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“Siamo ciò che siamo perché non siamo tutto ciò che potremmo essere”: La madrivora, Roque Larraquy (a cura di Maria Teresa Rovitto)

La madrivora (titolo originale, La comemadre, 2010) dello scrittore argentino Roque Larraquy, tradotto da Carlo Alberto Montalto per Alter Ego Edizioni (2022), è una di quelle opere situate nel campo di evocazione di una violenza primaria che si manifesta qui in due ambiti diversi, quello delle scienze e quello dell’arte.
Il libro consta di due racconti lunghi
, solo in apparenza slegati: il primo è ambientato in un sanatorio di Temperley – provincia di Buenos Aires – nel 1907, e il secondo ai giorni nostri, nel 2009, nella medesima zona.
Nella prima parte viene narrata la storia di un gruppo di medici che decidono di portare avanti un esperimento mai realizzato prima, stando alle cronache scientifiche, ovvero raccogliere le testimonianze delle teste tagliate dei loro pazienti, dal momento che, secondo una teoria nota a pochi, gli esseri umani resterebbero coscienti per i nove secondi successivi a una decapitazione. 
Questa è la proposta: selezioniamo pazienti terminali. Tagliamo loro la testa senza danneggiare l’apparato fonatorio, tecnica che ho praticato con successo su palmipedi di cui ora vi spiegherò, e chiediamo alla testa di dirci ad alta voce cosa prova.”
La voce narrante è quella di uno dei medici che racconta anche il suo amore per la caposala, nonché la competizione tra il personale sanitario volta a sedurre la donna; gioco che assumerà ben presto i tratti grotteschi di un amore che vorrebbe ma non riesce a farsi spazio come sentimento sovrano nelle loro esistenze.
Nella seconda parte, la voce narrante è quella di un performer di arte contemporanea che crea macabre installazioni utilizzando il corpo umano, vivo o pezzi di cadaveri, mettendoci piano piano a conoscenza del suo passato di bambino prodigio che, per questo e perché obeso, veniva disprezzato e umiliato dai coetanei. L’artista parla, inoltre, senza filtri, del percorso personale che lo ha portato a raggiungere la fama.
Le azioni principali compiute dai personaggi sono ripugnanti, eppure il lettore instaura allo stesso tempo una particolare forma di empatia che lo avvicina a loro, quando, ad esempio, si identifica nei giochi amorosi del personale sanitario e nella loro umana ricerca di una trascendenza, benché collocata nella scena orrorifica dei medici che pendono dalle labbra delle teste mozzate dei propri simili; così come si immedesima nel passato tormentato del performer da bambino che sembra giustificare le scelte artistiche dell’uomo adulto che cerca un riscatto.
Il posizionamento etico del lettore sembra piegarsi, dunque, sotto questo ambiguo movimento di avvicinamento e allontanamento, trascinato dai discorsi dei personaggi che tendono a far apparire meno immorali i loro comportamenti, insistendo sulla condizione di marginalità degli esseri umani a cui appartengono i corpi usati.
Nel sanatorio si tratta di malati terminali “che sarebbero morti comunque”, che si identificano ormai con la loro malattia: “[L]a maggior parte però assumerà il fallimento come proprio: Io sono il mio cancro”; nella seconda parte si tratta di esseri viventi nati già malformati, pezzi di cadaveri che nessuno rivendicherebbe perché morti in solitudine, trafugati illegalmente dagli obitori e, infine, il corpo stesso dell’artista che è padrone di disporne fino alla mutilazione.
Già nella vulnerabilità dei soggetti utilizzati nelle sperimentazioni mediche, da un lato, e artistiche dall’altro, si rintraccia una connessione tra le due parti. I racconti sono accomunati poi dalla messa in scena di un gesto performativo, dal momento che anche l’esperimento scientifico, realizzato nello spazio extraquotidiano di ambientazione medica, che diventa ben presto un rituale, può essere letto in questa chiave. Una ripetizione che alla fine porta a una sorta di acquiescenza di tutti i soggetti coinvolti, se non a una forma di ipnosi.
Il tema principale che lega le due sezioni sembra però essere quello dei limiti della sperimentazione. Nella prima parte durante un periodo, l’inizio del secolo scorso, cruciale per i discorsi di matrice positivista in ambito scientifico; il progresso è autoassolutorio: “L’obiettivo è indagare su ciò che avviene al momento della morte? Benissimo, lo faremo perché abbiamo i mezzi e perché siamo stati i primi a pensarci”.
Nella seconda sembra esserci un sottinteso che ha per oggetto i dibattiti sulla spettacolarizzazione, sulla banalizzazione e sulla sparizione dell’arte nell’epoca contemporanea: “[S]ono un ‘artista del binario’ il ‘figlio della cultura capitalista’, la salvezza dell’arte e al tempo stesso la sua negazione vivente”.
Una volta superata una certa soglia, non è facile tornare indietro, e si procede per eccessi pur di non riconoscere la forma mostruosa che ha assunto la propria angoscia.
“Ho bisogno di un’opera prima che stimoli la volgarità e la vergogna altrui. Una performance nazista o antinazista in cui un vero ebreo venga preso a botte. La mutilazione genitale di un’africana proiettata a ripetizione sul muro di un ospedale.”
Nella rigorosa applicazione della tecnica, della pianificazione, compare però un elemento misticheggiante, premoderno, una pianta, la madrivora, nata dalla fantasia dell’autore, la cui linfa produce larve animali che divorano il vegetale stesso fino a farlo scomparire e fecondano poi il terreno per iniziare un nuovo ciclo vitale. Materia che, oltre a simboleggiare la rigenerazione del male, sancisce un’inevitabile convivenza tra il razionale e il soprannaturale.
Sarà ricorrendo a questa pianta che i medici faranno scomparire i corpi dei pazienti per non lasciarne traccia, mentre l’artista la userà per realizzare il suo progetto estetico totale: una performance in cui le larve della pianta divorano l’arto di un corpo vivo.

The face of War, Dalì

Nella seconda parte è evidente come la ricerca si inserisca in quel filone dell’arte contemporanea dove la biografia dell’artista si confonde nell’opera, ma qui Larraquy ne radicalizza volutamente i risultati. Tra gli esempi più noti troviamo Beecroft che usa il suo diario personale per la sua prima mostra (Despair, 1993), Sophie Calle, Marina Abramovic; vi sono poi già nella realtà stessa esempi estremi di usi del proprio corpo, si pensi fra tutti al performer Roberto Cuoghi che trasforma il suo aspetto per assumere quello del padre prendendo peso e invecchiando con metodi artificiali, divenendo così famoso; l’insorgere di problemi di salute lo fa desistere dal continuare l’operazione.
O ancora all’abolizione tra arte e vita portata agli eccessi, per esempio, nella performance Mount Olympus (2016) di Jan Fabre, spettacolo della durata di ventiquattro ore in cui gli attori sono portati ai limiti delle loro condizioni fisiche mettendo in scena le Grandi Dionisie che si celebravano annualmente ad Atene.
La degenerazione dell’atto artistico è stato poi tema di indagine da parte di Cronenberg nella sua ultima pellicola, Crimes of the future, dove un io fluido che appare come postumano, postorganico, tecnologico, si propone come l’evoluzione di un corpo che nella nostra epoca possiede come caratteristica principale proprio la frammentarietà, sottoposto a una modificazione costante che ne ridisegna le componenti attraverso la chirurgia, l’ingegneria genetica, l’ibridazione tecnologica, lo spazio virtuale. La coppia di performer protagonista cerca di dare un ordine artistico alle tendenze mortifere ed esibizionistiche di massa.
Nel primo racconto si apre inoltre il problema del linguaggio. Anche dopo la morte si cerca un orizzonte di senso nella parola, come se un supposto aldilà si potesse nominare allo stesso modo, con gli stessi strumenti analitici e secondo le stesse categorie usate nella realtà terrena. Come se non potesse esistere qualcosa al di là della nostra comprensione e della nostra umana esperienza. Ecco allora mostrati i limiti e le contraddizioni di questo approccio razionalistico nello sforzo interpretativo di quanto proferito dalle teste decapitate; emblematico quando una di queste dirà solo un “Sì” o quando una pronuncerà, “Ci sono persone che non esistono” che così uno dei medici interpreterà: “L’ipotesi è che siamo ciò che siamo perché non siamo tutto ciò che potremmo essere. In altre parole, signor direttore, l’essere si fonda sulla mancanza di varianti, il che sostanzialmente vuol dire che esistiamo nell’errore e per errore”.
A questo punto, per assurdo, la rivelazione di un altro mondo si adatterà al vocabolario delle vittime: “La maggior parte dei donatori padroneggia un vocabolario di non oltre un centinaio di parole, compresi gli articoli e le preposizioni, e con certi presupposti è difficile non incorrere nella poesia. Perlomeno, sostiene Ledesma, non incapperemo nell’ironia che renderebbe più complessa l’interpretazione”.
La letteratura amplifica la prossimità al Male come esperienza conoscitiva ed è a opere come questa che possiamo fare ricorso quando sentiamo altrove la mancanza di spiegazioni convincenti, aprendo lo spazio a una riflessione etica sul destino della collettività.
In Sopra eroi e tombe, Sábato fa dire a Bruno, uno dei personaggi principali: “In realtà si dicono molte sciocchezze su quello che deve essere la letteratura argentina. L’importante è che sia profonda. Tutto il resto non conta”. E di questa opera di Larraquy non si può di certo dire che non lo sia. 

 

 

A cura di Maria Teresa Rovitto

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