Nostalgie della terra (Italo Svevo), secondo romanzo di Mauro Tetti, parla di un viaggio, ma soprattutto si misura con l’illusione e ci trasporta in un mondo nel quale il ricordo di ciò che si è vissuto e il miraggio spesso coincidono.
Tutto ha inizio con il ritrovamento di vecchi diari di bordo: affascinato da quei racconti, il protagonista lascia il Villaggio Pescatori di Giorgino, borgo marinaro di Cagliari, per avventurarsi lungo le coste della Sardegna alla ricerca di un tesoro misterioso.
L’immaginario di Tetti si ispira a Deledda e Miyazaki, Ransmayr e Borges, ma trae linfa anche dalle storie dei piccoli paesi isolani dove il possibile e l’impossibile si confondono e il potere della parola incide sulla realtà, modificandone il corso. Non a caso, nel dare vita ai suoi personaggi, l’autore gioca con il linguaggio, lo manipola e lo plasma assegnandogli nuovi significati e moltiplicando i piani di lettura della narrazione.
Ricco di atmosfere oniriche, eroi tremanti e anacronismi, Nostalgie della terra esplora i luoghi e il sé senza che l’enigma venga mai del tutto sciolto.
Il tuo romanzo si intitola Nostalgie della terra e sembra evocare qualcosa che si è già conosciuto e verso cui si vuole tornare. È così?
In parte è così. Il titolo viene da un passo di Borges tratto da Oral: “Io non so se è ambiziosa o modesta, o del tutto giustificata, la mia pretesa di parlare dell’immortalità individuale, dell’anima che conserva una memoria di quando è stata sulla terra e che ormai nell’altro mondo se ne ricorda. Nei giorni scorsi mia sorella Norah è venuta a trovarmi e mi ha detto: «Dipingerò un quadro intitolato Nostalgie della terra, che avrà per soggetto quel che un beato sente in cielo pensando alla terra. Lo farò con elementi della Buenos Aires di quando ero piccola». Io ho una poesia, che mia sorella non conosce, con un tema analogo. Penso a Gesù, che ricorda la pioggia in Galilea, l’aroma della falegnameria e una cosa che non ha mai visto in cielo e di cui ha nostalgia: la volta stellata”.
Nel romanzo, in cui ricorre il tema del viaggio, la nostalgia diventa spesso un miraggio, l’illusione di aver vissuto qualcosa che è solo nella nostra mente e che non è mai esistita.
Il protagonista della storia lascia il Villaggio Pescatori di Giorgino, suo luogo di nascita, e circumnaviga una Sardegna misteriosa e leggendaria. Quanto di reale c’è nei luoghi che descrivi e quanto invece proviene dal mito o dall’immaginazione?
Ciò che racconto è più reale di quanto sembri, almeno per me. Bisogna indagare su come si manifesta ciò che definiamo reale in ognuno di noi. Riporto, in proposito, un passo di Cortázar dalle lezioni tenute a Berkley: “Lo prestai al mio compagno che me lo restituì dicendo: «Non riesco a leggerlo. È troppo fantastico», me lo ricordo ancora come se me lo stesse dicendo adesso. Rimasi lì col libro in mano come se mi fosse crollato il mondo addosso, perché non potevo credere che quello fosse un motivo per non leggere un romanzo. Allora mi resi conto di cosa succedeva: per me, già da piccolo, il fantastico non era ciò che la gente considerava fantastico; per me era un modo della realtà, che in certe circostanze si poteva manifestare, a me o ad altri, attraverso un libro o un fatto, ma non era una frattura all’interno di una realtà stabilita. Mi resi conto che io vivevo, senza saperlo, in una familiarità totale con il fantastico, perché mi sembrava tanto accettabile, possibile e reale quanto il fatto di mangiare una minestra alle otto di sera; quindi (come avrei detto a un critico che si rifiutava di capire cose evidenti) credo che a quel tempo io fossi già profondamente realista, più realista dei realisti, dato che i realisti come il mio amico accettavano la realtà solo fino a un certo punto, e tutto il resto era fantastico. Io accettavo una realtà più grande, più elastica, più dilatata, in cui entrava tutto”.
Hai scelto di non dare un nome al personaggio principale che, nel raccontarsi, si definisce “solo e insignificante”. Vuoi dirci qualcosa di lui?
Ci sono due viaggi: un’avventura per mare con approdi, depredazioni, naufragi, e un avventurarsi statico, quello del protagonista quando sfoglia vecchi diari di bordo e immagina di andare per mare, di approdare, depredare, naufragare. Quindi, penso sia uno a cui piace leggere, e nell’atto della lettura intraprende il vero viaggio, che non deve portare a niente, ma che trova senso solo in quella immobilità.
Colpisce l’uso che fai della lingua, una sorta di lessico primordiale che attinge alle espressioni e ai vocaboli del sardo e arricchisce di senso la storia. Perché questa scelta?
Non è solo il lessico che dà forma al romanzo, ci sono anche dislocazioni, modi di dire, figure… Ho immaginato che la lingua stessa potesse essere imprevedibile come il protagonista, difatti gioco spesso sul falso etimologico, e molte parole vengono tradotte in italiano con un significato diverso da quello originario. Ci sono dei procedimenti letterari che ritornano nella nostra tradizione: ad esempio, nel primo capitolo di Millant’anni di Giulio Angioni, il nonno invita un bambino a raccogliere un po’ di ombra del nuraghe in cambio di un uovo: la figura dell’adynaton, cioè subordinare un’azione possibile a una impossibile, si ripete in diverse forme nel sardo campidanese.
All’interno del libro troviamo echi di Atzeni, molti dei simboli cari a Borges, alcuni temi toccati da Miyazaki e senz’altro il mito omerico del viaggio. A cosa ti sei ispirato per scriverlo?
Dipende. Per scrivere il capitolo in cui Salif si cala nella gola di roccia ho ripreso una novella di Grazia Deledda. C’è poi Il mondo estremo, di Christoph Ransmayr, dove il servo di Ovidio va alla ricerca del suo maestro nell’isola dove è esiliato, un’isola devastata in cui appaiono i personaggi delle Metamorfosi, tra carnevali orrorifici, macerie e cataclismi. Ma ci sono anche i racconti dei borghi marinari di Cagliari, tra cui il Villaggio Pescatori: un’isola nell’isola separata dalla città e dilaniata dalla costruzione del porto industriale che ha inevitabilmente cambiato le correnti della laguna. Emerge poi un gruppo di esseri tremanti, che nascondono la triste memoria di un passato tragico con l’allegria e il gioco: forse proprio questo può ricordare i temi ricorrenti nei lavori di Miyazaki.
A cura di Annachiara Atzei