
Figure amate racconta di un attraversamento, del passaggio dalla vita – dove tutto può essere tentato – alla lucentezza nera e pulsante della morte.
La silloge di Orso Tosco (Interno Poesia Ed.) descrive la presa d’atto sistematica e dolorosa di un commiato che trova nello sprofondo della malattia la sua estrema bellezza.
Sembra azzardato accostare al lutto un simile attributo, eppure solo pensandolo in quel modo possiamo trovare ragione dell’attaccamento all’esistenza e del suo ricordo.
Tosco, visionario autore del panorama letterario contemporaneo, affronta l’argomento della scomparsa di un genitore e, usando una scrittura bruciante e sofferta, lascia trasparire ciò che di imprescindibile offre il quotidiano: il legame con chi ci è caro. Nei suoi testi, si misura col reale e l’irreale insieme: “Sulla fiducia ho rinnegato Dio./ Sulla sfiducia ho costruito il mio amore irrimediabile”.
La morte è fatta di piastrelle feroci, letti di carta e materassi che stanno contro i muri al termine di notti pervase dal tormento. Il trascorrere dei giorni vicino al malato trasforma il salotto in un acquario, o in una zona di guerra dove, a turno, si cura il corpo, si tenta una salvezza. Il fisico si sfalda, si distrugge, smette di essere, ma in quello stesso istante l’amore cresce, aumenta, investe tutto.
È affetto furioso, quello del poeta, che emerge da ogni pagina, da ogni riga, da ogni sillaba. Un sentimento corale: “dobbiamo attraversare l’odore della caduta/ padre mio caro, dobbiamo superare la luce sudata”, e ancora: “dobbiamo provare ogni tipo di rinuncia/ e dobbiamo farlo insieme, padre mio amato/ e visitato e parlato, bisbigliato e stanco”.
Nel libro, si colgono i riferimenti agli autori dai quali Tosco attinge, come Zanzotto, o Bernhard. Lo stesso titolo di questa opera prima è un verso dell’inconfondibile e amato Mario Benedetti che in Pitture nere su carta scrive: “Galleggiano sull’asfalto/ quelli che devono morire./ Solo sguardo a metà via/ questo mio senza mente ormai./ Che affare è il loro?/ Una musica è fortissima/ per ogni passo, e ho dolore sordo/ dallo sguardo non so dove./ Figure amate.”: fedele al vero e privo di retorica, nelle sue frasi scabre e sincopate, lo
scrittore fa continuamente i conti con l’infermità e la perdita. Come il poeta friulano, anche Tosco si cimenta con il distacco da quanto ha di più importante e riferisce non solo il disfacimento della figura, ma gli ultimi respiri di un uomo: il bianco scheggiato dei denti, il brodo che resta in bocca, sul mento e sulla faccia, il niente del vestito che sarà cenere: quasi per immedesimazione, la fatica del padre di restare con chi ama è la fatica stessa del poeta-figlio che con parole dolcissime ci parla della persona alla quale è unito irrimediabilmente, del suo sorriso difficile e raro e del meraviglioso sforzo di resistere al male che l’ha colpita – come l’autore stesso vorrebbe – almeno fino a quando la stanchezza e la pena si
traducono in sopraffazione. L’esperienza del morire qui narrata è personale e unica per drammaticità e immagini, eppure in essa facilmente ci riconosciamo, ed è proprio questo – l’universalità del tema esplorato – che rende così preziosi questi componimenti.
Con la stesura di Figure amate, per Tosco inizia il processo del ricordo. Nel mettere su carta questa separazione, esercita – come nella filosofia agostiniana – una delle facoltà umane, cioè la memoria: tutto quanto si consuma nell’attesa di qualcosa che dovrà succedere, passa nel ricordo. Dice Sant’Agostino ne Le confessioni a proposito della memoria di ciò che si è perduto: “Se essa – un oggetto qualsivoglia, visibile – è perduta di vista dagli occhi, ma non nella memoria, la sua immagine viene conservata al nostro interno, e la si ricerca finché ritorni alla vista: e, tornata, noi la riconosciamo da quella immagine interiore. Né diciamo di aver trovato una cosa perduta se non la riconosciamo: non possiamo riconoscerla se non ce ne ricordiamo: l’oggetto era scomparso dagli occhi, era conservato nella memoria”.
Orso Tosco intraprende passo per passo questa operazione non soltanto letteraria: accompagna il padre nella “casa dei tentativi finiti”, stima il tempo scomponendolo in gesti amari e necessari, diventa testimone di come si muore. Tutto è destinato a scomparire allo sguardo, anche il volto dell’uomo tanto amato, e tutto sarà custodito nell’intimo e ricordato. Tutto tornerà al cuore.
A cura di Annachiara Atzei
Cinque poesie da Figure amate (Interno Poesia, 2019)
Su letti di carta
Ogni volto qui è contusione,
approssimativa indagine del giallo,
qui è dove si agita la bile.
Sulla fiducia ho rinnegato Dio.
Sulla sfiducia ho costruito il mio amore irrimediabile.
Adesso è sopravvivere circondati da piastrelle feroci,
crudeli nella loro sciatta esattezza,
adesso è questo contarci i granelli di sangue uno a uno,
con gli occhi gonfi
perché tutto lo stomaco ci respira dentro.
Voci frantumate aspettano la dose su letti di carta.
Parlano una lingua rinnegata,
ruvide gole sopra gusci di suono,
parole nel tossire delle ossa.
Sanguinano le ruggini lungo i perimetri del parcheggio,
crepitano i rami negli ammanchi del cemento.
I lupi stanno quieti nel collo della montagna,
oltre l’ospedale dove l’autostrada germoglia,
il mondo è racchiuso nel nylon
delle tute da ginnastica dei malati.
*
Questa lunga preghiera di stracci
Dobbiamo attraversare l’odore della caduta
padre mio caro, dobbiamo superare la luce sudata
da queste ghiandole aspre e riposare,
indossando maschere affilate.
Con i piedi dobbiamo suonare la musica dei bronchi,
la musica dei corridoi in cui l’aria esplode e delira,
e dobbiamo eseguire la lacrima breve
che ha un’anima di catetere.
Ti guardiamo nascondere la testa
nel cuore esatto del collo,
e ti guardiamo fallire e restare,
fallire e restare meravigliosamente,
con tutto lo sforzo di cui sono capaci
l’aria e la pioggia improvvisa
in questo tuo talento per la vita
così orribilmente testardo.
E dobbiamo continuare questa lunga preghiera di
stracci
mossi dal vento e dal ritmo delle pastiglie,
questa lunga preghiera cucita negli occhi
e sui cuscini e nella bava, dobbiamo, padre mio,
dobbiamo superare la composizione dei conati
andare tra le costole e i punti di nero sul soffitto,
con la bocca piena di sedie e sgabelli e lacci
padre mio caro legato,
dobbiamo perdonare i grammi e le ricette,
dobbiamo provare ogni tipo di rinuncia
e dobbiamo farlo insieme, padre mio amato
e visitato e parlato, bisbigliato e stanco,
è insieme che dobbiamo farlo
perché è insieme che abbiamo iniziato.
*
Verso l’altra casa
Non entra e non esce l’acqua,
resta compressa dentro un nido di vespe
sigillato di piombo fuso e tosse.
Ti veniamo incontro a gengive aperte
per parlarti della casa in cui dobbiamo andare.
La casa a cui dobbiamo consegnarti per sempre.
*
Non smettono il giorno e la notte
Di andare a confondere, di sbranarsi.
Qualsiasi parte di te è nella lucentezza
nera e pulsante che occupa il sole
in qualsiasi momento ma non abbastanza.
Abbiamo tentato, tu più di tutti.
Puoi lasciare, adesso, puoi lasciare
se sei stanco, se sei troppo stanco
per il troppo male, puoi lasciare.
*
Tornerà il mare e torneranno
le mie mani di bambino
aggrappate alla tua schiena enorme.
Torneremo giovani a guardare
Massimo e la mamma
distratti e belli sugli scogli.
Prima dell’acqua sulla testa,
prima del fondale viola e verde,
indifferente, torneremo a
stringerci
a occhi aperti nel respiro,
immergendoci torneremo
a stringerci, dolcemente.