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La ricerca perpetua di Itaca: l’Ulisse di James Joyce (a cura di Omar Suboh)

16 giugno 1904. Tutto comincia e finisce qui – anzi, più o meno. Il Bloomsday. La data in cui si svolge l’Ulisse, la stessa in cui James Joyce si recò al suo primo appuntamento con Nora Barnacle, sua futura moglie. E quale migliore occasione per (ri)leggerla nella nuova, riveduta, traduzione di Enrico Terrinoni, pubblicata per Bompiani: l’unica, con il testo inglese originale a fronte (completo di varianti a stampa e manoscritte); compresa di quattro saggi tematici e un commento che si dispiega per oltre duecento pagine per provare a districarsi tra le allusioni, le sottotrame occulte di un testo magmatico e di difficile interpretazione come pochi, ma che costituisce ancora uno dei massimi picchi dell’arte romanzesca del Novecento.

Le persone e i luoghi sono minuziosamente gli stessi della Dublino e dell’Irlanda del suo tempo, ma svolgono una funzione ulteriore: sono le metafore di un mondo e di una cultura senza confini nazionali: per trascendere questa stretta identificazione tra patria e trama, Joyce impiega un metodo chiamato “mitico”, lo stesso che verrà elogiato da Thomas S. Eliot ne La terra desolata. Per esprimere cosa si intenda con metodo mitico, userò le stesse parole di Eliot: «nell’usare il mito, nel manipolare un continuo parallelismo fra il mondo contemporaneo e il mondo antico, Joyce» segue un metodo che, stando a Eliot, altri dovranno usare dopo di lui: «È semplicemente un modo di controllare, ordinare, dare forma e significato all’immenso panorama di futilità e anarchia che è la storia contemporanea […]. È, lo credo seriamente, un passo verso la possibile resa del mondo moderno in termini artistici […]. Invece del metodo narrativo, noi possiamo ora usare il metodo mitico». E di conseguenza, fedele a questo proposito, lo stesso Eliot nel suo poema ne farà largo uso, costruendo una intricata selva di rimandi, mitologici e teologici, stratificati tra di loro, mosso dalla volontà di dare forma alla dialettica caos-cosmo del mondo moderno.
Al realismo narrativo, si sostituiscono una serie di parallelismi costanti affiancati al poema omerico. L’Ulisse è «un poema eroicomico in prosa», pervaso da una intensa ironia, dissacrante, e dall’antieroismo per antonomasia che caratterizza l’esperienza quotidiana. La stessa bassezza viene rovesciata di continuo, come un gioco di rimandi nascosti, nella magniloquenza che connota l’atteggiamento dell’epica. Da un lato scorgiamo la Summa Theologica di San Tommaso D’Aquino, dall’altra, fornita direttamente da Joyce, la Summa Anthropologica: perché è di questo che tratta l’Ulisse, l’«epica del corpo umano», come una «odissea moderna».

Stephen Dedalus, protagonista assieme a Leopold Bloom, si muove come Ulisse errante per il mondo, senza patria, estraneo ed escluso dalle sovrastrutture che regolano la vita nella società contemporanea: la Chiesa e lo Stato. Dedalus è identificato con Telemaco, idealista e alla continua ricerca di valori spirituali: deliberatamente esule. Le sue aspirazioni artistiche, la sua volontà di emancipazione della Ragione dalla educazione impostagli dalla famiglia e dal mondo, lo porteranno al rifiuto della vita convenzionale, la stessa che paralizza e inchioda gli abitanti di Dublino. L’intera opera di Joyce è legata come a un filo che tiene in piedi la cattedrale narrativa che egli ha costruito nel tempo, come un work in progress perpetuo, confermato dalla natura stessa della sua ultima opera, pubblicata appena prima di morire: il Finnegans Wake. Gli stessi temi, che troviamo esplodere nell’Ulisse, sono già il nucleo narrativo che costituisce il movimento di Gente di Dublino e de Il ritratto dell’artista da giovane. Ma quello che si compie qui è una vera e propria opera di smascheramento delle sovrastrutture oppressive che imbrigliano l’individuo nel suo pieno dispiegamento, e quello che viene cercato di fare attraverso la scrittura è una progressiva rivelazione della complessità e dell’integrità della struttura autentica della figura umana.
Leopold Bloom, invece, viene identificato con Ulisse stesso. È un uomo medio, inefficiente, esule perché ebreo, ma al contrario di Stephen, alla ricerca di concretezza. L’altra grande protagonista è Molly Bloom, come Penelope o la ninfa Calipso (ma anche Nausicaa…), la stessa che Joyce sceglie per concludere il libro con il suo monologo-fiume e a cui fa dire la parola che, forse, è la vera chiave di volta per interpretare e comprendere il travagliato viaggio condotto nella Dublino di inizio Novecento: «Sì». Con questa parola, infatti, si conclude Ulisse, e quel , così deciso, rappresenta l’accettazione incondizionata, ma non passiva, della condizione umana nel mondo. Agli occhi di Joyce, Molly è espressione della fisicità assoluta e dell’essenza della natura femminile. I suoi personaggi si rincorrono tra di loro come Telemaco alla ricerca del padre: Ulisse. Stephen, invece, appare più come un Amleto.
L’altro, vero, grande tema dell’opera è la mutabilità di tutte le cose. Non solo degli elementi della natura – tutto si trasforma – ma della vita stessa, come i riferimenti alla metempsicosi disseminati tra i dialoghi, dimostrano. I motivi conduttori ricorrenti costituiscono la tecnica compositiva che Joyce, come un direttore d’orchestra, utilizza per mettere in scena le ossessioni, le idiosincrasie, dei suoi personaggi – come nel caso di Blazes Boylan, l’amante di Molly, il quale fa la sua apparizione, seguito da un suono tintinnante delle sonagliere del calessino o dagli anelli metallici del letto.

Joyce nel 1915

La struttura. I capitoli sono costituiti da 18 scene, così come 18 sono i capitoli del libro. L’opera è divisa in tre grandi movimenti: la prima è riconducibile alla «Telemachia», come le avventure di Telemaco – Stephen, e di conseguenza è dominata dalla figura del figlio; la seconda è l’«Odissea», dove Ulisse-Bloom è il vero protagonista, e in cui predomina la figura del padre; la terza è quella del «Nostos», ovvero il ritorno di Ulisse a Itaca. Quest’ultima ritrae il ricongiungimento di Ulisse e di Telemaco (Bloom e Stephen) con Molly-Penelope (moglie e madre): l’epica del corpo umano finisce per sostituire, nel suo movimento conclusivo, lo spirito della trinità di Cristo.
Le tappe obbligate del viaggio intrapreso rappresentano l’archetipo del percorso della vita umana stessa. Cosa fare, infatti, di fronte ai bivi? Ricalcando la struttura dell’Odissea omerica, tra Scilla e Cariddi, e le Rocce Simplegadi, Joyce decide di attraversare entrambe le strade: le Simplegadi, cozzando tra di loro, come due forze opposte che schiacciano il libero manifestarsi della personalità umana, sono identificate con la Chiesa e lo Stato: è necessario superarle.
La protagonista è Dublino, autentico microcosmo e metafora della Terra intera, e i suoi personaggi si muovono in essa come dentro a un labirinto. L’emblema della metamorfosi di tutte le cose è plasmato da Proteo, la natura proteiforme del linguaggio ne è testimone. Contro l’ineluttabilità delle modalità di spazio e tempo in cui siamo come costretti, si contrappone Proteo: ovvero, il volto mutevole del mondo esteriore che si cela dietro di esso. In natura, se tutto si perde e si ritrova, così ogni cosa è continuamente rinnovata e perennemente ricreata. Per sfuggire all’«incubo della Storia», è necessario sognare come Stephen. Sottrarsi dal tormento del tempo. Tutto questo è possibile attraverso il sogno dell’artista: la creazione e la contemplazione di una opera d’arte, conclusa in sé, oggettivamente perfetta. Tra le varie cose, questo è il reale messaggio di Ulisse.

Omar Suboh

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