, , ,

José Vicente Quirante Rives, “Ombra e Rivoluzione. Variazioni sul naturalista Domenico Cirillo” (nota di Enzo Rega)

“Foto di gruppo con rivoluzionario” potremmo (re)intitolare questo romanzo d’esordio di José Vicente Quirante Rives, Ombra e Rivoluzione. Variazioni sul naturalista Domenico Cirillo (trad. it. Wanda Punzi Zarino, Colonnese Editore, Napoli 2020, p. 240, € 18; ed. spagnola: Confluencias, Almería 2018). Editore – ha fondato in Spagna nel 2003 la editorial Parténope specializzata nella narrativa dell’Italia meridionale –, direttore dell’Istituto Cervantes di Napoli dal 2005 al 2010, Quirante Rives alla città campana e al rapporto di Napoli con la Spagna ha dedicato finora diversi libri di saggistica: L’averno e il cielo. Napoli nella letteratura spagnola e ispanoamericana (con Teresa Cirillo, Dante&Descartes, 2007), Elogio del caffè al bar (Pironti, 2009), Napoli spagnola (Grimaldi, 2010), Viaggio napoletano in Spagna (Pironti, 2016).
Una vena saggistica rimane in questo libro di narrativa nel quale si ricostruisce la vita del botanico e medico napoletano Domenico Cirillo, che conclude tragicamente la sua esistenza insieme ai martiri del fallito esperimento rivoluzionario che nel 1799 dette vita alla Repubblica napoletana, ispirata ai principi di quella francese e vissuta solo sei mesi, da gennaio a giugno. Ma Quirante Rives non vuole fare un romanzo storico, sebbene la vita di Cirillo sia calata, e sia a sua volta espressione, della vita culturale, artistico-letteraria e scientifica del Settecento. La sua storia emerge dal racconto di trenta personaggi importanti di quel secolo – donne e uomini – che lo conobbero. Una struttura prismatica e sperimentale che ricorda quella del romanzo di Heinrich Böll, il cui titolo qui ho richiamato all’inizio: mi riferisco a Foto di gruppo con signora del 1971, nel quale la formazione e la vita di Leni nell’epoca del nazismo vengono ricostruite da Böll a partire dalle testimonianze di chi la conobbe, in quel caso sostanzialmente gente semplice e non personaggi in vista come quelli che contornano Cirillo. Nel libro di Böll si alternano parti saggistiche, articoli di giornale, verbali ecc. Questo tipo di materiale invece – scorci sulla cultura e la scienza del tempo – nel libro di Quirante Rives è rifuso nella narrazione che rimane fluida all’interno dei diversi medaglioni con i quali si mette a fuoco il ritratto del protagonista, sorta di monadi leibniziane, ma comunicanti tra loro. Quelli di Böll e di Quirante Rives sono romanzi polifonici, secondo la definizione di Michail Bachtin per i libri di Dostoevskij nei quali si presentano focalizzazioni di diversi personaggi le cui voci si sovrappongono a quella dell’autore: senonché nei romanzi del russo tutto è portato avanti in una magmatica e fluviale narrazione, e invece qui i punti di vista sono decentrati nei diversi e autonomi capitoli che il lettore raccorda nel flusso della lettura (raccordando le stesse angolazioni monadiche). Nel romanzo di Böll l’autore, chiamato semplicemente così, intreccia la propria presenza a quella dei personaggi. In Ombra e rivoluzione c’è invece un “ricercatore” che, appunto attraverso i diversi frammenti, va alla caccia delle orme di Cirillo, per cui il romanzo è anche la cronistoria della costruzione del romanzo stesso; e, nell’esperienza esistenziale di Cirillo, il ricercatore, e potremmo forse dire (autobiograficamente?) l’autore Quirante Rives, riflettono la propria in un molteplice gioco di specchi: Cirillo, i suoi contemporanei, il ricercatore, lo scrittore.
Questo movimento è presente anche nella costruzione temporale che va avanti e indietro nella cronologia, tranne che per la vicenda del ricercatore che, pur frammentariamente e alternata ai capitoli che riguardano Cirillo, si sviluppa lungo un asse lineare convenzionale. Le prime pagine si aprono, come in molti romanzi (e film) di oggi, e non solo, sugli eventi della fine: in questo caso l’arrivo delle truppe del Cardinale Ruffo che, a capo dei sanfedisti, guida la riconquista del Regno per i Borbone, provocando la disfatta della Repubblica napoletana: e siamo nel 1799. È questa la fine stessa della vita di Cirillo che viene impiccato con gli altri rivoluzionari in quell’anno, ma il libro, con analessi e prolessi (ovvero flashback e flashforward per dirla con più noto lessico cinematografico) rispetto all’inizio si proietta oltre quel fatidico anno che conclude il Settecento.
Dunque, in strada Fossi a Napoli, la madre Caterina Capasso, il 13 giugno 1799 (l’autore ci dà sempre precise coordinate spazio-temporali) maledice il figlio che, con la propria sorte, ha trascinato in disgrazia anche la famiglia sui cui beni si accanisce la furia vendicatrice, ma con il pericolo incombente del carcere per tutti. E nelle parole di Caterina in angustie per se stessa si ritrova anche il senso del libro incentrato su quella “svolta” che a un certo punto sconvolge la vita del protagonista: «Per Domenico, per il traditore, per il dottore che entrava quando voleva a Palazzo Reale e che ha lavorato per quei francesi bastardi senza ascoltare i consigli della sua povera madre che si è tanto sacrificata per lui» (p. 12). Dal paese originario di Grumo, Domenico, ragazzino, è andato a Napoli con lo zio Santolo per diventare medico, secondo la tradizione di famiglia, ma nella prospettiva che si realizzerà di esercitare la professione a un livello più alto di quanto avesse potuto fare il padre in provincia. Da lì comincia prima la sua carriera di botanico e poi di medico che appunto prende a curare la stessa famiglia reale ed entra in contatto con le figure più in vista del secolo. Per poi rinunciare alla cospicua posizione assunta nella società del tempo.
Alla catastrofe storica della Napoli repubblicana del 1799 corrisponde, nel capitoletto successivo, quella personale del ricercatore, che vediamo entrare in scena nella «prima estate dopo la catastrofe» (p. 15), e della quale (catastrofe personale) non sapremo nulla: ma lo vediamo andare in pellegrinaggio al santuario dedicato nell’isola greca di Cos ad Asclepio, il dio della medicina, della disciplina alla quale si è appunto votato Cirillo, la cui vita il ricercatore ricostruirà. Dalla sua patria è andato all’altro capo del Mediterraneo, in quest’isola sacra dove è nata la medicina e sulla quale sorge il suo inviolabile santuario, la cui «area godeva di immunità e per questo era protetto da attacchi e razzie» (p. 17). Dunque il ricercatore «Si è deciso per quell’isola greca perché è l’origine» (ivi).
Da questi presupposti si capisce come il romanzo che leggeremo non è “semplicemente” un romanzo storico. È comunque non solo di Storia con la Esse maiuscola si tratta, ma di tante storie minori, che sono poi la vita: così vediamo nel 1746 il piccolo con lo zio a Napoli, in Strada Fossi a Pontenuovo, nell’età in cui può svestire le gonne infantili per passare agli abiti maschili. Ed è l’incontro con la grande città, nella quale Quirante Rives immerge il protagonista e il lettore (p. 28):

Sulla strada verso i tribunali la città pavimentata con i basoli gli sembra una festa, e in quella fessura che la attraversa si fondono persone, voci, grida, strumenti lontani, cani randagi e cavalli che liberano il ventre speronati dai loro padroni, una giovane donna con una cesta zeppa di fichi dolci come il miele e un uomo vestito con un elegante cappotto blu che si copre il naso con un fazzoletto di pizzo bianchissimo, tre monache con gli occhi bassi e il passo leggero in modo che il mondo non le disturbi, i venditori ambulanti gridano la loro merce di peperoni e pomodori, broccoli e scarole e avvocati che gesticolano come negromanti davanti ai loro clienti imbambolati. Un odore caldo e acre esce dalle stanze che danno sulla strada dove le famiglie sono ammucchiate, uno scugnizzo agile come un’anguilla si intrufola tra lo zio e il nipote mentre viene rincorso da un canonico che ha ripulito, il sole cade a piombo da un cielo immacolato di un blu puro e morbido, caldo e accogliente.

Un ritratto della città partenopea vitale e lavorativa, contro il cliché della atavica pigrizia e indolenza, cliché già smentito nel suo Viaggio da Goethe, che giusto ai tempi di Cirillo è a Napoli e che Cirillo incontra: ritratto goethiano che si completa, con le stanze sovraffollate aperte sulla strada, con quello della porosità sottolineata invece da Walter Benjamin.
Già nel 1762 Cirillo fa partire da Napoli una lettera per Carl Linnaeus, “il principe dei botanici”, a Uppsala, aprendo una finestra sull’Europa coeva: il giovane ha ventitré anni ed è professore di botanica all’Università di Napoli. La sua ammirazione per lo scienziato svedese è tale che gli farà erigere un monumento nel suo giardino; ma Domenico deve anche rendersi conto che, nonostante il lavoro svolto nelle proprie terre, la pratica della botanica non gli darà di che vivere. La passione per la medicina si affaccia nel libro insieme a una delle donne la cui presenza è fondamentale nella vita di Cirillo, Lady Walpole, ricca inglese e libera pensatrice: e siamo a Palazzo Sessa, a Napoli, nel 1769. A lei il giovane medico risponde, a una domanda precisa, di non avere malattie preferite, perché non la malattia cerca ma piuttosto la salute dei pazienti; e al medico provinciale, ancora chiuso nella sua Napoli, ella dischiude, accompagnandolo, le realtà di Parigi e Londra: deve dirozzarsi nella professione a contatto della scienza europea.
Se spesso si parla in terza persona del personaggio focalizzato e del suo rapporto con Cirillo, talvolta sono i comprimari stessi a prendere la parola, come l’economista e linguista Ferdinando Galiani (l’abate Galiani), l’abruzzese che diventa uno dei nomi di punta dell’Illuminismo napoletano. Il 14 settembre 1769 da Venezia egli scrive a Madame d’Epinay, e le parla di Cirillo, che in un primo momento gli appare solo fedele cagnolino di Milady, ovvero la Walpole, per poi rivelarsi “un bravo spadaccino verbale e un uomo onesto” (p. 70). Un uomo onesto che resta sconvolto per le modalità prive di scrupoli con cui si curano le malattie veneree nell’inferno di Bicêtre, l’ospedale a due miglia da Parigi, e soprattutto a danno della povera gente: “Domenico si sente turbato nel più profondo, qualcosa di decisivo non funziona se esiste un posto cosi nel cuore della Francia, che è il cuore dell’Europa, il cuore del mondo. Un mondo corrotto” (p. 79). Ma Parigi è anche la città nella quale, sempre nel 1769, il medico napoletano, sostituendo Galiani che è appena ripartito, si ritrova a tavola con D’Holbach e Diderot, che gli chiede di fargli avere ben due copie della Scienza nuova di Giambattista Vico. Orgoglioso dell’attenzione di tali commensali – e pieno delle conversazioni su arte, filosofia, poesia e amore – sul tardi Domenico lascia la casa del barone d’Holbach per avere di notte un incubo kafkiano nel quale è lui il mostruoso insetto verso il quale vengono scagliate delle mele: spia di un sentimento di inadeguatezza?
E se anche Londra è luogo per approfondire conoscenze mediche a contatto con i più illustri personaggi, come John Pringle che ha studiato le malattie che affliggono i militari, qui torna anche al vecchio amore per la botanica visitando il famoso giardino di Kew, in un contesto nel quale però arti e scienze varie dialogano tra loro. «I viaggi hanno moltiplicato la sua cerchia di amicizie. Cirillo si sente pieno di vigore, la sua testa ribolle di novità, mentre i pettegolezzi di Napoli diventano con la distanza ogni giorno più piccoli» (p. 95).
Il rientro a Napoli (benché da qualcuno pur definita «la più brillante delle capitali d’Italia», p. 231), come tutti i rientri, non è facile: il medico si trova a combattere anche contro la superstizione legata al tarantismo, quel fenomeno terapeutico-etnomusicale studiato poi nel Novecento dall’antropologo napoletano Ernesto De Martino. E a proposito della guarigione dei tarantolati, ottenuta con la musica e la danza, egli pensa «Che la causa del tarantismo non dovrebbe essere cercata nella povera tarantola, ma nei pugliesi, o, se desiderate un’opinione più chiara, che si tratta di una fandonia […] Penso che sia un rituale, e che abbia più a che fare con l’appartenenza a una comunità che con la cura del morso di un aracnide» (pp. 116-117). E prosegue Cirillo subito dopo, mostrando come nella cultura del tempo tutto si tiene e gli intellettuali sono ancora eclettici e versatili come quelli rinascimentali: «Sulla musica, invece, ho fatto una trascrizione […]». (In un passaggio del libro compare pure Mozart, anche se in tal caso si tratta di musica colta).
La versatilità di Cirillo è mostrata anche da un breve scritto del 1786 in cui, accanto ai testi scientifici, dà prova della propria vis comica, occupandosi de Le virtù morali dell’asino; un testo che inserisce addirittura, come chiosa, nei Discorsi accademici del 1789, ristampandoli poi proprio nel 1799, l’anno della Rivoluzione e della morte.
Il capitolo del romanzo che ne riporta la notizia si apre con una domanda cruciale: «E se Domenico Cirillo fosse stata una persona completamente diversa da quella che ci ha lasciato in eredità la storia?» (p. 119). E l’intento di questo libro è infatti proprio quello di infrangere l’immagine agiografica di Cirillo, e al posto del monumento a lui dedicato restituirci l’uomo qual era. Un uomo e uno studioso curioso al punto di accettare di imparare anche dalla medicina cinese quando un medico orientale che pratica la scienza sfigmica, ascoltando il polso la cui auscultazione può rivelare ogni problema dopo aver bevuto una tazza di tè che dà vigore alla circolazione, gli diagnostica una debolezza di cuore: in termini cinesi non una “malattia” (nella lingua del paese dell’estremo Oriente non esiste nemmeno la parola) quanto piuttosto un “disordine”, e il compito della medicina è ristabilire la giusta armonia.
Ma qui siamo sempre nell’ambito dell’interesse medico. Come Cirillo esce dal monumento del celebre e misurato scienziato per diventare il rivoluzionario quale è poi ricordato dai posteri? Come è cambiato? Come cambia un uomo? Che è poi, come detto, questione di fondo del romanzo. A questo cambiamento siamo portati gradualmente. Una episodio in questo percorso vede protagonista René de Girardin, il giardiniere che ha curato il parco all’inglese (la natura caotica contro l’ordine del giardino francese) a Ermenonville, dove si è ritirato negli ultimi tempi e dove è morto Rousseau, l’ispiratore della Rivoluzione francese e di quel giacobino napoletano, Vincenzo Russo, rappresentante dell’ala radicale della Repubblica napoletana, che però Quirante Rives non ricorda nel romanzo che di tutto non può dar conto (anche se di molto materiale risplendono le sue pagine). A Ermenonville, René nel 1786 riceve in visita Cirillo, che gli appare tra i più entusiasti tra i suoi ospiti. Grazie a quella visita Cirillo, come gli dice il giardiniere, si porterà un po’ di Rousseau a Napoli (e il giardino all’inglese, caro a Rousseau, è allestito già nel parco della Reggia di Caserta).
Come ci ricorda qualche altro testimone, è Gaetano Filangieri a regalare a Cirillo Le fantasticherie del passeggiatore solitario di Rousseau, un libro che risulta congeniale all’inquieto medico. E così si compie l’avvicinamento tra Domenico, Filangieri stesso, e Mario Pagano, il leader della Rivoluzione napoletana (p. 151):

I tre vogliono che Napoli sia più aperta, più moderna, più giusta. Sono consapevoli delle idee che viaggiano per il continente e non hanno paura delle parole pericolose: Uguaglianza, Democrazia, Libertà. Si incontrano in una loggia massonica a picco sul mare per preparare il cambiamento. L’idea del cambiamento è così attraente e potente. Pensano che le cose possano realizzarsi diversamente e che essi siano gli agenti della trasformazione. Agenti che verranno a loro volta trasformati.

Ad agire in modo potente su Domenico è la lettura del Candido di Voltaire. Quel cambiamento che travolge le persone è simile a quello che coinvolge e sconvolge la natura stessa, cosa ben chiara a un naturalista come Cirillo che nell’incontro con Goethe si trova a parlare della Urpflanze, la pianta originaria dalla quale derivano tutte le altre, ovviamente attraverso progressive metamorfosi. E Domenico si spinge ad adottare il motto: «Usando e agendo cresce la repubblica, e non con gli impegni che i timidi chiamano cautela».
La rinuncia alla cautela ci riporta, verso la fine del libro, all’anno con il quale il libro stesso è cominciato, il 1799, quando, tradito d Lady Hamilton che fa anche il suo nome tra quello dei ribelli, Cirillo sale sul patibolo e ha, come ultima immagine (lui, medico attento all’igiene), quella delle unghie sporche del suo aguzzino mentre gli stringe la benda sugli occhi. Nel ricordo, la Hamilton lo sbeffeggia: il popolo non ha voluto giocare alla rivoluzione, e ai ribelli è rimasto Il resto di niente, come s’intitola il libro che Enzo Striano ha dedicato nel 1986 alla Repubblica del’99 e a Eleonora Fonseca Pimentel, una delle anime ispiratrici di quell’esperimento politico: titolo evocato da Quirante Rives direttamente nella formulazione dialettale di quella tipica espressione partenopea: ’o riest ’e nient’.
In sintonia, il romanzo va chiudendosi con una discesa agli inferi del ricercatore con pagine che ricordano la scrittura vorticosa e visionaria dell’autore di Nel corpo di Napoli, ovvero quel Giuseppe Montesano al quale il libro è dedicato. Scrive infatti Quirante Rives, in un passo oniricamente caleidoscopico (pp. 215-216):

È notte all’ospedale Fatebenefratelli e il ricercatore, completamente sedato, sogna di prendere un taxi al mattino.
Per raggiungere il veicolo, schiva un contenitore zeppo di sacchetti di immondizia che blocca l’ingresso dell’ostello sul mare dove alloggia. […] Il ricercatore porta il suo sguardo sul profilo del golfo, torna indietro e si avvicina alla pista di atletica nascosta tra i pini. Il sindaco della città corre sul tartan a passo lento, il capo chinato, nel suo ufficio lo attende l’inquietudine della città più difficile, il sudore libera le tossine delle sue preoccupazioni e ogni giorno ripete il rituale per poter sopportare di nuovo la croce. Questa mattina, getti di sudore scorrevano giù per il suo corpo e penetravano nelle scarpe da ginnastica, iperflessibili e ultraleggere […] il fiume di sudore attraversa il campo fino al balcone panoramico che sovrasta l’acciaieria abbandonata di Bagnoli, la corrente raggiunge le torri metalliche, le corrode tingendole di nero, la zona industriale si oscura davanti allo sguardo incredulo del ricercatore, il tassista che ha assunto per tutto il giorno gli dà una pacca sulla spalla […].

In questo intreccio di passato e presente, di realtà storica e invenzione, ecco allora l’Ombra – dietro, davanti, sopra – la Rivoluzione. Se Ermanno Rea in Mistero napoletano  del 1995 ritiene che lo sviluppo di Napoli si sia arenato con la seconda guerra mondiale e l’arrivo degli americani (e dedica pure nel 2002 un dolente romanzo alla Dismissione di Bagnoli), Raffaele La Capria colloca proprio nel fallimento del 1799 la fine propulsiva di Napoli e l’inizio compensativo di una deleteria “napoletanità” (basta rileggere i suoi saggi riuniti nel 2108 in Il fallimento della consapevolezza).
La pittrice Angelica Kaufmann ci ha lasciato un’immagine ufficiale, tra le tante parole, del medico napoletano, un ritratto “rispettabile” (p. 127):

Angelica suggerisce a Domenico di tenere in mano un libro mentre posa. Labbra carnose e zigomi rosati, il modesto cappello a falda larga che usa per proteggersi dal sole durante le escursioni botaniche, indossa qualcosa con cui ti senti a tuo agio, il suo cappotto color argilla, la giacca abbottonata e la cravatta di batista perfettamente annodata, i pantaloni scuri con fibbia e calze bianche immacolate.

È in questi panni che Cirillo invece non si trova più a suo agio, e anche la città in cui vive si ritrova troppo stretta nell’abito monarchico, repressivo e regressivo. L’uno e l’altra hanno cercato di cambiare perché “essere non è facile” (p. 238). Frase finale che è un suggello non solo per la vita di Cirillo, non solo per la Rivoluzione tentata e fallita, ma in senso più universale della condizione umana stessa.

© Enzo Rega


%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: