Lorenzo Pataro: Amuleti (con una prefazione di Elio Pecora)

La  nuova raccolta poetica di Lorenzo Pataro, si intitola Amuleti (Ensemble). In occasione dell’uscita del libro proponiamo la prefazione, firmata dal poeta Elio Pecora e, a seguire, cinque poesie selezionate dalla redazione.

“Di una raccolta di componimenti in versi si può affermare che abbia raggiunto o toccato la poesia – che, nell’attuale moltitudine di versificatori, appare come un uccello assai raro – quando ci si trova dentro un’opera mossa da una sua necessità ed espressa con strumenti saldi e affinati. E gli strumenti non possono che essere quelli di una lingua posseduta e anzitutto sentita, e quelli di una visione di sé e del mondo che quel sé contiene e comprende.
Questo libro di Lorenzo Pataro possiede qualità e forze e umori. Il territorio, nel quale l’autore si cerca e si palesa, appartiene a un altrove che ingloba l’umano, ma non lo isola e restringe. Il titolo Amuleti fa pensare agli amuleti montaliani, a oggetti e soggetti che modulano i significanti ed estendono i significati. Nell’epigrafe di Gianni Celati – una delle tre che aprono il libro e sono indubbiamente mappe per un tragitto da compiere – si dice di parole che “chiamano qualcosa perché resti con noi”. Quel che resta qui di una fitta elencazione di luoghi, oggetti, animali, piante, stagioni è insieme vigilanza e stupore, attesa trepida e insopprimibile desiderio di essere e di restare. E se della negazione e del dubbio, in cui è stato immerso e sommerso il Novecento, persistono qui le ombre e gli appigli, se una irreparabile scontentezza sta dietro gli avvii e le soste di tanto chiamare ed evocare, mai s’accampa una definitiva rinuncia alla felicità, mai si cede a un’estrema invalicabile negazione.
Tutto – in questo continente di parole, di frasi, di cadenze – si avvolge in un ritmo denso e pacato. Il verso, che propende all’endecasillabo, ne esce per acclimatarsi in chiare e libere cadenze. Tutto si presenta come composto di un’uguale sostanza, eludendo ogni separatezza, trovando segrete ragioni in una confidenza e in una prossimità che sfociano in una cercata alleanza. “Gettati in un nome verso un nome” uomini, cose, elementi sfuggono a “l’inganno consueto” del reale anche solo nominandosi. E saremmo a un niente nuovamente acclarato se ogni immagine e percezione e sentimento non fossero espressi con una tenerezza che è pure nostalgia di un esistere senza confini e stretture.
Ma se tutto è parola, e qui Wittgenstein impera, e se ogni materia ha respiro, cammino, sogno, pure in questo sogno e con le parole accolte e convocate noi seguitiamo a chiamare
la vita e ad abitarla, e di ogni parola facciamo un talismano che apre porte, disegna mappe, appronta percorsi.
Può l’umano sfuggire al tedio, alla disperazione, anche al la paura e alla fallibilità dell’attesa, cercandosi fino a dimenticarsi, nella molteplicità? Lorenzo Pataro s’inventa un inizio quando scrive e intona: «In principio fu la condanna beata / dell’insonnia a tenerci vigili all’arrivo / della felicità, fu un ago nel cuscino / la scoperta che non eravamo noi / i dormienti scelti.» Ne viene un’ulteriore domanda: «Può la poesia contare su reami di parole per uscire dal labirinto convulso di quel che chiamiamo realtà?» E non è forse quel che da millenni si pone come dono e fatica la poesia?

A cura di Elio Pecora


Cinque poesie tratte da Amuleti, di Lorenzo Pataro

Mi innesti alla tua pianta, mi aggrappo
alla tua gemma che è ferita, raccolgo
il tuo respiro dalla crepa, lo scavo come fosse
una miniera, lo tengo come fuoco
tra le mani consegnato dalle braci,
lo tengo per quando arriva il gelo,
al riparo dalla febbre sulle tempie,
da quel freddo-animale che fa scarni,
fa muta la parola e ci leviga le ossa.
Raccolgo il tuo respiro come un frutto,
lo semino all’interno, benedico la tua fame
e la porto come un dono che ha il vizio di brillare.

§

Nell’attesa di un chiarore
ci passiamo il talismano come un fuoco
da bruciare lento sulle dita, l’amuleto
di carta velina da mordere coi denti –
tu accendi un’altra fiamma nel calice
verde sulla tavola, leggi i tuoi tarocchi
e sui fiori illustrati segni al contrario i vaticini
mentre fuori un altro anno
rovescia i nostri nomi e l’alfabeto.

§

Visione nitida, d’insieme. Visione
frontale. Lo sciamano attorno al fuoco.
Il tuo anello che pulsava, attirava
la pelle verso il rogo. Un canto
gregoriano. Le linee della mano
tutte unite. Le orme sulla rena,
qualcosa che volava sulla testa,
il tamburo con la pelle delle bestie,
i fossili e il richiamo, la stagione
della caccia, la danza del tuo nome
attorno al mio.

§

Cercavo il medaglione. Il quarzo
nella sabbia per i giorni che verranno,
come a dire “che non piova mai sul tuo nitore
di bambino, nell’ambra tua preziosa”,
per ogni male che cresce, un altro, sepolto,
si assottiglia, tra tutte le vite potenziali
proprio questa, ora, in quest’ardore
di ametista, mentre fuori avvampa
ogni vigilia e resta solo il desiderio
di chi ha visto la luce e la rivuole.

§

A un tratto di punto in bianco
respira. Il volo si schianta
sulla pelle depositata
dietro il divano,
si contorce all’indietro
cercando la squama
l’ala d’oro sottratta alla fatalità,
il guscio dopo l’eruzione
si chiude a gomitolo,
copre la cellula malata
con un balsamo amaro:
è la vendetta della bestia
muta senza lingua.

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