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Il demone dell’analogia #67: Castello

«Una strana amicizia, i libri hanno una strana amicizia l’uno per l’altro. Se li chiudiamo nella mente di una persona bene educata (un critico è soltanto questo), lì al chiuso, al caldo, serrati, provano un’allegria, una felicità come noi, esseri umani, non abbiamo mai conosciuto. Scoprono di assomigliarsi l’un l’altro. E ognuno di loro lancia frecce, bagliori di gioia verso gli altri libri che sembrano (e sono e non sono) simili. Così la mente che li raccoglie è gremita di lampi, di analogie, di rapporti, di corti circuiti, che finiscono per traboccare. La buona critica letteraria non è altro che questo: la scoperta della gioia dei libri che si assomigliano».
Mario Praz

 

Collage digitale by Dina Carruozzo Nazzaro + Thomas Edwin Mostyn

 


Torno alla sera
alla nostalgia di fondo.
Rendo voce al silenzio.
Mutano gli occhi
sino a volare.
Fai finta che sia una favola
dentro un castello ambrato

Inedito di Valentina Ciurleo

 

UN CASO IMPROBABILE

Il Lessing lasciò scritto che il genio può solo occuparsi di avvenimenti che son radicati l’uno nell’altro, di concatenazioni di cause e d’effetti: ridurre questi a quelle, pesare questi contro quelle, escludere il caso dappertutto, far sì che ogni cosa avvenga in modo che non sarebbe potuta avvenire diversamente, questo egli sosteneva essere il compito del genio. Non dovevano trovarsi impossibilità in un dramma, e il poeta tragico aveva senz’altro da scartare quegli avvenimenti storici che apparissero incoerenti. Per questa stessa ragione, della improbabilità del complesso intreccio, Augusto Guglielmo Schlegel faceva riserve sull’Edipo Re. La vita, come sappiamo, può permettersi i più improbabili scherzi, ma non esorteremmo gli scrittori a seguire l’esempio di William Sansom che (in uno dei racconti di South) fa che un giovanotto, al momento in cui sta toccare il colmo della felicità, lasci cadere una sigaretta accesa dal quarto piano, e vedendola finire addosso a una persona, si sporga con un gesto meccanico di prevenzione e di scusa (l’eterno Sorry! degli inglesi), e così facendo cada dalla finestra e si rompa la spina dorsale, riducendosi pel resto della vita a un invalido vittima del «fato». L’arte è un gioco di cui, almeno fino a ieri, andavano rispettate le regole, e se i surrealisti e gli altri le han messe in non cale, il gran pubblico seguita ad esigerne l’osservanza. Perciò un fatto come quello che sto per narrare trova il suo posto legittimo nella cronaca dei giornali, ma andrebbe messo al bando dal regno delle Muse.
Certi giovani di ottime famiglie, alcuni dei quali coi nomi preceduti da quei titoli che una volta facevano un certo effetto, sebbene essi preferissero chiamarsi tra loro coi nomi più scanzonati del mondo, come Ribi, Bebè, Pupa, e via dicendo, decisero un giorno di scegliere come meta di una delle loro frequenti gite di piacere Castello Aquilone, che era proprietà d’uno di essi, Rudi di Casamanica. Era situato tra i monti ai confini dell’Abruzzo, e il percorso che facevano le automobili per giungervi era quanto mai pittoresco. La strada serpeggiava in un paese selvaggio che, sembrando vuoto d’uomini, offriva non poco refrigerio agli abitanti della capitale, e sebbene ogni tanto apparisse l’annunzio d’una nota benzina che si professava al vostro servizio, per decine e decine di chilometri non s’incontrava nessun distributore, e quando se ne incontrava uno, non era mai di quella benzina. S’incontravano bensì contadini e contadine su asinelli, quelli che i paesisti dell’Ottocento amavano mettere come macchiette nei loro quadri, e una giovane americana della compagnia se ne estasiava, perché negli Stati uniti, eccetto ai confini col Messico, non s’incontrano mai asinelli, neanche nei giardini zoologici. Si vedevano di tanto in tanto grossi villaggi asserragliati contro le pareti delle montagne, divenuti essi stessi del colore delle cose non create da mano d’uomo, ed era raro, in questa parte del mondo, trovare uno di quegli scatoloni chiari, scuola o consorzio o centrale elettrica, che in tante cittadine di regioni più progredite segnano la immancabile cicatrice della civiltà moderna. C’era sì un laghetto artificiale che si allungava tra i monti brulli e precipitosi, ma s’era così bene fuso col paesaggio che perfino la chiusa sembrava il muro d’un nobile fortilizio, e un villaggio, che si era trovato a rispecchiarsi in quelle acque avventizie, sembrava essere sempre stato un paese di pescatori su un promontorio. Del resto la regione pareva fuori del tempo: su molte case coloniche figuravano ancora i motti del passato regime, che eran rifioriti sotto il debole strato di calce, o (poteva venire perfino questo sospetto) erano stati rinfrescati.
Aveva fatto molto caldo nei giorni precedenti, sicché ora sui monti più lontani si addensavano nuvole, scoppiava qualche temporale; il cielo era molto scuro verso Tagliacozzo, e quando le due automobili di gitanti giunsero presso Castello Aquilone c’era nell’aria un soave odore di pioggia. Il castello sorgeva in cima a un villaggio sullo sprone di un monte; si vedeva prima in distanza spiegarsi con le sue mura merlate e il barbacane a forma di becco che gli dava quella sembianza d’un’aquila ad ali spiegate da cui traeva il suo nome; poi la strada faceva un’ampia curva dietro alcuni poggi, e riusciva dentro il paese, proprio sotto il castello. Tra i giovani della compagnia era soprattutto incantata l’americana che si chiamava Jennifer ed era una ragazza bionda e formosa con una tipica e assai maliosa modulazione dell’accento che la denunziava
nativa degli Stati del Sud, e di questa ragazza era molto invaghito Rudi di Casamanica che del resto era suo lontano parente. Discendevano entrambi da Rodolfo IV, duca di Castello Aquilone, marchese di Torpignattara, conte di Casamanica eccetera, e da due diverse sue mogli: Rudi da uno dei figli di primo letto, mentre Jennifer discendeva per linea femminile da Ginevra, terza ed ultima moglie di Rodolfo IV. La madre di Jennifer era una nobildonna italiana che s’era sposata con uno dei proprietari di quei giardini di Charleston che sono una delle sette meraviglie dell’industria turistica americana.
Avvertito per telefono, il casiere aveva preparato una rustica ma saporitissima colazione sulla loggia del castello, dietro al cui pergolato verde chiaro nel sole si scorgevano ombrose e cupe le colline coperte d’alberi dall’altro lato della piccola valle, e esilarati dai cibi e più dal vino locale, che era gagliardo pur senza parere, gli otto giovani si diedero a esplorare il castello nelle parti che non erano state adattate ad abitazione moderna. E mentre percorrevano corridoi sui cui muri fiorivano tracce d’umido, e si affacciavano a misteriose scale che conducevano a ripostigli perduti dove muffivano accatastati rozzi quadri sacri del Seicento e rozzi ritratti anneriti, o traversavano sale abbandonate, dove languivano pochi mobili sgangherati e polverosi, e sulle cui pareti correvano, sotto il soffitto a cassettoni, fregi affrescati con figure
di numi ignudi dalle membra rossicce e torose che ricordavan la scuola di Giulio Romano, o il salone da ballo con torno torno i paesaggi dei possessi dei signori, Castello Aquilone, Torpignattara, Lagomelosino, Monte Venere, e via dicendo, e, sola su una parete, un’aquila imbalsamata e intignata, le reminiscenze delle letture dei «gialli» s’affacciavano alla mente dei giovani, soprattutto di Jennifer che chiese se nel castello ci fosse uno spettro. «E come no?» rispose Rudi. «Non è vero, Otello?». Otello, il casiere, raccontò allora come nel palazzo ci si sentisse, o una vecchia tradizione attribuisse quegli strani rumori, di solito un suono secco e scattante, come d’un grilletto di pistola che s’abbassi, alla presenza fantomatica di Rodolfo
IV, che era morto d’un colpo apoplettico senza sacramenti nel 1764; che però lui personalmente non aveva sentito mai nulla, e scoteva il capo sorridendo. «Non ridere niente!» – disse, piccata, nel suo curioso italiano, Jennifer, che adorava le storie di fantasmi; e da quel momento, mentre seguitavano a percorrere le innumerevoli stanze del castello, la ragazza, eccitata e un po’ brilla, ogni tanto chiamava affacciandosi a una porta o sporgendosi a una scala: «Fantasma!» che suonava come «Fentesma» nel suo accento strascicato e piangevole che a Rudi pareva molto affascinante.
Così dalla corte (il cui pozzo dovette pure echeggiare: «Fentesma!») salirono sul cammino di ronda, da cui si godeva la vista dei tetti del villaggio d’un caldo colore rosa cotto e ricotto dal sole, e mirabile era il movimento di quei tetti, disposti a zigzag sul tracciato dei tortuosi vicoli, sicché formavano come il carapace d’una creatura viva, stesa lì, sotto il castello, tra il verde degli olivi e il verde dei lecci; e vivi sembravano, dall’alto, anche certi alberi del giardino del castello, i cui rami biancastri erano stati attorti dall’arte d’un antico giardiniere in gesti forsennati, sicché parevano una turba d’anime in pena che s’accanisse invano contro gl’imperturbabili spaldi del castello. Le tegole del tetto lungo il cammino di ronda eran coperte di licheni d’un giallo acceso, che quasi le laccava come ceramiche della Cina; e quando il casiere ne spostò alcune per rimetterle in ordine, siccome in quel punto l’acqua piovana aveva fatto una macchia sul soffitto, Jennifer si curvò con gaiezza ebbra sullo spiraglio, e gridò ancora una volta: «Fentesma!». La campana della chiesa mandò alcuni rintocchi; nel cielo roteava lentamente un falco.
Certo Jennifer eccedeva nel suo gioco puerile, e Rudi cercò di calmarla: Enought, darling, now stop it, enought! Come aizzata, Jennifer rincarava la dose, anche perché a un certo punto le parve di sentire un cigolio, uno scatto secco, come quello che le era stato detto caratteristico dell’apparizione. «Ma come vuoi che un fantasma appaia di pieno giorno!» protestava tra il riso e l’irritazione Rudi; ma gli altri, di rincalzo, come se Jennifer fosse un cane da stimolare contro una preda: At him, Jennifer, now you’ll get him! Così giunsero ad una stanza che una volta era stata una ben provvista armeria, ed ora non conteneva appese ai muri che qualche alabarda arrugginita, qualche spadone senza fodero, qualche pistola. E allora Rudi volle fare uno scherzo: siccome il suono tipico del fantasma era quello d’un grilletto abbassato, staccò dal muro una vecchia pistola, si fece dietro a Jennifer, alzò il grilletto, e mentre la ragazza si voltava cogli occhi dilatati da un delizioso spavento a quel rumore, abbassò. Nella stanza rimbombò un colpo, Jennifer era stesa per terra, e Rudi disperato, e Pupa, Bebè, Ribi e gli altri simili a marionette sbatacchiate da un colpo di vento, non potevano, non volevano credere che nei loro allegri giochi si fosse insinuata la Morte.
Improbabile. Ma è successo. E allora per non parlare di una banale disgrazia e ristabilire le ragioni dell’arte che vogliono concatenazioni di cause e di effetti, dovremmo raccontare, nello stile dei «romanzi neri» e di Frédéric Soulié loro seguace una storia che ricorda quella di Ratcliff. Ridotta all’essenziale, eccola: Rodolfo IV morì d’un colpo apoplettico mentre si preparava a sparare una pistolettata contro la terza ed ultima moglie, Ginevra, sorpresa in flagrante con un giovane amico. Nella confusione che seguì al collasso del vecchio duca, la pistola fu messa da parte e nessuno più se ne occupò, e dello scandalo nulla si fece trapelare. La pistola tornò poi ad essere appesa tra gli altri decorativi strumenti di morte, per armare la mano incolpevole d’un legittimo discendente di Rodolfo contro un’altra Ginevra (ché Jennifer non è che una variante di codesto nome in Cornovaglia), la quale discendeva dal frutto degli amori dell’ultima moglie del duca col cavaliere Strigliati, che agli occhi del mondo era pure passato come prole postuma del defunto duca. Non un caso, dunque! Anzi fato, tenebroso destino, vendetta a scoppio ritardato, ferrea concatenazione di causa e d’effetto, anche se Augusto Guglielmo Schlegel avrebbe ritenuto egualmente improbabile una coincidenza così complicata.

Da Il demone dell’analogia di Mario Praz

*

Il castello dell’innominato era a cavaliere a una valle angusta e uggiosa, sulla cima d’un poggio che sporge in fuori da un’aspra giogaia di monti, ed è, non si saprebbe dir bene, se congiunto ad essa o separatone, da un mucchio di massi e di dirupi, e da un andirivieni di tane e di precipizi, che si prolungano anche dalle due parti. Quella che guarda la valle è la sola praticabile; un pendìo piùttosto erto, ma uguale e continuato; a prati in alto; nelle falde a campi, sparsi qua e là di casucce.
Il fondo è un letto di ciottoloni, dove scorre un rigagnolo o torrentaccio, secondo la stagione: allora serviva di confine ai due stati. I gioghi opposti, che formano, per dir così, l’altra parete della valle, hanno anch’essi un po’ di falda coltivata; il resto è schegge e macigni, erte ripide, senza strada e nude, meno qualche cespuglio ne’ fessi e sui ciglioni.
Dall’alto del castellaccio, come l’aquila dal suo nido insanguinato, il selvaggio signore dominava
all’intorno tutto lo spazio dove piede d’uomo potesse posarsi, e non vedeva mai nessuno al di sopra di sé, né più in alto. Dando un’occhiata in giro, scorreva tutto quel recinto, i pendìi, il fondo, le strade praticate là dentro. Quella che, a gomiti e a giravolte, saliva al terribile domicilio, si spiegava davanti a chi guardasse di lassù, come un nastro serpeggiante: dalle finestre, dalle feritoie, poteva il signore contare a suo bell’agio i passi di chi veniva, e spianargli l’arme contro, cento volte. E anche d’una grossa compagnia, avrebbe potuto, con quella guarnigione di bravi che teneva lassù, stenderne sul sentiero, o farne ruzzolare al fondo
parecchi, prima che uno arrivasse a toccar la cima. Del resto, non che lassù, ma neppure nella valle, e neppur di passaggio, non ardiva metter piede nessuno che non fosse ben visto dal padrone del castello. Il birro poi che vi si fosse lasciato vedere, sarebbe stato trattato come una spia nemica che venga colta in un accampamento.
Si raccontavano le storie tragiche degli ultimi che avevano voluto tentar l’impresa; ma eran già storie antiche; e nessuno de’ giovani si rammentava d’aver veduto nella valle uno di quella razza, né vivo, né morto.

Da I promessi sposi di Alessandro Manzoni

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