In una poesia – in ogni poesia – si scopre sempre un verso capace di imprimersi nella mente del lettore con particolare singolarità e immediatezza. Pur amando una poesia nella sua totalità, il lettore troverà un verso cui si legherà la sua coscienza e che lo accompagnerà nella memoria; il verso sarà soggettivato e anche quando la percezione della poesia cambierà nel tempo, la memoria del verso ne resterà quasi immutata (o almeno si spera). Pertanto nel nostro contenitore mentale conserviamo tanti versi, estrapolati da poesie lette in precedenza, riportati, con un meccanismo proustiano, alla superficie attraverso un gesto, un profumo, un sapore, contribuendo in tal senso a far emergere il momento epifanico per eccellenza. Perché ispirarsi alle bustine di zucchero? Nei bar è ormai abitudine zuccherare un caffè con le bustine monodose che riportano spesso una citazione. Per un puro atto spontaneo, non si va a pescare la bustina con la citazione che faccia al proprio caso, è innaturale; si preferisce allora fare affidamento all’azzardo per scoprire la ‘frase del giorno’ a noi riservata. Alla stessa maniera, quando alcuni versi risalgono in un balenio alla nostra coscienza, non li prendiamo preventivamente dal cassettino della memoria. Sono loro a riaffiorare, da un punto remoto, nella loro imprevista e spontanea vividezza. (D.Z.)

«Nella scrittura di Bonnefoy la finitudine prende campo, lingua, ritmo e disegna all’orizzonte le pareti di una casa». Così ci dice Antonio Prete in un breve articolo dedicato a Bonnefoy, trattando le sue tematiche, un’unione di «fisica e metafisica congiunte nella lingua della poesia». Ma se, nella scrittura, fisica e metafisica si congiungono e se la scrittura si ritrova in un orizzonte di finitudine, allora non possiamo che trovare nella raccolta Nell’insidia della soglia (la recente riedizione della raccolta, tradotta da Fabio Scotto, traduce Nell’inganno della soglia), pubblicato nel 1975, un esempio di poetica che si pone proprio su una soglia, un punto di interregno, una linea di confine in cui da una parte la poesia sfiora l’indicibile e dall’altra non lo sa dire, oscillando fra il negativo e il positivo, il dubbio e l’affermazione. Di qui l’insidia o l’inganno – il termine leurre richiama in francese sinonimi come illusion e tromperie: illusione, inganno, per cui i termini in italiano si equivalgono. La scrittura, fonte essa stessa di ispirazione, è luogo di ascesi e illusione, salita e caduta, libertà e insidia, riscatto e rovina, come sottintende l’epigrafe tratta dal Winter’s tale shakespeariano – they look’d as they had heard of a world ransom’d, or one destroyed («sembravano come se avessero sentito parlare di un mondo riscattato o distrutto»): un intervallo fra due esperienze, fra la fine e l’inizio. E Shakespeare non apparve qui per la prima volta; essendo stato suo appassionato traduttore, ancor prima in Pietra scritta (1965), il poeta francese riportò un esergo, sempre tratto dal Racconto d’inverno, che pare anticipare la sua cifra poetica – thou met’st with things dying; I with things new-born («tu incontri le cose che muoiono, io quelle appena nate»). Troviamo nelle raccolte citate il limite e l’indeterminatezza della scrittura, mortale ed eterna insieme. Ma da dove nasce questa parola fatta di sangue e cielo? L’occasione, riferita da Bonnefoy stesso, riporta al suo desiderio di ridare vita a una grande casa in Provenza, ma col tempo difficoltà sia interiori che materiali resero irrealizzabile il progetto. Il libro nasce da questa esperienza del limite, della demarcazione fra pienezza e mancanza, dell’irrealizzato rimasto sulla soglia che diventa, per riflesso, la soglia entro cui si muove la penna; la soglia è illusoria, dona uno spazio in cui ci si muove consapevoli del limite oppure che in essa si sveli una possibilità di superamento, seppur non promette l’infinito, lo insinua, lo fa percepire. Pertanto scrivere narra la sua stessa cristallizzazione, la sua stessa morte purché riesca a far giungere sull’altro versante – quello metafisico, del nuovo inizio – una parte di se stessa. La scrittura possiede un’anima, uno spirito? Di certo possiede un soffio, ma quando questo soffio viene impresso sulla carta, resta lì o vaga altrove? Se questa di Bonnefoy è una “poesia fra due mondi”, ci ricorda Jean Starobinski nell’edizione dei Poèmes (1982), allora la scrittura si prefigura come una traversata. È innegabile, come lo era per Bonnefoy, che la traversata di questo soffio nella coscienza umana rappresenta il vero superamento della sua morte.
Bibliografia in bustina
Y. Bonnefoy, Nell’insidia della soglia (trad. di D. Grange Fiori), Torino, Einaudi, 1990.
Y. Bonnefoy, Nell’inganno della soglia (a cura di F. Scotto), Milano, Il Saggiatore, 2021.
A. Prete, Yves Bonnefoy: i passi dell’invisibile, in Yves Bonnefoy: la traduzione e i traduttori, pubblicato in «Semicerchio. Rivista di poesia comparata», XXX-XXXI, 2004.
Una replica a “Bustine di zucchero #61: Yves Bonnefoy”
Bellissima poesia
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