Immaginava che la storia fosse la mente
della Terra, e che nel corpo della Terra esistessero
strati molto in profondità, strati di storia simili
ai giacimenti di carbone o di petrolio.
Thomas Pynchon, L’arcobaleno della gravità

«Da qualche parte, fra i rifiuti e le scorie del mondo, si nasconde la chiave che ci riporterà alla nostra Terra, ci restituirà alla nostra libertà». È forse questo il senso, il significato più ampio, dell’intera opera dello scrittore più silenzioso, misologo, misantropo, chiuso nell’anonimato più assoluto di ogni tempo?: Thomas Ruggles Pynchon Jr., nato a Glen Cove (Long Island), l’8 maggio 1937: il più grande autore americano vivente. I temi che attraversano l’intero arco narrativo sono sempre gli stessi, dal dominio della Tecnologia, alla Guerra come paradigma politico, le ingiustizie verso gli oppressi e le minoranze etniche schiacciate dall’imperialismo, la Storia e la possibilità di realizzazione dell’uomo nella sola dimensione artistica: l’unica in cui l’uomo possa portare a compimento la propria individualità e libertà; e ancora, la Scienza – studiata dallo stesso Pynchon, figlio di un padre ingegnere, e quindi iscrittosi alla facoltà di Fisica della Cornell University, e abbandonata per laurearsi in lingua e letteratura inglese nel 1959 –, la parodizzazione di tutti i generi letterari, attraversati da una irrinunciabile comicità grottesca che la rende tra le sue cifre stilistiche più evidenti.
V., suo primo libro, apparso nel 1963, è un’opera mondo in cui sono già concentrati tutti questi temi: sviluppato su più stilemi narrativi (dal diario di viaggio, al giallo, il romanzo storico), racconta le avventure di due personaggi dai tratti bizzarri e tesi in una estenuante Ricerca senza fine. Benny Profane è uno schlemihel, un tipo maldestro dalle dita fatte di burro, disadattato e ossessionato dalle merci – il rapporto con l’inanimato e il continuo compenetrarsi dell’organico nell’inorganico, sono altrettanti feticci letterari pynchoniani –, che finisce a frequentare un gruppo chiamato la Banda dei Morbosi, dei bohémien che vivono completamente distaccati dalla realtà (impossibile, qui, non pensare al Club del Serpente di un altro libro mondo, uscito nello stesso anno di V., ovvero Rayuela di Cortázar); Herbert Stencil, figlio di un diplomatico misteriosamente scomparso a Malta, raccoglie le tracce di V., partendo proprio da una enigmatica frase ritrovata nel diario del padre («Dietro e dentro V. c’è molto di più di quanto nessuno possa sospettare. Non dobbiamo domandarci chi è, ma che cosa»), e per farlo attraversa innumerevoli luoghi, passando per Parigi, l’Africa, l’isola di Malta, in una instancabile ricerca erudita che è il contrassegno dei rapporti di forza presenti sulla Terra: la ricerca di una ricerca, che trasforma il suo itinerario da detective–filologo, in un romanzo sulla letteratura, ovvero: sul grande gioco che rappresenta la scrittura come capacità di rivelare un segreto nascosto.
L’incanto del lotto 49, secondo lavoro di Pynchon (pubblicato nel ’66), è bollato dallo stesso autore come potboiler, un testo commerciale scritto per necessità. Ma è veramente così? Come nella leggendaria introduzione alla sua raccolta di racconti dal titolo Un lento apprendistato, apparsa nell’84 – uno dei pochi documenti che ci ha concesso sul suo lavoro, una sorta di finestra aperta sul suo laboratorio di scrittura, oltreché di guida e monito per l’aspirante scrittore –, scopriamo che Pynchon è eccessivamente denigratorio nei confronti di se stesso e della propria opera, così come quei racconti (scritti tra il ’59 e il ’64), vogliono essere dei bozzetti preparatori dei temi, e dei personaggi delle sue successive cattedrali narrative, che comunque risultano importanti per inquadrare l’evoluzione e il percorso del suo autore. L’incanto segue le vicissitudini di Oedipa Maas, una casalinga frustrata, che scopre di essere stata nominata esecutrice testamentaria di un ex amante, è che per una serie di corrispondenze viene a scoprire dell’esistenza di un sistema di comunicazione segreto e antagonista rispetto al monopolio postale governativo. Siamo in California, e la protagonista si muove tra Los Angeles e San Narciso (un luogo fittizio), dove fa una serie di incontri con personaggi eccentrici, come il suo psicanalista, Hilarius, conosciuto per le sue terapie a base di acidi lisergici come l’LSD25, di cui è solito farne uso il marito di Oedipa, ormai assuefatto, arrivato al punto di affermare di essersi trasformato in «una stanza piena di gente» o «un’antenna che irradia ogni notte» la forma del suo ego. L’elemento che tutto lega è il Trastero, un misterioso simbolo che raffigura il corno da postiglione con la sordina, è che Oedipa ritrova ovunque: nelle strade, nei locali notturni… Qui si insinuano altri due grandi nuclei tematici dell’opus pynchoniano, come la questione dell’Entropia e della Paranoia. La prima è studiata nella sua duplice forma: da un lato rispetto alla seconda legge della termodinamica, come perdita costante di energia all’interno di un sistema chiuso (la teoria del diavoletto di Maxwell, come intelligenza capace di selezionare le molecole per creare una differenza di temperatura); e dall’altra nell’ambito della teoria dell’informazione: siamo immersi in un flusso di comunicazione continuo, ed è partendo da questo presupposto che Pynchon trascina più testi, apparentemente slegati, all’interno del corpo della stessa opera (come nella Tragedia del Corriere, ambientata in un immaginario Stato rinascimentale italiano). La Paranoia, invece, è «disciplina del controllo», autentica fissazione dell’immaginario collettivo americano degli anni Sessanta, che tesse le sue trame oscure collegando i fili di una trama che fa della cospirazione il suo contrassegno principale.
Ma è soltanto nel 1973 che Pynchon raggiunge la vetta dell’olimpo letterario, scrivendo quello che ancora oggi è considerato uno dei testi canonici per la letteratura Occidentale (secondo il celebre canone redatto dal critico Harold Bloom), riuscendo nell’impresa impossibile di cartografare l’incommensurabile, e vincendo l’anno dopo il National Book Award: L’arcobaleno della gravità, «il mostro finale» come scrive Vanni Santoni nel suo pamphlet La scrittura non si insegna, un libro che trascende il postmodernismo e diviene un genere a sé. Bollato dalla giuria del premio Pulitzer come «osceno», «illeggibile», L’arcobaleno è un libro simile, per imponenza e maestosità (400 personaggi e oltre affollano le sue pagine), all’affresco michelangiolesco del Giudizio Universale, ben oltre Bruegel e Bosch. Pervaso da un enciclopedismo abnorme, una erudizione smisurata, si muove tra il vero positivo e le cose inventate, come messo in evidenza da Marco Trainini in una delle poche monografie italiane dedicate all’opera (Pynchon, Castelvecchi 2020). Scritto con una lingua stratificata, pluridiscorsiva, in grado di mischiare i fumetti alla cabalistica, e dove su tutto regna incontrastata l’alienazione del mondo contemporaneo, e il dominio della Tecnica: come già in Metropolis di Fritz Lang, dove tutta la sua potenza viene utilizzata come fonte di legittimazione del potere; si fa strumento di manipolazione delle coscienze, così come la Guerra si configura come un immenso laboratorio che «non ha mai radici nella politica», ma soltanto nella compravendita (tra cui quella di milioni di vite umane) e nella «celebrazione dei mercati». Il missile, che attraversa le oltre mille pagine del volume come uno spettro perenne sullo sfondo degli avvenimenti della Seconda Guerra Mondiale, è una astrazione, più che una realtà fattuale. È il punto in cui convergono la filosofia e la meccanica, è il simbolo che si muove tra due forze opposte ma che si attraggono a vicenda: la Gravità, che lo trascina verso il suolo; e la Promessa di Dio: il missile come divinità moderna, la cui simbologia è quella del Grande Serpente che si morde la coda; o ancora, il destino di una «forma predestinata», che conduce a una lenta estinzione: perché l’umanità è innamorata del proprio annientamento. In questo disordine accurato si muove il soldato Slothrop Tyrone, discendente di un eretico che scriveva libri proibiti, e di una famiglia che investii il proprio patrimonio nei tre capisaldi sulla quale è stata edificata l’America: la carta igienica, le banconote, la carta da giornale: ovvero, la merda, i soldi, il Verbo. Utilizzato come cavia da uno psicologo comportamentista dal nome di Laszlo Jamf, a sua insaputa, reagisce a ogni lancio del razzo con un riflesso condizionato: uno stimolo sessuale che fa del sibilo del missile, anche a distanze abissali, la causa del gonfiamento del suo pene dolorante.
Tyrone si muove nella scacchiera europea come un Don Giovanni postmoderno, e ogni sua conquista amorosa finisce, sempre, per coincidere con un luogo dove il missile ha colpito. Cambia identità in svariate occasioni, assumendo le sembianze di Rocketman, di un Maiale–Eroe, si vestirà con camicie hawaiane, si comporta come un «albatro spennato», incarnazione del folle emarginato dal mondo. Nella epopea pynchoniana i personaggi sono ormai privati di ogni appiglio della religione, è tutto accade nell’ottica di un disincantamento generale, e dove nemmeno l’amore sembra esercitare una influenza decisiva. Paradossalmente, è proprio la Paranoia a divenire strumento creativo, con la possibilità di disegnare scenari alternativi e mondi altri, può svolgere la funzione di antitesi dei sistemi oppressivi che imbrigliano la condizione umana. Un testo costruito sulla velocità, l’energia, che ci conduce sempre sull’orlo di una Rivelazione che, apparentemente, sembra conferire unità al tutto, ma che non si configura mai nella sua totalità. L’arcobaleno è la cronaca dell’istante finale che precede l’Apocalisse, e la sua traiettoria nel cielo è la scia caleidoscopica di una civiltà al tramonto.
Cambio di registro in Vineland (1990, dopo diciassette anni di silenzio, rotti soltanto dalla pubblicazione dei suoi primi racconti), momento di rottura tra i due capolavori – L’arcobaleno e Mason & Dixon, pubblicato nel 1997 –, segue la storia di un ex hippie, Zoyd Wheeler, costretto ogni anno per ricevere il sussidio statale come malato di mente a devastare un locale a favore di telecamera. Tra i protagonisti indiscussi di questo lavoro, considerato a torto come minore, c’è Tube, ovvero la Televisione come forza che scandisce il tempo, dotata di un immenso potere di mediazione che ha «fatalmente compromesso la realtà». Ambientato nel 1984 – con il chiaro intento di omaggiare l’omonima opera di Orwell –, si sviluppa negli anni di Reagan, e del ritorno del proibizionismo, della repressione a tutti i costi e della lotta alla droga. È in questa Nuove Era che si muovono i personaggi, tra cui Frenesi Gates, moglie di Zoyd, feticista della divisa e amante di Brock Vond («la celebrità del momento dell’antidroga») che la sfrutta a suo piacimento per arrivare a sgominare una pericolosa banda di cineasti dal nome 24fps: hanno l’obbiettivo di fondare una Repubblica Popolare del Rock and Roll. La ricerca di Zoyd che fugge con la figlia Prairie (nata dal rapporto con la moglie e il procuratore federale), è riflessione sullo statuto della realtà: il presente in cui siamo immersi è l’«immagine allo specchio» del passato, e il cinema, come il caso dei ribelli armati di cineprese, è un processo di resurrezione di un tempo, quello degli anni Sessanta, prima che Tube creasse un popolo di né morti né vivi: i Thanatoidi, che, come nel Bardo del Libro tibetano dei morti, sostano nell’interregno che appare prima di morire.
Mason & Dixon è un ritorno ai fasti dei Settanta per Pynchon. Opera monumentale come L’arcobaleno, che «soltanto un demone sa come sono stati scritti» secondo Bloom, è un romanzo storico, che racconta di Charles Mason e Jeremiah Dixon, rispettivamente un astronomo e un cartografo, e del loro tentativo di tracciare tra il 1763 e il 1767 una linea di demarcazione che segni i confini della Pennsylvania, del Maryland, del Delaware e della Virginia Occidentale. Sullo sfondo dell’età dei lumi, Mason & Dixon sono il simbolo della ragione emancipata, incarnazioni di idee – il romanzo ruota intorno a queste, non sulle azioni –, rappresentano l’intersecazione di Terra e cielo. Ma è anche, e soprattutto, un romanzo sul concetto stesso di Storia, scritto ricorrendo a un apparato di antiquariato linguistico che riproduce il pastiche dell’inglese del Settecento, con i fedeli stilemi dell’epoca. E poi c’è il colonialismo, gli ultimi, quelli che nell’Arcobalenoerano i preteriti – ovvero, le masse trascurate da Dio e della Storia –, come già gli Herero, la popolazione africana sterminata in un genocidio che è considerato il primo Olocausto del Novecento, e raccontato in V.; i chirghisi e i cazachi; i dodo, decimati perché uccelli incapaci di volare e privi del dono della parola. Qui, invece, sono i nativi americani a fare le spese della «Malvagia Politica di sterminio», e ancora: «il grande Vèrmine della Schiavitù», per cui il demarcatore che si sta tratteggiando per delineare i confini, in realtà, si configura come un confine ideologico in prima istanza, oltre che geografico. La ricerca di uno «spazio puro», la linea delineata come rappresentazione spaziale del tempo, e la Terra è una superficie su cui incidere un geroglifico, come un corpo da disegnare, e dove studiare il Cielo è come masturbarsi: “Star-Gazing”, nel gergo giovanile ripreso da Pynchon, è l’espressione che racchiude questo gesto.
Contro il giorno, pubblicato nel 2006, è il libro più lungo scritto da Pynchon: mille ottantacinque pagine. Si svolge tra la fine del XIX secolo e la prima decade del XX, e racconta la travagliata vicenda della famiglia Traverse, legata allo sfruttamento dei lavoratori nelle miniere, che porterà all’omicidio del padre e nella ricercata vendetta da parte dei quattro figli. Opera che presenta il maggior numero di locazioni geografiche dell’intero corpus pynchoniano, attraversati da continui slanci spazio temporali che trascendono le tre dimensioni per aprirsi alla Quarta, è abitata da gruppi che viaggiano tra le epoche come Gli Sconfinanti, e da una setta neopitagorica di iniziati: è il viaggio metafisico per indicare una via verso il superamento delle convenzioni borghesi, dalla politica al sesso, alla droga… nel tentativo di trovare una soluzione a una epoca di carestia mondiale che è la fine del capitalismo stesso. La luce, contro la quale si scaglia, è il nucleo tematico centrale, cifrato: racchiuso nel concetto di «doppia rifrazione» di un minerale spettrale, lo spato d’Islanda, è che, come nella frase in epigrafe del pianista e compositore Thelonious Monk, consente di rischiarare la nostra condizione di una perenne notte in cui siamo precipitati. La luce si rifrange come un prisma lungo tutte le pagine del romanzo, percorso da una «sinistra inconoscibilità», per la quale ogni azione di resistenza sembra apparire inutile al cospetto della Grande Cospirazione della Realtà, dove l’orrore, il Male, sono iscritti nel codice genetico degli esseri umani senza via di scampo. E lo spazio tra la Terra e il Cielo è attraversato dalla Luce, la stessa che inseguono a bordo di un’aeronave all’idrogeno I Compari del Caso: incarnazione di una sorta di giustizia extraumana, raggiungibile soltanto passando per l’Ætere che porta la luce e penetra in ogni luogo.
L’Extended Universe di Pynchon, a oggi – per cui è possibile parlare di veri e propri vasi comunicanti che si attraversano continuamente, in una serie di rimandi simili a un gioco di specchi, tra personaggi che ritornano e scansioni temporali trascese –, si conclude con due libri che sono l’uno la controparte ideale dell’altro: Vizio di forma (uscito anche in una versione cinematografica, l’unica, del regista Paul Thomas Anderson), del 2009, e La cresta dell’onda del 2013. Entrambi seguono le vicissitudini di due investigatori, Larry “Doc” Sportello nel primo, e Maxine Tarnow nel secondo. Doc segue il caso di un presunto rapimento ai danni dell’amante della sua ex compagna, un ebreo che «vuole essere un nazista»; Maxine, invece, è immersa in una New York simile a un caleidoscopio, una megalopoli che sembra sempre di più un videogioco. Entrambe le opere possono essere definite come un profondo omaggio alla narrativa gialla, e se da un lato, Vizio di forma è una dichiarazione d’amore agli anni Settanta – dove l’unica via di salvezza rimane il Cielo –, dall’altra parte, l’ultimo libro di Pynchon suona come un melanconico requiem per una civiltà colpita dal disastro dell’11 Settembre (siamo nella Primavera del 2001): tutti ci muoviamo come in un labirinto all’interno della Rete, dove le informazioni trasmesse sono prive di forma, e l’unica anarchia è quella incarnata dal cyber–spazio. Ogni messaggio è frammentato, e come scrive DeLillo: il potere del «capitale informatico crea il futuro». Non resta che rifugiarsi nel DeepArcher, il software informatico che diventa open source, sorta di Xibalba – l’oltretomba dei Maya –: un rifugio virtuale dove rifuggire dal mondo reale. Nella sottomissione alla Rete, che crea e alimenta dipendenze compulsive come lo shopping sfrenato, il tempo abnorme passato davanti ai videogiochi, lo streaming selvaggio e la masturbazione, tutto questo rimanda ancora una volta alle trame occulte del Potere: così, forse, è possibile leggere l’intera parabola narrativa dell’opera di Pynchon, come un tentativo di decifrare questo enigma: da V., a Tristero, passando per il missile OOOOO. E a noi rimane il silenzio, racchiuso nelle poche fotografie esistenti dell’autore, lo stesso che ha attraversato il corpo del Novecento e lo ha visto trasformarsi dopo averne profetizzato la sua disfatta.
Omar Suboh