“Non parlai mai di Dio, né della morte; decisi di salvare la sua vita dai grandi dilemmi che mi avevano afflitto, di lasciargli un’esistenza da animale. Dio sarebbe stato più contento, perché nella sua ignoranza già faceva quello per cui era stato creato”
C’è qualcosa di spietato ed innocente, di vergine, di strappato agli istinti della fase genitale di Freud, in questo primo romanzo di Bernardo Zannoni, I miei stupidi intenti (Sellerio), vincitore dell’ultimo Campiello.
Non è certo una favola la storia di Archy, il narratore-faina, ma come in una favola qui gli animali parlano, si innamorano brutalmente, leggono, scrivono addirittura, rubano, barattano e tutto sembra ruotare intorno a una dicotomia tanto semplice quanto abissale: conoscenza e non-conoscenza. È lì che tutto comincia, è lì che si insinua qualcosa che ha a che fare con l’ancestrale e con la morsa fatale del puro costrutto culturale. Potrebbero ucciderti entrambe, comunque. Fra le pagine di uno dei testi più tradotti al mondo, il Tao te Ching, Lao Tze, fondatore del taoismo, asserisce quanto segue: “Passare dalla conoscenza alla non-conoscenza… questa è salute. Passare dalla non-conoscenza alla conoscenza… questa è malattia”.
Conoscere, imparare, decostruire, mettere in dubbio, studiare: è qualcosa di molto vicino alla rivelazione e al mistero che è il nostro stesso pensare. Ma anche la conoscenza, e quindi la personale autocoscienza del possesso interiorizzato di verità, informazioni ed esperienze – tanto a priori, quanto a posteriori – concede un accesso limitato al sentire profondo di qualcuno o qualcosa che invece è esterno a noi.
Cosa e come percepisce una faina? E Archy? Tutto il libro è una metafora, un simbolo, ma è un intento tutt’altro che stupido provare a dare un senso all’esistenza cominciando a interiorizzare che questa, prima di tutto, non è eterna.
Pensare la morte è un buon segno, dal momento che lo si può fare solo da vivi.
Io l’ho pensata per la prima volta da piccolissima, non sapevo ancora scrivere, ma non c’è mai stato bisogno di appuntarselo da qualche parte: era un giorno ancora caldo di settembre, guardando mia nonna farsi sempre più curva, più grigia, le ho chiesto “Nonna ma tu quanti anni hai?”, “Venti” mi ha risposto lei, ma non perché non conoscesse la sua vera età, era perché sapeva fin troppo bene dove conduce averne quasi il quadruplo, di anni. È un aneddoto che ricordo solo io ed è stato uno spartiacque per me: conoscenza e non-conoscenza, che nulla aveva a che vedere con la sua evidente e un po’ beffarda bugia, ma rivelava tutto della finitudine.
Bernardo Zannoni fa qualcosa di straordinario in questo romanzo, traccia i contorni di questa dicotomia senza mai esasperarla davvero. E resistere dall’esasperare un concetto non lo fa quasi più nessuno, o meglio, romanzi così svincolati da mode e dal quel famoso ‘guardami, senza mani!’, di cui spesso ha parlato David Foster Wallace, non se ne trovano poi molti.
Zannoni dà voce a un bosco intricato e corale, all’interno del quale vige una sola preoccupazione, nonché missione quotidiana: sopravvivere. Ovvero mangiare, trovare un buon riparo, al massimo riprodursi. E il bosco è una società spietata, basata solo apparentemente sulla gerarchia della forza, perché ecco presentarsi un’altra metaforica dicotomia: Davide e Golia, l’intelletto e la furiosa robustezza. Archy non parte avvantaggiato per quel che riguarda la forza, è una faina zoppa, non riesce a cacciare, difendersi da un predatore è quasi impossibile, ecco perché la madre un bel giorno decide di venderlo in cambio di una gallina e mezzo all’usuraio più vecchio e temuto, la volpe Solomon.
Solomon in realtà si trasformerà subito in un mentore per Archy-Gallina-Pelo di Culo, un Virgilio certamente nervoso, ma la volpe ha tuttavia smesso di lottare per sopravvivere, si avvale del potere che esercita sulle deboli menti degli animali più piccoli, poveri e disperati, creando intorno a sé un sistema autarchico tutt’altro che raffinato, ma certamente funzionale, degno di quel Terrore di cui si macchiò una certa Parigi. Chi non paga i propri debiti se la vedrà con Gioele. La guardia dell’usuraio, l’ombra di Solomon.
C’è un’altra battaglia, ben più subdola, che tiene in vita la volpe: conoscere Dio. Esserne il figlio.
È una battaglia che porta avanti da anni, da quando ha trovato per caso un libro pieno di righe e strani segni, che ha cominciato a imparare tramite il sentito dire, tramite un ingannevole ascolto, tramite un cane per essere più precisi e per essere più precisi ancora tramite la famiglia di quel cane, i cui bambini stavano imparando a leggere e scrivere. Quel libro era la Bibbia. È così che la volpe ha cominciato a lacerarsi la coscienza, è qui che s’è s’approfondita l’esistenza. Conoscenza e non-conoscenza. La prima gli ha permesso di conoscere il senso della morte, la seconda è uno stato che rimpiangerà sino alla fine dei suoi giorni.
Conoscenza e non-conoscenza: dopo non si è più gli stessi.
Come sopravvivere allora alla morte? Solomon non ha una risposta (ma chi ce l’ha, in fondo?) e nell’attesa di trovarne una comincia a trasmettere tutto il suo sapere ad Archy, tra una bastonata e l’altra, tra faticose ore di lavoro e conti da sistemare, gli insegna a leggere e a scrivere, gli racconta le imprese di Dio, le sue crudeltà, le punizioni che ha il vizio di infliggere a chiunque, indistintamente. E Archy, da faina zoppa, da schiavo, da Pelo di Culo, evolve come essere vivente. Eredità pesantissima la sua. La scrittura gli permette di accedere a una visione completamente diversa della sua vita. Scrivere, per la faina, significa ritratteggiare l’esistenza di tutti coloro che ha amato. Attingere al sangue o all’inchiostro è solo un’alternativa al dolore, l’ennesimo artificio della finitudine. La conoscenza non riscatta questi animali, non riscatta il bosco, né sconfigge la brutalità di certe irrazionali attitudini e non permetterà ad Archy di vivere una vita migliore, o più piena. Perché la conoscenza è fatta così: ti stordisce di dubbi. E non basta una vita.
In questo toccante romanzo, I miei stupidi intenti, le zampe di trasformano in mani, mani che riempiono fogli, che uccidono, mani che accarezzano. Zannoni sfiora temi classici e costruisce animalpersone che sembrano conservare tratti antichi ma freschissimi.
Sembra uscito da un vecchio baule polveroso, questo libro, misterioso oggetto da soffitta, il cui valore ha travalicato i vincoli del tempo e del temuto inverno dello spirito.
A cura di Giulia Bocchio