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C’era sempre stato il sesso: ‘Shmutz’ di Felicia Berliner (di Maria Teresa Rovitto)

«Come ha cominciato a guardare porno?» «Ho cercato su Google». «Ha cercato pornografia su Google?». Raizl scuote la testa: «Ho cercato “Der Bashefer”, per vedere cosa si dice su internet del Creatore e poi ho cercato…». Non si può pronunciare il nome santo. Era stato più facile digitarlo che dirlo a voce alta […] «Così ho provato col nome D-o (1) e sono venute fuori un sacco di immagini di uomini!». Raizl sapeva che i goym (2) veneravano un uomo, ma per lei vederlo raffigurato era stato comunque sconvolgente. In una delle immagini, un uomo dalla chioma e dalla barba fluenti, sporgendosi da una nuvola, protraeva il dito a toccare la mano di un altro uomo nudo. «Dopo, ho avuto un’altra idea. Ho scritto “bacio”. Perché su internet trovi foto di qualunque cosa. Tu gli dai una parola e internet restituisce immagini…. Volevo altre foto. Di tutte le cose che non avrei potuto trovare altrove. Ho cercato “sesso” e ho trovato i video. (pp. 20-21).

 

Raizl, la protagonista di Shmutz di Felicia Berliner (Mar dei Sargassi, 2023, traduzione di Marina Finaldi), ha diciotto anni ed è un membro della comunità chassidica di Brooklyn, ebrei ultraortodossi (haredi); un gruppo non omogeneo che comprende più orientamenti spirituali e culturali, chassidici, correnti lituane ashkenazite e sefardite orientali e che, negli ultimi anni, abbiamo avuto modo di conoscere meglio attraverso serie tv, quali Unorthodox, Shtisel o film d’autore come Shiva Baby. Una delle regole della comunità è il divieto di utilizzare internet, ma Raizl fa eccezione solo perché aiuta economicamente la famiglia: studia contabilità e ha trovato nel frattempo un lavoro che le permette di provvedere agli studi della Torah dei fratelli nella yeshiva, scuola religiosa per soli maschi.
Quando Raizl inizia a manifestare un’idiosincrasia verso la pratica del b’show, ovvero degli appuntamenti combinati al fine di trovare marito, con grande preoccupazione della famiglia, inizia un percorso di analisi, le quali sedute diventano il pretesto e la cornice della narrazione. Ci troviamo chiaramente nella sfera di influenza di Philip Roth e, in particolare, del suo Lamento di Portnoy, ma davanti a una narrazione decisamente più pudica e meno pronta a dissacrare i valori e i ruoli della comunità ebraica e, in modo speculare, quelli di tutta la società americana. Ma da Berliner, al suo esordio, non si pretende di certo che regga il confronto con lo scrittore.
Alla dottoressa Podhoretz lei confessa il suo segreto, quello che ritiene essere anche la causa del suo progressivo allontanamento dalla comunità e dalle sue regole, ovvero l’avere sviluppato una forma di dipendenza dal porno. 

«Qualche volta, a Shabbes, dico che sto male così posso restare a casa mentre gli altri vanno alla shul di mattina». Allora fantastica di sé, sola a casa, nella quiete, di come sarebbe udire le sculacciate e i risucchi del porno, i gemiti. Tenere accesa la luce blu dello schermo lasciando spente tutte le altre. Ma non si decide mai a farlo. Persino quando è sola, nell’appartamento, è circondata da Shabbes: «Non accendo il computer. Osservo Shabbes. Questo è quando sono malata». Smettere con il porno significa che Raizl indossa il suo bel vestito di Shabbes e cammina verso la shul con sua madre, in silenzio e cupa come una ragazza con il mal d’amore. Il computer la consuma» (p. 49)

Shmutz (3) è un romanzo di formazione che si concentra su un’iniziazione: l’iniziazione della protagonista alla sfera sessuale vissuta nei suoi eccessi: da un lato, la repressione della sua comunità religiosa di appartenenza e, dall’altro, la sua rappresentazione pornografica e, dunque, finzionale, che può diventare estrema o, in ogni caso, farsi portatrice di una serie di bisogni indotti che, in una condizione di libertà sessuale, non corrisponderebbero probabilmente ai suoi desideri; meccanismo elementare per una fiorente industria, propaggine del sistema capitalista, come quella del porno.
L’autrice, abile nel cogliere le potenzialità narrative dell’esistenza contraddittoria di un’enclave religiosa nel mondo contemporaneo con il suo carico di iperconnessione virtuale, mette a nudo il disagio quotidiano di un personaggio che per sottrarsi a un ambiente radicalizzato si ritrova però immersa in un’altra forma di dipendenza che, superata la fase iniziale di curiosità e scoperta, vive con un malessere di pari intensità. 

Raizl ha preso ad abitare un sistema di simboli che le pare curiosamente familiare. Anche la spiritualità è un sistema di simboli. Oggetti comuni (una mela, una gonna nuova, un bel voto) le vengono presentati come prove della volontà di D-o. Un motivo per pregare o rendere grazie. Se cade mettendo il piede in fallo, anche quello rappresenta un segno di Der Bashefer. La pornografia opera in modo diverso ma equivalente. Gli oggetti fanno parte di una scenografia sessuale, i gesti sono stimolo dei sensi. Una mela è qualcosa che si addenta in modo seducente, se c’è un uomo nei paraggi. Labbra rosse, imbronciate di rosso, una gonna sul punto di essere sfilata. C’era sempre stato il sesso, dietro a tutto, solo che lei non era in grado di vederlo? Proprio come chi non è religioso non scorge D-o in tutte le cose. (p. 30)

Ma l’esperienza di Raizl può essere circoscritta a quella di una giovane donna chassidica che conosce il sesso solo attraverso la fruizione di porno e esplora il suo corpo sessuale attraverso tale unità di misura? Cosa può dire di noi, con le dovute sfumature, e del nostro rapporto con questo mondo? Noi che pur non appartenendo a un gruppo sociale così connotato da un punto di vista religioso, potremmo non vivere il porno in modo poi tanto diverso dalla protagonista. La descrizione di queste dinamiche diventa universalmente riconoscibile? Riconducibile a esperienze più diffusamente condivise?
Questo romanzo può dirci qualcosa sulla nostra esperienza immersiva del digitale, sul nostro desiderio, sul nostro timore di finire a relazionarci come avviene nell’indistinto del porno, perdere l’unicità dei nostri corpi, essere risucchiati nella coazione di un’insoddisfazione interminabile, ma al tempo stesso essere attratti da tale meccanismo; ci parla dell’inganno della promessa di un godimento immediato, della nostra fascinazione (forse inclinazione) verso la compilazione e la ripetizione delle azioni, nel porno portata allo stremo, del pudore che resta dopo aver visionato un contenuto e che ci impedisce di parlarne con gli altri facendone un normale argomento di conversazione.
Resta un terreno scivoloso che vede il confronto di diverse posizioni all’interno degli stessi Porn studies: dalle teorie del movimento del Fourth-Wave feminism alle teorie queer sulla pornoresistenza. Punto di partenza di ogni conversazione dovrebbe essere, certo, la consapevolezza che il porno è una finzione, in qualsiasi forma e genere venga distribuito, dal mainstream porno a quello eticamente sostenibile; ma non è forse attraverso la finzione che da sempre cerchiamo di avvicinarci a una verità che ci riguarda?
Shmutz, da leggere per capire come e se Raizl riuscirà a gestire la distanza tra il mondo ora violento, ora disinibito e osceno, ora ludico del porno, l’unica messinscena del sesso che conosce, e la realtà, non si sottrae alla logica dell’arco di trasformazione del romanzo di formazione e si conclude nelle ultime pagine con una nota (forse) distensiva:

Anche se l’aveva bocciata, il professor O’Donovan le aveva insegnato una regola fondamentale: se il dramma finisce con un matrimonio, è una commedia, non una tragedia. (p. 278). 

Di Maria Teresa Rovitto


Note

(1) Un modo per evitare di scrivere il nome sacro e, così, evitare il peccato di pronunciarlo invano. Il testo è ricco di parole e espressioni in yiddish che la traduzione in italiano mantiene avvalendosi di un glossario

(2) I non ebrei

(3) Sporco, macchia o lerciume (letterale); sconcezza, pornografia; qualcosa di indecente o profano (gergale).

Di Felicia Berliner si sa poco. Vive a New York, è laureata alla Columbia in discipline artistiche e tiene corsi di formazione per creativi. A leggere gliel’ha insegnato sua madre prima di cominciare la scuola. Ha frequentato una yeshiva a Los Angeles. Felicia afferma che, sin da subito, è stata attratta dal fascino dei libri, soprattutto dall’idea di far provare qualcosa alle persone con le parole. A lei è successo per la prima volta con L’urlo e il furore di Faulkner, letto quando era troppo piccola per assorbirne la trama ma non così piccola da non essere investita da emozioni potenti. Fra le sue influenze letterarie cita la Torah e Toni Morrison, Bernard Malamud e Clarice Lispector, dichiarandosi alla ricerca di una sorta di realismo magico ebraico.

 

In copertina: Enrico Robusti, “Proclamazione di Miss Vomito” (particolare). Olio su tela, 100 x 120 cm, 2022

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