Potrebbe fare tanto per me se solo lo volesse. Potrebbe fare tutto, per me. È come se per me tutto, al mondo, fosse dentro un barile di budella, sicché ti domandi come faccia a esserci posto lì dentro per qualcos’altro di tanto importante
Dewey Dell
Tuo figlio che ti costruisce la bara, tu che costruisci la bara a tua madre, lui quella bara avrebbe potuto farla meglio, le torte stanno andando a male e ho sprecato le uova, devo trovare un modo per abortire in fretta, essere sepolta a Jefferson almeno, mai visto un luglio così, vivrà in manicomio: i suoi denti nuovi.
Non sono parole alla rinfusa, sono punti di vista, sono voci, sono il tempo: questo è ciò che fa la scrittura di William Faulkner, pilastro della letteratura americana del XX secolo, insignito del Premio Nobel nel 1949, un riconoscimento universale che, qualche anno dopo, investirà anche Hemingway, la sua controparte minimalista a quei tempi.
Se la trama è il calco di un’idea, lo stile è l’inconfondibile impronta della storia: solo lo stile può macchiare un personaggio, svuotarlo della morale, ucciderlo. E dunque renderlo immortale.
Senza lo stile, senza un certo disperato modo di costruire un intreccio, un’atmosfera, una tensione emotiva, non ci può essere letteratura. Il senso profondo della scrittura è in fondo questo, un tentativo lacerante di aggrapparsi al mondo, storture comprese, affidando alla parola il controverso compito di rimanere per noi, di permanere oltre la nostra stessa finitudine. In un capolavoro, in fondo, muore sempre qualcuno: prima di tutto il suo autore, o la sua autrice.
Rileggere Faulkner è certamente un’intensa lezione di scrittura ma, come ogni lezione sul tema, è meglio stare lontani dal puro metodo. Si tratta di un inconfondibile plasmatore del linguaggio, un modernista della letteratura americana degli anni Trenta, che piega le frasi, rendendole contorte e sinuose, per una nuova genetica creativa all’interno della quale vige solo un frammento dell’infinità racchiusa nell’essere umano. Un qualcosa che può riassumersi in una frase de L’urlo e il furore «L’uomo è la somma delle sue esperienze climatiche, diceva il babbo. L’uomo è la somma di tutto quello che vuoi», ma il flusso di coscienza, il tempo senza cronologia, sono quel tipo di sottrazione letteraria che riempie il vuoto stesso dei personaggi, specie quelli inseriti in contesti familiari decadenti, ingobbiti da povertà, doveri morali, morte e fatica, voci la cui potenza può permettersi d’essere inaffidabile. D’altra parte la realtà è un personale svelamento progressivo, uno sconvolgente frugare nella polvere – parafrasando un altro grande titolo – un’illusione ottica che il gergo stesso contribuisce a generare.
Per scrivere Mentre morivo – forse il testo migliore per scoprire l’abisso di questo genere di scrittura – nel 1930, Faulkner, utilizzò una carriola capovolta come tavolino e una polifonia di monologhi sinuosi, psicologicamente complessi, in una costante intersecazione di sinapsi e sentimenti contraddittori, eccellente catottrica dei legami familiari. Perché si sa, ogni nucleo ha i suoi problemi, e i Bundren, poveri, ancestralmente legati alla terra e al lavoro, non fanno certo eccezione. Nell’estate tragica del presente narrativo ne hanno uno di natura pratica di difficile gestione: mamma Addie è morta e va seppellita in fretta a Jefferson, suo unico, ultimo, desiderio. La morte non ha nulla di pratico per chi è vivo, specie per un uomo come Anse, Pà, il vedovo, il padre, lo svuotato. Trasportare un cadavere in putrefazione per miglia e miglia, su un carretto instabile, insieme ai cinque figli – Cash, Darl, Jewel, Dewey Dell e Vardaman – in un luglio soffocante e piovoso che piega la stessa Yoknapatawpha una contea immaginaria del sud degli Stati Uniti cara all’autore, è il peggio, è l’obbligato contrappasso emotivo di ognuno di loro.

Un ostinato flusso di coscienza brutale e sospeso s’insinua sotto i denti di questi figli e di questo padre, lascia nelle loro bocche senza saliva un sapore dal disgusto individuale.
C’è qualcosa di gotico nel sentire l’intenso odore delle viscere di tua madre morta e sapere che dentro di te, l’amore fattosi sperma, si sta trasformando in qualcosa di altrettanto concreto e nauseabondo. Tra pathos e corpo lo stile di Faulkner non risparmia ai personaggi qualcosa di oscuro e di comico, tutto è così tragico da risultare grottesco, metaforico.
La vicenda è il frutto del punto di vista di chi muore, di chi vive e di chi, suo malgrado, si trova a respirare l’odore della carcassa. Non esiste un ricordo univoco, se una vicenda ci accomuna, quella vicenda allora si sdoppia, quello che tu racconti potrebbe essere il dettaglio che io ho cercato di dimenticare. Quello che un personaggio cerca di seppellire, Faulkner lo riesuma, per una una necromanzia della percezione.
La storia muta a seconda di chi parla, ogni pensiero monologante è un segreto o un rimorso, una diversa versione della vita. La famiglia Bundren è diventata una comunità silenziosa e indolente, perché il dolore – fisico ed emotivo – non ha più nessuna autorevolezza, è stato soppiantato da un bisogno primario: sbarazzarsi di quel corpo e seppellirlo degnamente insieme a una vita di rinunce e schiene spezzate.
Il rito della sepoltura si trasforma così in allegoria, quasi un’epopea, un’Odissea (non è un caso se il titolo stesso del romanzo fa riferimento proprio a un passaggio del poema, contenuto nel Libro XI), un passaggio biblico che nel momento dell’inondazione sembra spazzare via ciò che resta della speranza. Si crepa la bara di Addie e si crepano gli equilibri, le sopportazioni reciproche. Ma sopravvivere significa aver rinnovato un patto con il proprio sangue, per quanto tu ne abbia perso, la ferita non è stata fatale, è stata rigenerazione. Il salasso necessario, la tua sanguisuga personale.
Al resto penserà il Signore.
Lo scenario è brutale, brutale è ciò che Dewey Dell subisce convinta di abortire, brutale è la pazzia attribuita a Jackson, eppure qualcosa di celestiale e terrifico chiude il libro, un’immagine che la scrittura di Faulkner restituisce in maniera sublime, eccolo l’artiglio dello stile: il riflesso dei denti nuovi che Anse si è procurato a Jefferson. Dentro quella bocca c’è l’umile e goffo ghigno del mondo, l’alito di un’umanità che pur di sopravvivere ti succhierebbe il midollo.
A cura di Giulia Bocchio