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L’ultima cosa bella sulla faccia della terra (non è detto che sia una cosa). Il primo romanzo di Michael Bible (di Giulia Bocchio)

Quello che all’epoca ritenevo un problema era semplicemente la vita.
Non era né un bene né un male.
Era e basta.

 

 

L’ultima cosa bella sulla faccia della terra non è detto che sia una cosa, ma è comunque il titolo del romanzo d’esordio del giovane scrittore statunitense Michael Bible, tradotto in Italia per Adelphi da Martina Testa. È un romanzo breve, con un incipit che potrebbe essere un epitaffio:

Eravamo innocenti. Convinti di essere speciali. Sbronzi tutti i weekend al centro commerciale. Il mondo era nelle nostre mani. Non ci importava del tempo. L’amore era una cosa scontata. La morte aveva paura di noi. Adesso abbiamo il grigio sulla barba. Il cielo è un livido viola. Il centro commerciale è morto. Siamo i vecchi che avevamo giurato di non diventare mai.

In queste poche righe iniziali la eco di una voce lontana traccia i profili di una cornice narrativa asfittica, come asfittico è il luogo fisico e rurale in cui si intrecciano le trame di vite disorientate, quasi rassegnate a un principio di svuotamento interiore dettato dall’impossibilità di autodeterminarsi, di andarsene davvero una volta per tutte.
Chi ci ha provato ha scelto il fuoco, ma le fiamme non hanno cancellato né il dolore né il senso di inettitudine perenne e latente, hanno solo acuito la rabbia e il disprezzo e trasformato la morte sociale di un uomo nella sconfitta di un’intera civiltà attraverso la pena di morte inflitta a lui, a Iggy, che un giorno si decide: vuole uccidersi e sceglie la chiesa. Ha della benzina con sé, vuole darsi fuoco. Prende un fiammifero, lo accende, c’è la funzione nel frattempo, è facile procedere e dal fondo, con la sua fiammella tremolante, il passo emerge dalla preghiera: ma è un inciampo, come tutto il suo passato, la benzina si rovescia e quel fiammifero cade, dando fuoco alla chiesa in un lampo di luce istantanea, uccidendo venticinque fedeli. Da quel momento Harmony, una cittadina anonima del Sud degli Stati Uniti, quelle tipiche lande desolate in cui non succede mai niente, è adesso sulla bocca di (quasi) tutti. Niente e nessuno sarà più lo stesso ad Harmony, la tragedia segna un prima e un dopo nelle vite di chi è sopravvissuto a quella disperazione di fuoco.
Iggy, l’unico che voleva morire, si salva e in attesa della pena capitale, dall’angolo umido e semi illuminato della cella ripercorre il suo passato, le persone che ne hanno fatto parte e che in una certa misura somigliavano a quel fuoco in chiesa, erano fiamme avvolgenti, fiamme che la vita, però, s’era impegnata a spegnere. Nella vita di Iggy c’è(ra) stata Cleo, il primo selvaggio amore e poi Paul, la versione viscerale, incontrollabile e fluida dell’amore, vissuto senza etichette, senza definizioni, senza illusioni. Per un periodo, i loro corpi e le loro menti, erano state un universo alternativo e possibile, c’era un legame speciale fra queste tre persone così irrisolte eppure così presenti di fronte al tedio insopportabile del reale, così diverse. Si amavano e s’erano scelti il modo e sembrava già questa una rivoluzione, ma in cittadine anonime e timorate come Harmony sono cose che non durano.
Iggy non ha più nulla, ciò che resta dei ricordi è ora un senso di amara sospensione, trattenuta dall’unica immagine che resta all’uomo condannato a morte dallo Stato, un albero: “Ho visto che i fiori del corniolo erano caduti quasi tutti. Le giornate calde dell’estate stavano per finire e faceva ogni mattina più freddo. Volevo veder cadere quell’ultima fioritura. Sentivo uno strano legame. Come se fosse l’ultima cosa bella sulla faccia della terra”.

La nuvola rossa, David de Las Heras (2011)

Le pagine del romanzo non ruotano solo intorno ai ricordi di Iggy, che si consumano fra immagini mentali e un tempo ormai agli sgoccioli, il racconto di Bible è un racconto corale perché, come in ogni cittadina che si rispetti, ogni vita è collegata ai segreti del vicino, tutti sbirciano, tutti parlano, tutti credono di possedere la versione esatta della verità. Ma la verità è una variabile che nessuno controlla. Nemmeno Trudy, l’ormai anziana insegnante dell’Accademia cristiana di Harmony (e in generale l’insegnante di tutti), educatrice violentemente omofoba, che a lezione definiva Whitman e Wilde “peccatori nelle mani di Dio”, omettendo a se stessa l’omosessualità del figlio Johnny, detto Johnny Belladonna. C’era anche lei quel giorno in chiesa, c’era andata nonostante un tremendo raffreddore, che avrebbe scoraggiato chiunque ma non lei, perché aveva dato la sua parola a un bambino ed è proprio accanto a quel bambino che prenderà posto. Lo salverà.
Lei, il bambino e il suo ex alunno Iggy sono tre sopravvissuti, nulla li accumunava, ora a legarli c’è la rielaborazione di quel ricordo e  l’odore della carne bruciata. Quando guarda Iggy cosa vede? Le chiede l’avvocato durante il processo.  Vedo un ragazzo che aveva un grande potenziale, risponde Trudy.
Anche lei ha perso tutto, suo figlio, i fedeli della chiesa, ha perso l’ordine logico delle risposte che avevano scandito la sua intera esistenza. Trudy ha costantemente combattuto ideologicamente tutto ciò che Cleo, il primo amore di Iggy, ha inseguito, perdendo(si) a sua volta. Perché anche Cleo, seppure ribelle e anticonformista è vittima della stessa società bigotta e patriarcale, vittima della violenza degli uomini, di una setta addirittura. Il suo cammino umano di adulta si annoda alla desolazione di Harmony-Hell, nulla cambia davvero da quelle parti, persino il lutto corale che gli abitanti portano dentro è diventato una di quelle storie che si raccontano come leggende appartenenti a un tempo antico, ancestrale e maledetto. Eppure è il presente. Sono questi anni.
La scrittura di Bible è essenziale ma anche sospesa, tragica, di una malinconia appena sussurrata, resa efficace dall’ottima traduzione di Martina Testa. Come nella scrittura di Faulkner, e in una larga parte di autori della letteratura americana, c’è una vicenda apparentemente univoca a contornare la narrazione, ma è proprio questo aspetto a frammentarne il discorso in un ostinato flusso di coscienza all’interno del quale ogni personaggio è il riflesso della propria solitudine.
E così non sembrano più le persone a parlare, ma il luogo stesso, la natura della polvere, il legno della chiesa, le sbarre della cella, la biblioteca, le foglie di quello stesso corniolo. I testimoni silenziosi di ogni stagione e di ogni ultima, intima, personale cosa bella rimasta sulla faccia della terra.

 

Di Giulia Bocchio

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