
Zebù bambino (Terra d’ulivi) di Davide Cortese, è tutto un programma, fin dal titolo e dalla birbonesca, indovinatissima immagine che si trova in un post dell’autore su Facebook per diffondere il libro (e che sarebbe stata perfetta come copertina), che mostra un bebè con tanto di sorriso diabolico, sguardo strabico e cornetto in testa, appeso in fasce a una parete, con un ombrello fra le gambe, che tanto ricorda il caduceo di Ermes e il bastone di Asclepio, simboli rispettivamente di sapienza e di risanamento. Un vero e proprio murales in rilievo, o il riquadro di una striscia di fumetti che attende in agguato il lettore, orientandone l’orizzonte di attese, mentre nel contempo dichiara il registro comico fiabesco dell’opera, che risulta pertanto ben definito fin da questa sua ipotetica rilegatura. Poiché la componente “grafica” qui gioca una parte notevole nel senso che mi appresto a chiarire: questo brevissimo testo simula una sorta di manoscritto illuminato o miniato medievale, ove ogni carattere della scrittura si tramuta da un lato in caratteristica pervasiva contribuendo alla unicità dell’opera, alla sua aura, e dall’altro in caricatura dei suoi contenuti, affidati all’alea del tempo e al capriccio della traccia amanuense. In una sorta di anticipazione artigianale di quella teoria moderna della écriture o della traccia che spro-fonda ogni presenza e rappresentazione.
Tutto ciò ha in effetti a che fare con il nostro testo e con lo stile (stilo) poetico del suo autore, che a mio parere è proprio quello dell’incisore e del miniaturista in grado di raccogliere temi e schemi di ampia portata in componimenti brevi e icastici, dai ritmi battenti e dalle clausole memorabili. Di raccogliere insomma nella filastrocca naive, le fila di un discorso epocale e gli echi di una tradizione lirica ormai consunta, rovesciandoli sotto gli occhi del lettore come oggetto di visione, come il negativo di una foto d’epoca o l’impronta di una lastra d’incisione, affinché li si possa guardare da un punto di vista altro, ossia da quello dello spazio intermediale e non più solo letterario in cui ci troviamo immersi. Sono rilievi che valgono in parte anche per la produzione precedente di Cortese ma che ora, nella vicenda di Zebù, appaiono raccolti e condensati icasticamente in una “lacrima di zolfo”.
Questo è il pregio del libro e il suo tratto saliente. L’ammiccamento promozionale ci introduce pertanto a un vero e proprio programma di poetica, scritto fra le righe del testo, che ammette perciò diversi livelli di lettura, ciascuno dei quali è appannaggio di un genere e di una generazione di lettori diversi. Perché, come è ovvio, il registro manifesto di questi versi è quello della favola per bambini, scritta nella “grammatica della fantasia” di Gianni Rodari, che modula in seconda istanza nel mistero buffo a la Dario Fo, e in una terza in quello delle vocalizzazioni perverse di Carmelo Bene che dissolvono ogni testo nella occasionale performance del guitto di turno. E così via, fino ad arrivare alle implicazioni teologiche, peraltro dichiarate nel titolo, delle “nozze del cielo e dell’inferno” di William Blake, incisore visionario, che nelle sue illustrazioni della Bibbia e della Divina Commedia, nonché nei suoi “canti dell’innocenza e dell’esperienza”, può a buon titolo essere preso insieme a Rodari come uno degli opposti poli entro cui situare questa sulfurea parodia dell’Avvento.
Se poi addirittura, nella demonizzazione della storia sacra, vogliamo anche scorgere la traccia del mito greco e richiamare alla mente alcune sue figure, vi troviamo forse quello che è l’archetipo sotteso, l’antenato più plausibile del nostro piccolo impertinente Zebù: e cioè Ermes, il più precoce e birbone tra i fanciulli divini (Kuroi). Figlio di Zeus e di Maia (nella mitologia vedica, la vergine che stende un velo fra la realtà e l’apparenza) fu deposto in fasce dentro una grotta, ma subito ne fuggì a gambe levate per rubare le mandrie del sole, i buoi sacri al fratello maggiore Apollo, e poi, trovato il guscio di una tartaruga ne costruì subito una lira, con la quale si rintanò di nuovo nella grotta. Apollo, signore degli indovini, naturalmente riuscì a scovarlo in un battibaleno ma la sua ira venne subito ammansita dalla musica della lira, suonata con maestria dal fratellino in fasce. Ermes dunque mostra fin dall’infanzia la birbanteria, la presenza di spirito, la maestria artigianale e il gusto della finzione che ne avrebbero fatto il dio degli incroci e delle occasioni, il protettore dei ladri e dei viandanti, l’alato messaggero degli dèi e il trait d’union fra l’Olimpo e l’Ade, il cielo e gli inferi. In quest’ultimo ruolo di guida delle anime, o di psicopompo, lo vediamo all’opera nel mito di Orfeo e Euridice, cui fa da guida nella tentata fuga dagli inferi. La perdita di Euridice, figura della mancanza dell’oggetto amato, resterà poi in ogni successiva elaborazione del mito come l’alimento e la condizione del canto. In Ermes insomma, briccone divino e principio di ogni ermeneutica, si trovano, raccolti in immagine, tutte le ambivalenze del pensiero e dell’arte, tutto quel dialogismo che avrebbe innervato i generi del discorso e della scrittura avvenire.
È proprio Ermes dunque, mi pare, l’archetipo del nostro Zebù, il doppio in cui convivono Gesù e Satana, il pescatore d’uomini e il grande seduttore, il Logos crepato dall’interno e la Sapienza ambigua del Figlio che siede alla destra del Padre dall’inizio dei tempi, in attesa di incarnarsi e sacrificarsi per la salvezza degli umani. Questo il quadro di riferimento per poter leggere tra le righe di questa minuscola incisione illuminata, e per poter ascoltare gli armonici distanti del battito di zoccoli scandito dai suoi versi per lo più eccedenti la misura canonica dell’endecasillabo ma temprati dalla incisiva cadenza del distico, che si dispiegano sul fondale corrusco di una farsa ontologica e teologica, travestita da fiaba per bambini, che rappresenta la cesura-unione fra l’essere e il linguaggio, la crepa madre della poesia, custodita nel cuore di Zebù solo e senza amore, dalla notte dei tempi.
Il libro è diabolico in senso pieno, cioè imperniato sulla figura del doppio speculare da cui emanano tutta una serie di marcate simmetrie di ordine sia tematico che strutturale: antitesi e distici, ossimori e paradossi. Giochi al massacro dell’ordine logico del testo e di quello spazio-temporale del mondo creato. Composto da ventuno brevi liriche, o incisioni fuse al calor bianco, il testo possiede però una notevole coesione di ordine semantico e figurale, che ne fa un vero e proprio poemetto satanico e una acuta indagine sulla possibile “ricreazione” del mondo. Senza addentrarsi troppo in particolari, lasciandone al lettore il piacere della scoperta, basta solo soffermarsi sulle due liriche, iniziale e finale, del testo per dare un’idea della sua coesione e icasticità. All’inizio il bambino Zebù mostra apertamente la doppiezza della propria natura: “Scoccano insieme/ la mezzanotte e il mezzogiorno./ È l’ora di un eterno crepuscolo./ Due miei volti si specchiano/ nelle ginocchia sbucciate/ del demone bambino” (p. 5). Questa lirica funge da prologo o da fondale all’intera vicenda, marcando la sua posizione liminale con l’essere l’unica scritta in versi liberi. Tutte le altre saranno in rima. L’ultima brevissima chiude a doppio mandato la vicenda offrendoci però la chiave della sua riapertura: “Diventerà un bel giovane/ il piccolo Zebù./ Presto farà breccia/ nel cuore di Gesù” (p. 25).
Sembra la felice conclusione di una favola a lieto fine: una sorta di redenzione del piccolo diavolo. Ma bisogna fare attenzione ad alcuni particolari che troveranno ampio riscontro nella lettura dell’intero testo. Anzitutto che lo specchio in cui si sdoppia il volto del birbantello, è costituito da una ferita sulle sue ginocchia, che riappare infine come “breccia” nel cuore di Gesù. Dunque quel “far breccia” si può anche leggere come “il costituire la breccia” che fende da sempre il cuore del Figlio, del Verbo che si incarna e si sacrifica per salvare (o ricreare) il mondo. Il che fa di Zebù il doppio consustanziale del Salvatore, in una rilettura eretica della storia sacra, a partire dal rovesciamento del fiat lux iniziale, perché Zebù ama le tenebre e nei suoi giochi innocenti “accende mille fiammiferi nella notte”. Il testo mette in scena insomma una vera e propria catastrofe intesa nel senso etimologico di “rivolgimento” di quella storia della salvezza che innerva tutto il pensiero e l’arte occidentali. Letto così, come un manoscritto illuminato, cioè nella duplice prospettiva del testo e dell’immagine, il testo si manifesta dunque nella sua corrusca matericità, come ciò che Mattia Tarantino, nella sua bella postfazione, definisce felicemente come mero Factum Loquendi, evento della parola poetica che però non può affatto offrirsi a noi lettori come presenza, ma solo più nella dimensione della scrittura e della traccia, cioè come differenza e differimento (différance) dell’accaduto nell’avvenire. L’artificio della scrittura contiene così in parodia il sacrificio della parola. Questa è l’implicazione escatologica e soteriologica dell’opera. E tuttavia questa favola di Cortese rimane allegra e giocosa da capo a piedi, e si butta giù tutta d’un fiato, come un sorso di rum che ti scalda le vene e ti brucia dentro, come una lacrima di zolfo.
Giuseppe Martella