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Speciale Premio Strega Poesia 2023: Le campane, Silvia Bre (una rubrica a cura di Annachiara Atzei)

Silvia Bre ha un rapporto stretto con la parola. Nei suoi versi, la lingua manifesta la sua essenza.
Nata a Bergamo, vive da molti anni a Roma. Esordisce nel 1990 con la raccolta di poesie I riposi (Rotundo), cui seguono altri lavori, grazie ai quali vince, tra gli altri, il Premio Montale con Le barricate misteriose (Einaudi, 2001) e il Premio Viareggio con Marmo (Einaudi, 2007). Usciranno, negli anni successivi, altre sillogi quali La fine di quest’arte (Einaudi, 2015) e il recente Le campane (Einaudi, 2022), candidato alla prima edizione del Premio Strega Poesia.

 

Ma Bre non è solo scrittrice di versi misteriosi e incantatori, è infatti nota traduttrice di Emily Dickinson e dello statunitense Robert Frost. Il rapporto con Dickinson nasce molto presto. Fin da giovanissima, legge avidamente le sue poesie cogliendo, col tempo, i molteplici strati di senso che i versi della poetessa americana racchiudono, fino a diventarne appassionata studiosa. Per Einaudi, traduce Centoquattro poesie (2011), Uno zero più ampio (2013) e Questa parola fidata (2019). Tradurre, per Bre, è uno dei modi per aggirarsi nella lingua e afferrarne il significato talvolta sfuggente, quasi come se le parole chiedessero di essere interpretate per poter parlare, per potersi esprimere. Se con Dickinson il rapporto è quello di una naturale affinità e istintiva vicinanza, quello con Frost è, in qualche modo, più casuale perché il lavoro sui suoi testi nasce dalla voglia di riscoprire in Italia uno scrittore tradotto solo negli anni Sessanta. Oggi, i testi di Frost sono contenuti nel volume pubblicato nel 2022 per Adelphi dal titolo Fuoco e ghiaccio, curato da lei e da Ottavio Fatica. Bre approccia a Frost – come lei stessa ha dichiarato in un’intervista – come al poeta del dolore e della natura, intesa come la natura delle cose e della vita umana, sofferta negli oggetti della quotidianità.
Scrittura e traduzione sono arte e l’arte della poesia testimonia la vita. E quando scrive, anche Silvia Bre ha questo intento, quello di dare voce all’uomo, di far sì che l’uomo esca dall’ignoto e ottenga garanzia di eternità. Ne La fine di quest’arte, l’autrice ne delinea, appunto, il percorso che, dalla pagina – quando si tratta di letteratura – si disperde nella vita di ciascuno, attraversandola e dilatandola. “Dire non è sapere”, scrive Bre, ma è più un modo di stare al mondo, un cammino di edificazione del sé. La scrittura, così come la lettura, sono una declinazione del pensare e, dunque, uno strumento di affrancazione e libertà.
In questo, la scrittrice dichiara il suo amore per la poesia – così come per la parola, la lingua e il linguaggio – che celebra in tutto il suo percorso letterario come anche nell’ultima opera. Le campane, infatti, molto ha a che fare con il rapporto sentimentale e viscerale di Bre con i versi, che compone con parole esatte, puntuali, nel tentativo di raccogliere l’indicibile, il senso ultimo delle cose.
La lettura de Le campane non è di immediata intellegibilità. Nella scrittura di Bre si entra pian piano per cercare di orientarsi tra versi che continuamente rimandano a un senso ulteriore e distante, pure se racchiuso nelle parole. Di certo, il titolo della raccolta evoca un suono, una musica dal significato ambivalente, perfino arcano che qui, a differenza di tanta poesia novecentesca, non è un simbolo, ma vero e proprio significante. Non stupisce, quindi, che i versi che aprono il libro si riferiscano proprio alla campana come strumento per dare forma al mondo: “Vuoto di mondo il cielo/ de profundis clamat una forma./ Manda se stessa una campana/ lo inonda di impermanenza/ suona”.
Subito si è colpiti dalle scelte semantiche dell’autrice che fanno delle vibrazioni sonore le protagoniste della raccolta. Tutto sembra riportare a un ritmo primigenio, alla voce delle cose e, ovviamente, alla preistoria acustica della poesia che “canta all’aria/ vaga prima della vita”. Cori di spighe, mugolii di rocce, un’aquila che urla il cielo sono alcune delle note di una melodia di cui la poesia si fa scrigno e, allo stesso tempo, cassa di risonanza. Lungo la linea del tempo, che da una remota origine giunge all’ora, le parole sono un appoggio – come, nel canto, il sostegno del diaframma – o un impiglio, in cui, come scrive Bre, “l’attimo del suono sembra eterno”. La poetessa cerca di definire l’esistere rimanendo sospesa nell’adesso – un adesso incognito – in cui tutte le voci ondeggiano insieme, ardono nel significato del linguaggio. Così, intercetta un qualche senso della vita, una forma di verità non sempre decifrabile e coglie un accumulo di valore che esiste ancor prima di noi e che viene da distanze incalcolabili.
Ed è proprio il lontano uno dei concetti chiave di questo lavoro di Bre. Qualcosa è cominciato ancor prima che lo potessimo percepire distintamente e definire. Il ritmo antico del nulla ci accompagna, ci sostiene – come cullati – e spande il suo tremolio. Laddove le parole non trovano il significato esatto, lo promettono, rimandano ad esso legate armonicamente dal suono che – lui solo – ha la capacità di incantare. Molto del significato della poesia, allora, si coglie nella continua rilettura, mentre ci si abbandona al fluire dei versi ripetendoli di continuo, come se le parole fossero sempre nuove.

Silvia Bre, fonte nottetempo

Fino alla noia citerò Manganelli che ne Il rumore sottile della prosa scrive: “È impossibile ‘leggere’ una poesia e procedere per la propria strada (…) La parola ovvia e consueta, letta e riletta diventa densa di una dinamica inattesa (…) le parole via via si spogliano del loro significato, e riappaiono come allusione, suono e tessuto di ritmo”. Ma c’è anche un altro autore contemporaneo che della rilettura delle poesie ha fatto un culto, Valerio Magrelli, che in un componimento notissimo dice: “Le poesie vanno sempre rilette,/ lette, rilette, lette, messe in carica;/ ogni lettura compie la ricarica,/ sono apparecchi per caricare senso,/ e il senso vi si accumula, ronzio/ di particelle in attesa,/ sospiri trattenuti, ticchettii,/da dentro il cavallo di Troia”. Potere della letteratura, che coinvolge e seduce.
Cos’altro cela Le campane è difficile da sintetizzare. Senz’altro un discorso sul tempo, su come lascia la sua traccia prima di scomparire del tutto, o, anche, un profondo rispetto per la vita e la morte – che le campane celebrano o commemorano a seconda dei casi – riverberando un senso di nostalgia e impermanenza così come lo sono l’esistenza e la sua perdita. Di tutto ciò che passa e ci oltrepassa resta una sorta di riverbero o, meglio l’impronta di un suono, sotterraneo e riconoscibile e che è parte di noi come lo sono ossa e carne. Con esso ci confondiamo, in esso ci perdiamo – come nella poesia – come rito salvifico.
Perdersi nella musica dei versi, allora, nel loro procedere ipnotico è una delle possibilità che ci vengono date. Questo è l’omaggio di Silvia Bre alla Poesia.

 

Speciale Premio Strega Poesia
Una rubrica a cura di Annachiara Atzei


Cinque poesie da Le Campane (Einaudi, 2022)

La parola è un impiglio, poi crolla
come ogni monumento
e l’incontro si scioglie
(nell’ingorgo dei suoni si incaglia
un attimo di senso
e l’attimo nel suono pare eterno

smette quando
di colpo lo convince
la deriva del tempo lì attorno)

non esiste altro evento che questo

che la vita di ognuno apparsa
nella croce che la toglie.
*

È l’adesso è perenne
non si calma il suo tremito lungo
che gela il pensiero
tanto è nudo di pentimento
e senza un’orma
la sua costanza è ancora più fedele
del suo eterno fulmineo tradimento
le voci ardono in lui tutte presenti
è innamorato è tutto trasparente.
*

Rosa, retta da un velo, la vergine di spine
fa un cerchio che imprigiona e dopo uccide
queste sirene che dicono la guerra
girando intorno alla stessa vita e qui le scambiano.
Vai a continuare, vai a finire l’opera oltre i confini.
L’istinto del pensiero può placarsi.
Specchiarsi in queste parole è il paradiso.
*

È un temerario dio a respirare oltre,
un alito che spalanca l’impalcatura
per averci come siamo? Un sogno disumano lo canta
non oltre le cose ma in loro: identica indistinta
nel fosco vapore del tu, meraviglia,
perché ti riconosco, sbandieri
che divampa su tutto, il ritmo antico del nulla.
*

Questo diventi, mia acuta differenza
spartita dalle correnti d’aria, squilibrio
rincorsa, tuoni di nostalgia in un suono perso
che si fa dilaniare a ogni rimbombo.
Ma io resisto, ti sto murando col gesto del vento
ti tengo ferma via da me
ti impongo all’universo.

Una replica a “Speciale Premio Strega Poesia 2023: Le campane, Silvia Bre (una rubrica a cura di Annachiara Atzei)”

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