioni emotive. Persone in tutto simili a noi, e altrettanto distanti rispetto a quella guerra che ormai non sembra più riguardarle.
Al contrario di quanto accadeva in Russia, lì (a Berlino ovest) non c’erano le code davanti ai negozi. Com’era possibile che in Unione Sovietica, uscita vittoriosa dalla guerra, la qualità della vita avesse un livello inferiore rispetto a una nazione che era stata sconfitta?
Un certo bisogno di socialismo ci racconta questo: i dubbi e i limiti umani. Fin troppo umani, in confronto all’enormità dei fatti di cronaca narrati. Ci racconta la capacità che hanno l’uomo e la storia di risultare concettualmente separati ma in fondo connaturati. La capacità di modellarsi a vicenda, creando quadri interpretativi via via più interessanti.
Da vero cineasta, Alonge porta avanti questo concetto con un montaggio gestito alla perfezione e uno sviluppo dei personaggi semplice, lineare. Nikolaj Yakovchenko, virtuoso colonnello del KGB. Klaus e Stefan, operai impiegati alla costruzione del Muro che decidono di tentare la fuga verso Berlino Ovest. Carlotta Lehndorff, scafata nobildonna bavarese (personaggio forse ispirato alla supermodella “Veruschka”, figlia del conte Heinrich von Lehndorff-Steinort impiccato per avere tentato di assassinare Hitler nel 1944). Katherine Wheleer, programmatrice di giochi di guerra, che può toccare finalmente con mano la materia studiata a tavolino per tutta la sua esistenza. Felix e Minna, il cui legame coniugale viene messo in crisi dall’ombra corrosiva degli eventi politici. Willy Brandt, sindaco di Berlino – realmente esistito –, gli scontri con il cancelliere Adenauer e l’ingrato compito di amministrare una città allo sbaraglio.
Né Brandt né nessuno del suo entourage aveva dato credito a quelle voci (sulla volontà dei sovietici di chiudere il confine) che suonavano confuse e allarmistiche. Ora, ovviamente, apparivano preziose indicazioni alle quali si sarebbe dovuto riservare la massima attenzione. Ma a posteriori è sempre facile trovare gli indizi giusti.
L’umanità, per sua natura, è infatti presbite: vede le cose con maggiore chiarezza quanto più riesce a distaccarvisi. Quando si trova immersa nel fluire degli avvenimenti, il quadro generale le sfugge, ed è lì che si concentra maggiormente sulle cose semplici: così fa il romanzo di Alonge. Vicende quotidiane, dunque, che si intrecciano e si fondono per le strade di Berlino, e una Guerra Fredda che incombe e si intromette sempre di più, come un personaggio invisibile deputato a turbare gli animi. I berlinesi, che ormai ne hanno viste tante, iniziano a notare i primi segnali del cambiamento. Tra tutti, quel misterioso cantiere che viene tirato su in una notte.

“Con la faccia contro il muro, io non mi ci faccio mettere”.
“Be’, non è proprio un muro”, puntualizzò Klaus. “è una barriera di filo spinato”.
“Vedrai che arriverà anche il muro”.

E il Muro arriva, e porta il caos. Quasi fosse un personaggio egli stesso, e avesse a disposizione un paio di occhi con cui assistere all’escalation di violenza e agitazione che gli si crea intorno. Le manifestazioni, le sparatorie, l’isterico accumulo di scorte di viveri, i tentativi di fuga, i baci, i pianti. Le varie linee narrative confluiscono agilmente in uno scenario che si fa sempre più caotico, in una Berlino che è emotivamente coinvolta al pari delle persone che la abitano e che, perfino in mezzo alla catastrofe, offre occasioni di intimità e momenti di umorismo. Una città che, anche sullo sfondo buio pece della guerra, si lascia ancora illuminare da piccolezze e insignificanti drammi personali.

In un paio di occasioni, Brandt aveva tentato di smettere (di fumare), e trovava che il sapore dell’ultima sigaretta fosse tutto speciale. L’ultima sigaretta profuma di vittoria su sé stessi, e inaugura una nuova epoca all’insegna della forza e della salute. Sotto questo punto di vista, c’era un legame sottile tra fumo e socialismo.

Il romanzo – come la classica trama di un film – culmina quindi in un picco narrativo e si scioglie così, in un graduale calo della tensione che poi coincide con una nuova fase della storia. Nel frattempo anche lei, la Storia, è andata oltre e si dirige ormai verso la fine del conflitto in Vietnam.
Berlino può finalmente concedersi un momento di tregua. La trama si conclude facendo il punto sulla situazione dei personaggi: un po’ ammaccati, un po’ trasformati, sicuramente più solidi. Di lì a poco, sul finire del decennio, in giro si dice che inizierà un’epoca nuova, caratterizzata da pace e armonia. Inizierà – o perlomeno, questo hanno bisogno di credere le persone – la tanto attesa Era dell’Acquario.
Forse è questo il messaggio ultimo dell’opera: la storia non è una materia ultraterrena, non è cosa aliena da noi e non è spinozianamente determinata. Essa ci accompagna, cammina insieme a noi e in un certo senso è noi, che in lei siamo destinati a compiere sempre gli stessi errori e da quelli ricavare preziose lezioni che ci impediranno di ignorare e di sbagliare ancora. Per portarci finalmente in salvo.
Almeno finché la memoria ce lo consentirà.

Di Maria Oppo 

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