, ,
Pastello n. 22 (2023)

La scrittura è essa stessa forma e colore: dalla poesia alla pittura, intervista a Biagio Cepollaro (a cura di Andrea Carloni)

Biagio Cepollaro, nato a Napoli nel 1959, è già noto come scrittore (autore delle trilogie poetiche De requie natura del 1997 e Il poema delle qualità del 2017 e del romanzo La notte dei botti del 2018), come teorico del “postmoderno critico”, promotore del Gruppo 93, pioniere dell’editoria elettronica, fondatore della rivista Baldus e redattore de Il Verri.
Nei primi anni del 2000 inizia la sua attività di artista visivo, abbinando la scrittura poetica al gesto pittorico, quest’ultimo esprimendosi nel tempo in modo sempre più indipendente. Ne sono esempi le mostre Nel fuoco della scrittura fra Roma, Napoli, Piacenza e Milano degli anni 2008 e 2009, le altre mostre milanesi fra il 2011 e il 2013 fra cui La materia delle parole, L’intuizione del propizioMentre il pianeta ruota e le successive Una certa idea di verde del 2015 presso la galleria di Napoli, Variazioni dell’aria del 2019 alla Key Gallery di Milano e Trittico delle coppie e altri Guardiani del 2020 all’Officina Coviello di Milano.
Proprio della sua attività di pittore vorrei concentrarmi con lui in questa intervista che ha accettato gentilmente di concedermi.

 

Biagio Cepollaro ritratto da Dino Ignani

 

In una delle sue mostre d’esordio come pittore, Nel fuoco della scrittura del 2009, lei affermò, “In queste opere osservo le parole dal di fuori, private del loro significato”. Non a caso i suoi primi dipinti accolgono e rielaborano visivamente la traccia della parola e del testo. In che modo si è fatta spazio in lei, dopo trent’anni di attività come poeta, l’esigenza di sincronizzare arte verbale e figurale?

La scrittura non è solo rappresentazione e concetto, la scrittura è anche segno che dialoga con il colore e le forme, la scrittura è essa stessa forma e colore, veicola la traccia del significato, della stratificazione, del palinsesto. Il momento a cui lei allude corrisponde ad una fase di passaggio: non si trattava tanto di “sincronizzare” ma di scoprire un tempo diverso e un mondo diverso per la vita della scrittura e per il suo fuoco. Si trattava di una “ulteriorità” a partire dall’atto concreto di scrittura, una strada nuova per me, una sfida, un compito con cui misurarsi. Pittura e testo poetico potevano convivere in un libro non come reciproca illustrazione ma come due strade (due codici) diversi per esplorare determinate condizioni materiali, pittoriche o verbali.
Ciò che mi ha sempre interessato è la prospettiva “materica”: lo spessore sonoro in poesia dei miei recuperi Jacoponeschi ed espressionisti, la stessa esecuzione orale del testo dicevano che la poesia si fa con la materia verbale e con questa bisogna sempre fare i conti. Già nella poesia ero “materico”, soprattutto nella prima trilogia, in Scribeide e Luna persciente, in particolare. Al di là di ogni psicologismo e romanticismo. Per la pittura è la stessa cosa: ho cominciato da autodidatta e con un certo timore a indagare le materie: il catrame, il gesso, la colla usata nell’edilizia, il colore costruito a partire dai pigmenti, gli interventi a mano su stampe digitali etc… Sono partito dal digitale, dalle scansioni, dalle stampe digitali. Con questo interesse per la materia mi si è aperto un mondo che sfugge alla tirannia della rappresentazione per essere esso stesso un pezzo di mondo. E in più la dimensione tattile della pittura, il portato sensoriale mi hanno permesso di ritrovare la gioia infantile del manipolare queste materie, al di là delle astrazioni e del concetto. Si potrebbe parlare di “sincronizzazione”, se ci penso, (e non di ulteriorità) tra poesia e pittura in un solo caso, credo. A proposito di La cognizione del dolore. Otto tele per Gadda: un libro che raccoglie una sorta di saggio in poesia sul capolavoro dell’Ingegnere e delle tele che attraverso la stratificazione alludono alla tecnica” del pastiche gaddiano. Qui vi è una vera e propria corrispondenza, sia la parola sia la pittura si dispongono quasi come movimento di ecfrasi nei confronti del romanzo gaddiano.

La sperimentazione di tecniche antiche, quali le tempere all’uovo, assieme a quelle moderne come le scansioni digitali e le sovrapposizioni di immagini, possiamo considerarle eredi della ricerca “postmodernista critica”, intesa come studio dialettico della contaminazione e reinterpretazione delle tradizioni artistiche del passato in una prospettiva inedita e attuale?

Sì è proprio così, come lei ha rilevato. Lo stesso tipo di rapporto con il passato si è riprodotto in quel tipo di lavori visivi. Postmoderno critico qui è in fondo partire dal digitale per approdare alle tempere all’uovo o alla pittura a olio: lo sguardo è diverso, l’intenzione è diversa, la memoria di questo tempo rendono diversi. Chi parte dal digitale avrà credo una percezione diversa dei colori stessi, abituato all’astrazione dei monitor. Avrà una percezione diversa del tempo, del tempo di esecuzione, della lentezza, dell’attesa, del ripensamento. Avrà anche un’idea diversa di materia: col digitale si possono creare effetti “materici”… Transitare dal futuro al passato cambia la prospettiva del presente stesso: si indebolisce il mito della tecnologia e si dissolve la passione antiquaria per l’antico, come direbbe Nietzsche. Invece il ritorno alla pittura-pittura degli anni della Transavanguardia non era postmoderno critico ma postmoderno tout-court: un ritorno nostalgico all’ordine, in un certo senso (e al mercato).

Nel corso della sua produzione artistica si nota una continua evoluzione dell’uso dei colori e dei materiali, forse ancor più che delle forme e del disegno. Quanto considera rilevante per lei la manifestazione materica della pittura rispetto alle implicazioni rappresentative e concettuali?

Più che riferirmi ai pittori, a Burri, a Fautrier, Dubuffet, Tapies o, per i segnici, a Tobey e a Twombly vorrei raccontare a tal proposito un aneddoto che riguarda Bach. Il musicista innanzitutto si chiedeva: “Cosa può fare un violino? Cosa può fare un flauto? “Il punto di partenza non è il tema (forme, disegno) ma il materiale con cui concretamente si ha a che fare. Ricordo che quando riflettevo su Scribeide ponevo la questione della poesia (e dell’arte) in questo senso: il problema non è cosa dire né come dire, il problema è con che cosa dire. Le rappresentazioni e i concetti in ogni caso s’incarnano in quei materiali e ne sono fortemente condizionati. Un altro aneddoto può essere utile, si riferisce ad un mio amico musicista elettronico che quando doveva “raccontare” una musica elencava gli strumenti impegnati nell’esecuzione. Non c’era altro modo per dare un’idea della musica che riferire degli strumenti che quella musica materialmente suonavano. Il fatto che la poesia sia “semantica” (immagine, suono e senso) mentre pare che la musica non lo sia, non cambia la questione: il senso è veicolato dal suono e dall’immagine, il senso coincide con lo spessore sonoro della poesia, con la sua struttura fonosimbolica. Quindi al centro vi è la materia verbale per la poesia, la materia pittorica e la materia sonora per la musica, anche senza arrivare alle posizioni estreme di Cage. Esplorare i materiali, inoltre, oltre ad essere un gioco divertente è anche una fonte inesauribile di apprendimento e di sorprese. Si tratta di un apprendimento del corpo a contatto con pezzi di mondo (non rappresentazioni né concetti).

Icona n.65, tecnica mista su tela (2017)

“L’io c’è a patto che sia un corpo” si legge nella sua descrizione della mostra Trittico delle coppie e altri guardiani del 2020, dove su tele a fondo scuro spiccano bianche sagome umane abbozzate. Mentre i corpi scompaiono nei recentissimi suoi studi per pastello, dedicati alla rappresentazione astratta di linee, forme e colori. Come muta artisticamente e nel tempo il rapporto con l’io?

Raramente tratto la figura. Il trittico a cui si riferisce nasce dall’influenza forte di Giacometti di cui mi occupavo in quel periodo e del fatto che l’abbozzo di figure in bassorilievo costituiscono degli elementi di tensione, delle forze in un campo più che delle rappresentazioni, più che delle figure. L’io, il senso della soggettività, di un centro possono vivere solo in un corpo: torna qui il discorso della materia delle parole. Non esistono astrazioni che non siano incarnate. Quindi anche l’abbozzo di una figura rimanda al materiale di cui è fatta: nel caso che lei cita si tratta di stucco applicato sulla tela, frammenti, linee di forza, più che rappresentazioni, più che figure. Oggi il discorso dei pastelli (morbidi e a olio) segue lo stesso criterio di sempre: la domanda a cui rispondere è “cosa può fare questo pastello? cosa posso farci io?” che poi vuol dire la materia che lo costituisce come si rapporta al supporto (carta o tela) e che accade della pastosità, della luce, della profondità? E cosa può accadere se lascio interagire i colori a olio con i pastelli a olio, e con il catrame? E non si tratta di trovare “nuove” strade, il Novecento ha esaurito gran parte di queste ricerche. Qui l’atteggiamento di base è diverso: non c’è il pathos dei moderni. C’è la consapevolezza postmoderna sostanzialmente ironica ma anche la determinazione a non ridurre l’arte a decorazione e ornamento (postmoderno critico). Per rispondere più direttamente alla sua domanda: mentre lo stucco si prestava, in quel periodo, a creare dei “campi di battaglia”, qui il pastello mi suggerisce di esplorare la campitura, la texture e talvolta il segno veloce e gaudente. Non appartenendo alla dimensione del figurativo ma del materico se penso all’Io lo penso comunque come effetto collaterale, come emergenza dalla complessità dei materiali. Questo credo sia il senso di ammettere l’io solo a patto che sia un corpo, che sia radicato nella corporeità, nella silenziosa e pittorica materialità del mondo.

 

A cura di Andrea Carloni


In copertina : Pastello n. 22 (2023)

Lascia un commento

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.